Il gioco e la competizione. Un'indagine preliminare sulla cultura organizzativa della scuola calcio[*]
Introduzione
Le statistiche della Federazione Italiana Gioco Calcio (F.I.G.C. 1994) indicano per l'anno 1992 in 30075 le squadre formalmente afferenti al Settore Giovanile; distribuite in 3189 società e coinvolgenti un totale di 507328 tesserati. Inoltre, il confronto tra tali cifre e quelle relative al 1983, rende evidente la forte espansione della domanda indirizzata al Settore (nel 1983, rispettivamente, 17475 squadre, per 4737 società, e 360937 tesserati).
Il mondo del calcio giovanile, costituisce, quindi, una rilevante area di pratica sociale, che coinvolge - direttamente o indirettamente - una quota di popolazione e di attività consistente, ed in espansione.
Questo quadro, d'altra parte, va connesso con la politica di sviluppo elaborata nell'ultimo decennio dal Settore Giovanile della F.I.G.C.. Uno sviluppo evidenziato sia dall'incremento delle attività, differenziate e diffuse a livello territoriale, sia dalla qualità dei servizi offerti e dalle risorse impiegate. Il cambiamento che tale sviluppo ha comportato non ha riguardato solamente aspetti quantitativi, ma esso ha investito la strategia complessiva del sistema, nonché il progetto e la finalizzazione organizzativa, così da rendere possibile l'individuazione di alcuni criteri che di seguito riportiamo[1]:
* valorizzazione delle valenze pedagogiche e di promozione sociale della pratica calcistica di base.
* priorizzazione della funzione di avviamento alla pratica nella attività di base calcistica, rispetto alle funzioni di selezione/avviamento agonistico;
* sviluppo delle risorse umane ed organizzative funzionali alla erogazione di un servizio qualificato (nuove scuole-calcio; formazione degli operatori; attivazione di controlli sistematici; iniziative di promozione e di sensibilizzazione...).
Si veda in proposito quanto scritto nel recente rapporto della FIGC, a cui già ci siamo riferiti.
"Val la pena di soffermarsi sulle più importanti realizzazioni di quest'ultimo decennio, suddividendole per ambiti di competenza
Attività di base
L'impulso maggiore è stato dato sicuramente all'attività di base, incentivando innanzitutto le categorie degli esordienti e dei pulcini e ripristinando, nel giro di pochi anni, la posizione corretta di quella piramide che appariva `rovesciata', con scarsa attività di vertice, soprattutto negli allievi.
In quest'ambito, risultati sempre più confortanti sono stati ottenuti negli ultimi anni sulla strada della `sdrammatizzazione' dell'attività. Allo scopo di attenuare i contenuti eccessivamente agonistici delle manifestazioni per i più piccoli, è stata introdotta la sperimentazione di un'attività motoria apposita per i `primi calci' (6-8 anni) e si è progressivamente affermata l'impostazione ludico-formativa dei tornei `pulcini' (8-10 anni) (...). Nella categoria `esordienti' (10-12 anni) infine, sono state rese obbligatorie cinque sostituzioni ed abolite le finali per l'aggiudicazione dei titoli." (F.I.G.C., 1994, p. 25; grassetto nel testo).
Il Settore Giovanile e Scolastico della F.I.G.C., si trova, quindi, in uno scenario che possiamo tipicamente considerare di "sviluppo organizzativo" (Righi 1990; Norman 1991; Megginson et al 1993). Scenari di tal genere, d'altra parte, costituiscono processi dinamici, mai completamente predeterminabili e lineari, sottoposti a uscite e configurazioni complesse (Bocchi e Ceruti 1985), condizionati da una pluralità di meccanismi e fattori.
In particolare, la letteratura sottolinea la rilevanza che nei processi di sviluppo organizzativo riveste il fattore "risorse umane", ovverossia, l'elemento costituito dalla capacità degli attori di farsi carico e al contempo vettore del processo di cambiamento (Butera 1984 e 1991; Ham e Hill 1986; Paniccia 1989; Bonazzi 1990; Norman 1991; Carli e Paniccia 1993; Salvatore e Paplomatas 1993).
La stessa F.I.G.C. sembra evidenziare la centralità del fattore "risorse umane":
"Prospettive
La grande espansione fatta registrare dal Settore Giovanile e Scolastico nel decennio preso in considerazione, se deve giustamente inorgoglire tutti coloro che in varia misura, a livello centrale o periferico, hanno contribuito a questa crescita, non può né deve essere considerata un traguardo, ma semmai un punto di partenza per il raggiungimento di nuovi obiettivi che, soprattutto sul piano qualitativo, il Settore è sicuramente in grado di conseguire, nel futuro più o meno immediato.
(...)
Ma le cure più attente ed assidue dovranno essere dedicate all'opera di formazione degli operatori di calcio giovanile, siano essi tecnici che dirigenti o gli stessi genitori.
Molto si è fatto, e si dovrà continuare a fare, per mettere a disposizione delle società tecnici specializzati, sempre più qualificati; in via di sviluppo è anche l'attività di formazione dei dirigenti, che dovranno essere stimolati ed aiutati a svolgere con sempre maggior consapevolezza il proprio ruolo.
(...)
Dall'opera di qualificazione degli operatori del settore non potrà che derivare un miglioramento della pratica sportiva dei giovani calciatori e della loro formazione di uomini e cittadini, a tutto vantaggio non soltanto del movimento calcistico, ma della società del domani" (F.I.G.C. 1994, p. 33; grassetto nel testo; corsivo nostro).
La ricerca che qui presentiamo - svolta con la committenza e la collaborazione della F.I.G.C.[2] - si inserisce in tale prospettiva di supporto/sviluppo della competenza professionale dei soggetti di ruolo da cui dipende la qualità del servizio che le scuole calcio erogano; competenza professionale che va a declinarsi entro ed in rapporto al quadro di innovazione e cambiamento che caratterizza il mondo del calcio giovanile[3].
In tale direzione ci si avvale di un modello psicosociale di lettura della fenomenologia organizzativa che parte dal riconoscimento della valenza di autonomia e di discrezionalità degli attori rispetto alla norma organizzativa (Carli e Paniccia 1981; Carli et al 1988; Grasso e Salvatore 1993).
E' opportuno esplicitare per grandi linee tale modello di lettura.
Le teorie organizzative per lungo tempo hanno considerato il comportamento degli attori organizzativi - individuali e collettivi - come una variabile dipendente, determinata dalle norme definite dalla struttura e dalle prescrizioni tecniche determinate dalla natura stessa del compito. Butera, in questo senso, parla di "determinismo tecnologico" (1991). In tale prospettiva, l'organizzazione veniva concepita come un insieme (una macchina o un organismo, a secondo del paradigma prevalente), e le sue parti come elementi subordinati, "naturalmente" predisposti ad assecondare il successo dell'insieme.
Ciò che è importante evidenziare è che in simile ottica il comportamento degli attori non costituisce di per sé un fenomeno da spiegare, in quanto è il risultato atteso dell'adozione dei criteri normativi che l'organizzazione definisce, o, se si vuole, dell'adesione alle caratteristiche oggettive del compito. Le politiche di gestione delle risorse umane si configurano, conseguentemente, come strategie per ottenere dai soggetti organizzativi i comportamenti di ruolo prescritti; come predisposizione delle condizioni (incentivi, punizioni, informazioni) in tal senso utili.
Questo modello generale, di tipo meccanico-consensuale è stato a più riprese messo in discussione, sulla base del principio generale della impossibilità di dedurre prescrittivamente il comportamento organizzativo dal compito tecnico (Bonazzi 1990; Veltz 1992). Vale in questo senso quanto affermano Crozier e Friedberg (1977):
"Non è possibile concepire un'azione collettiva determinata esclusivamente dalle proprietà intrinseche da risolvere.
(...)
In breve, tra la struttura `oggettiva' di un problema e la sua soluzione nell'azione collettiva si inserisce una mediazione autonoma, quella dei costrutti d'azione collettiva" (Crozier e Friedberg 1977; trad. it. pag. 63)
Simile prospettiva implica una critica radicale al presupposto consensualistico delle teorie organizzative classiche. In altri termini, la struttura organizzativa non viene concepita più come un sistema composto da parti integrate in funzione di una necessità oggettiva, ma come il contesto di esercizio di logiche d'azione di cui i soggetti sono portatori dentro l'organizzazione, ma in qualche modo non necessariamente in funzione di essa. Come sottolineano gli ultimi due studiosi citati, il carattere cooperativo dell'azione organizzativa non è un fattore esplicativo del funzionamento, ma un fenomeno da spiegare, in quanto risultato sociale della dialettica conflittuale tra strategie e logiche d'azione coagenti all'interno del sistema organizzativo.
"Al limite, si potrebbe dire che un'organizzazione esiste non tanto grazie a, quanto malgrado l'azione dei suoi membri" (Crozier e Friedberg 1977; trad. it. pag. 63).
Il modello psicosociale di lettura della fenomenologia organizzativa che la presente ricerca assume a fondamento si colloca all'interno di tale prospettiva generale indicante l'irriducibile valenza di autonomia e di discrezionalità dei soggetti organizzativi[4].
In particolare, il modello prevede che:
* il comportamento organizzativo non è mai determinato esaustivamente dai criteri tecnici (connessi alle caratteristiche del compito), in quanto intervengono altri criteri, più generali, che possiamo definire "metacriteri" o "criteri organizzativi";
* tali criteri organizzativi sono rappresentazioni del contesto socio-tecnico all'interno del quale l'azione organizzativa si realizza;
* in questo senso, costituiscono delle funzioni di significazione attraverso le quali il soggetto organizzativo, al contempo da senso ed orientamento alla propria attività di ruolo;
* tali criteri organizzativi, inoltre, se da un lato sono recepiti ed adottati dai singoli individui, e sono rintracciabili nei discorsi dei singoli, al contempo sono intrinsecamente sociali, nel senso che costituiscono il prodotto di un processo sociale, si riferiscono a dimensioni sociali, e sono recepibili dagli individui nella misura in cui essi si identificano con il dominio contestuale socialmente condiviso;
* ancora, essi sono in parte espliciti, in parte impliciti e non necessariamente riconosciuti dagli attori;
* ciò in quanto derivano dall'intreccio di rappresentazioni operative ed affettive. In altri termini, i criteri che significano e guidano l'azione organizzativa sono sempre "culturali"[5], nel senso di essere la risultanza della partecipazione razionale ed insieme emozionale al contesto di lavoro.
In sintesi, quindi, il modello di lettura che utilizziamo prevede che le relazioni sociali (da quelle duali a quelle plurime e organizzate) si caratterizzano per l'incrocio di una componente operativa e di una affettiva[6] che interviene a dare significato emozionale alla prima che pure accompagna. In genere le due componenti risultano reciprocamente funzionali, in modo che la componente affettiva si costituisca come fondamento semiotico e motivazionale per l'attività organizzata, mentre la dimensione operativa funziona da "contenitore" dei processi affettivi in gioco.
Un corollario di tale modello è che le situazioni di innovazione organizzativa si costituiscono come momento critico in quanto implicano la revisione dei meta-criteri, che, a differenza dei criteri specifici, si prestano meno ad essere modificati, sia in quanto più astratti e generali, sia, soprattutto, in quanto radicati affettivamente, cioè, espressione e veicoli, cioè, della connotazione emozionale che accompagna l'esperienza di ruolo dei soggetti[7]. In questo senso, quindi, l'innovazione organizzativa si costituisce per definizione come rottura dell'assetto culturale - fondato sulla comune simbolizzazione affettiva - che presiedeva al normale[8] funzionamento del sistema (Salvatore e Paplomatas 1993).
La nostra indagine è partita da questo corollario.
Essa, in particolare, si è data come obiettivo quello di individuare gli aspetti di criticità dello sviluppo organizzativo, per come tali aspetti investono la specificità del ruolo degli operatori in gioco.
In quest'ottica, si intende:
a) individuare gli elementi di funzionamento organizzativo che esprimono la criticità connessa al cambiamento;
b) descrivere i modelli di ruolo che gli allenatori adottano come meta-criteri orientanti la loro prassi professionale;
c) proporre una lettura funzionale e genetica di tali modelli, in modo da connetterli alla dinamica organizzativa complessiva.
Va d'altra parte detto che la presente ricerca intende porsi come momento preliminare di indagine, mantenendo così un obiettivo limitato, di esplorazione degli universi rappresentazionali presenti nella categoria di ruolo analizzata, al fine di costruire delle ipotesi da sottoporre a successiva sistematica verifica attraverso l'impiego di idonei strumenti di rilevazione e di congruenti modelli di analisi dei dati.
La metodologia
Seguendo una consolidata prassi di ricerca, per l'indagine è stato adottato il sistema dell'intervista semi-strutturata, in cui l'intervistatore si limita a produrre stimoli generici che sollecitano la reazione libero-associativa del soggetto (Grisez 1975).
Nel caso in oggetto, la quota di strutturazione data all'intervista riguarda l'articolazione dello spettro di insistenza della stessa. In questo senso, tale spettro è stato predefinito sui seguenti punti:
1. il compito di ruolo
2. l'utenza
3. l'organizzazione
4. l'ambiente, i fattori di criticità e i bisogni formativi.
I soggetti intervistati sono stati sottoposti ad un colloquio introdotto dalla seguente domanda dell'intervistatore: "Ci parli della sua attività nella scuola calcio". Anche nel proseguo dei colloqui l'intervistatore ha limitato i propri interventi a domande generali (dello stesso livello di genericità dello stimolo iniziale), volte a sollecitare il discorso del soggetto sull'intero spettro di interesse della ricerca, nei casi in cui tale evenienza non si realizzava spontaneamente. In questo modo si è inteso minimizzare la valenza di orientamento/condizionamento selettivo che l'intervista necessariamente produce sulle forme espressive della cultura di ruolo, nel momento in cui sollecita l'interlocuzione intersoggettiva. In altri termini, si è voluto favorire la libera espressione discorsiva degli interessati, in modo da recuperare attraverso le produzioni verbali gli elementi costitutivi e organizzatori delle rappresentazioni di ruolo proprie dei soggetti campionati.
Le interviste - della durata media di 45 minuti - sono state condotte contemporaneamente dai due autori e registrate su nastro. Il materiale così raccolto è stato sottoposto ad analisi di contenuto.
L'analisi del contenuto più che un procedimento standard di ricerca, rappresenta una famiglia di metodologie, o meglio, una disposizione generale - di natura indiziaria (Ginzburg 1992; Carli 1992) - nei confronti dei dati (Bardin 1977). Risulta perciò necessario chiarire i lineamenti generali del modello che ha guidato la nostra analisi, in funzione del carattere preliminare ed esplorativo della stessa; rimandando per un approfondimento dello stesso a quanto scritto altrove.
Innanzitutto, le produzioni discorsive degli attori entro un contesto vanno considerate prodotti di un sovraordinato sistema rappresentazionale socialmente condiviso (Jodelet 1989; Doise 1989) , che orienta le produzioni discorsive stesse, e che può essere definito in termini di "cultura organizzativa" (Caviglia et al 1992; Morozzo Salvatore 1994).
* Per questa ragione, per quanto tali produzioni possano apparire tra loro idiosincratiche e eterogenee sul piano fenomenologico, mantengono una omogeneità strutturale, in quanto esiti linguistici di un medesimo campo culturale, di un medesimo sistema rappresentazionale (Carli 1990; Rubino e Salvatore 1992).
* Tale campo culturale si caratterizza come sistema di categorie che un determinato sistema sociale ha a disposizione per significare l'ambiente su cui insiste.
* In questo modo, ogni produzione linguistica, ogni discorso, costituisce l'espressione di tale sistema categoriale - per sua natura implicito - posto a suo fondamento semantico.
La metodologia di analisi che sulla base di tali presupposti si è adottata può essere sintetizzata nei seguenti punti.
Il primo è costituito dal raggruppamento delle produzioni linguistiche registrate per temi omogenei. In questo modo, elementi discorsivi che si reiterano all'interno della stessa intervista e tra le interviste vengono riuniti in rapporto alla comune posizione che assumono nel sistema rappresentazionale condiviso; con il risultato di individuare alcuni raggruppamenti - che definiamo "nuclei" - discorsivi che al contempo costituiscono e configurano il campo rappresentazionale. Le produzioni discorsive così raggruppate vengono differenziate per i punti dello spettro in precedenza descritto.
Successivamente, si arriva ad una descrizione della possibile struttura semantica a tali nuclei sottesa, struttura da intendere, appunto, come l'organizzazione interna del campo semantico condiviso dagli attori.
Da tale pur sommaria descrizione del procedimento metodologico adottato, appare evidente come l'analisi non si limita ad un obiettivo descrittivo, ma intende assumere una valenza inferenziale, orientata alla individuazione delle determinanti strutturali degli elementi discorsivi raccolti sul piano descrittivo.
E' su tale livello dell'indagine che si colloca l'obiettivo della ricerca di individuare un'ipotesi sul rapporto (genetico e funzionale) tra le caratteristiche organizzative ed operative del contesto e i sistemi culturali al suo interno agiti dagli attori, in funzione della progettazione di una strategia di supporto delle competenze di ruolo degli allenatori.
Si è proceduto ad intervistare 6 allenatori di scuole calcio, con una esperienza di ruolo significativa, distribuiti su tre aree geografiche generali (Nord, Centro e Sud Italia, 2x3).
La tabella 1 riporta i dati generali relativi all'universo delle squadre presso scuole calcio e alle categorie di utenza intorno alle quali esse si articolano. La nostra analisi riguarda in particolare l'attività rivolta all'utenza di 8-12 anni (categorie "pulcini" e "esordienti").
Evidentemente, una numerosità così esigua non consente di attribuire rappresentatività statistica al campione. Tale limite, d'altra parte, non risulta rilevante dato il carattere esplorativo e preliminare dell'indagine. Per la stessa ragione, si è ritenuto il campione al suo interno omogeneo, indipendentemente da un insieme di variabili che potrebbero avere un effetto interveniente sulla varianza delle produzioni linguistiche (età, status socio-culturale, posizione organizzativa, ecc.). La determinazione di tali variabili, per la loro specifica incidenza, rappresenta un momento ulteriore di ricerca, che si intende successivamente perseguire.
Tabella 1
Squadre presso scuole calcio per categoria di utenza (periodo 1982/83-1991/92).
Stagione 1982/83 1984 1985 1986 1987 sportiva Categoria Allievi 4737 4858 5102 5231 5569 Giovanissimi 5440 5695 6143 6011 5674 Esordienti 4669 5221 5749 5353 6212 Pulcini 2629 3388 4345 4559 6857 Totali 17475 19162 21229 21154 24312
Stagione 1988 1989 1990 1991 1992 sportiva Categoria Allievi 5783 5516 5687 5758 5581 Giovanissimi 5753 6789 6745 6750 6742 Esordienti 6749 7065 7233 7539 7794 Pulcini 7925 7696 8597 9315 9958 Totali 26210 27066 28262 29362 30075
Fonte: F.I.G.C. 1994
I risultati
I risultati che illustriamo in questa sezione rappresentano l'esito delle elaborazioni del materiale raccolto nelle interviste, secondo il procedimento descritto nella sezione precedente. La presentazione di tali risultati sarà articolata in tre parti. Inizialmente, si riportano gli elementi di criticità della fenomenologia organizzativa in oggetto. In secondo luogo, i nuclei discorsivi in cui è stato possibile organizzare il materiale linguistico. Successivamente si propone la struttura rappresentazionale risultante dalla rete di nuclei individuati.
Gli elementi di criticità
I colloqui con gli allenatori hanno consentito di rilevare alcuni elementi che possiamo intendere di volta in volta come riscontro, come indicatore o segnale indiretto di una problematicità organizzativa[9]. In particolare, si evidenziano i seguenti aspetti.
1) Lamentare una non completa realizzazione del cambiamento.
I soggetti intervistati condividono l'immagine di una organizzazione che non ha ancora compiutamente realizzato il passaggio innovativo, ancora alle prese con l'implementazione della nuova politica[10]. Una organizzazione, cioè, che mantiene aree e processi di funzionamento propri del precedente modello strategico, che (per come gli stessi allenatori propongono) prefigurava una pratica dell'avviamento all'attività calcistica risultante al contempo:
* poco professionalizzata;
* scarsamente interessata alle valenze psico-pedagogiche, in quanto concentrata sugli aspetti tecnico-atletici, concepiti come esaustivi del dominio di esperienza costitutiva della partecipazione dell'utenza e dell'azione di ruolo dell'allenatore;
* ancorata ai modelli propri delle pratiche di calcio giovanili e degli adulti (per cui i bambini utenti delle scuole si connotano come calciatori in piccolo, secondo una differenza quantitativa piuttosto che qualitativa);
* in questo ultimo senso, significativamente permeabile alle esigenze e finalità delle società di calcio e degli altri attori e interessi che animano il settore agonistico.
Tracce di tale modello sono lamentate dagli allenatori soprattutto in rapporto a:
* la ridotta disponibilità al cambiamento dei soggetti di ruolo meno professionalizzati (la funzione dell'allenatore viene svolta da due ruoli, l'allenatore giovani calciatori e l'istruttore. Questo secondo ruolo è accessibile solo a soggetti in possesso di diploma ISEF);
* la difficoltà del Settore a sostenere la pressione ambientale orientata da interessi ed opzioni legate alla logica che configura le scuole calcio come serbatoio di risorse per il mercato[11].
Alla dimensione rappresentazionale che polarizza valorialmente e normativamente, giustapponendo "il vecchio" (negativo) ed "il nuovo" (positivo), si accompagna sul piano affettivo , quindi, la sistematica scissione del campo rappresentazionale in buoni e cattivi. In altre parole, chi parla si rappresenta sistematicamente un altro da sé cattivo che non ha aderito alla nuova (buona) prospettiva. Le diverse articolazioni organizzative vengono utilizzate come appoggio e pretesto per tale dispositivo scissorio: istruttori versus allenatori; scuola calcio versus società professionistiche; allenatori versus genitori.
2) La difficile comunicazione tra le aree intra ed interorganizzative.
Da un lato, infatti, viene lamentata la problematicità e frammentarietà di alcune delle richieste delle committenze (genitori, scuole professionistiche, le altre agenzie educative, la dirigenza delle stesse scuole calcio). Dall'altro, si riconosce l'elevato impegno e impatto che comporta la gestione del rapporto con l'utenza infantile. ("abbiamo una grande responsabilità: tutto ciò che facciamo i bambini lo prendono ad esempio"; "c'è un momento in cui per i bambini contiamo più noi allenatori che gli stessi genitori"). Non è quindi un caso che i soggetti intervistati concordano nel considerare come principale bisogno formativo la competenza relativa alla gestione delle dimensioni psico-sociali implicate nella relazione con l'utenza. In tale riconoscimento, infatti, è implicita l'ammissione di una criticità a carico della possibilità dell'azione tecnica: si riconosce che la funzione specialistica (allenare) non è possibile se non nella misura in cui si può controllare ed orientare funzionalmente il contesto di rapporto all'interno del quale la funzione specialistica stessa va ad esercitarsi.
I nuclei discorsivi
Come detto, è stato possibile raggruppare l'insieme delle produzioni discorsive in quattro ampie categorie. Di seguito riportiamo per ciascuna di esse una breve definizione ed esempi di materiale linguistico, assemblato per i punti di articolazione dell'indagine.
I quattro nuclei sono:
1. L'animazione ludica.
2. Formare il carattere.
3. La disciplina di gioco.
4. I fondamentali.
1) L'animazione ludica
Questa categoria discorsiva raccoglie le frasi che connotano la scuola calcio come luogo di esperienza ludica, e la pratica di avvio al calcio come momento di gioco per gli utenti.
I soggetti intervistati declinano tale connotazione secondo due direttrici, connesse e quindi ricomposte nella polarità del rapporto allenatore-giovane calciatore. Da un lato, infatti, la scuola calcio è rappresentata come un'occasione ed un luogo di gioco, entro il quale i bambini possono veder soddisfatta l'esigenza ludica di cui sono portatori ("i bambini vengono qui perché voglion divertirsi; spesso gli altri significati vengono imposti da chi sta loro intorno, a cominciare dai genitori"; "i bambini vengono fondamentalmente per divertirsi. Non credo che vengano per imparare a giocare a calcio. Questa è più una aspettativa degli adulti"). Questa esigenza viene accolta dai soggetti intervistati in termini normativi, come criterio che deve informare l'insieme dei dispositivi del processo di apprendimento ("se c'è qualcosa che i ragazzi debbono imparare, comunque deve avvenire in modo che rimanga un gioco, senza caricarli di compiti e responsabilità, senza annoiarli"). Dall'altro, la scuola calcio è descritta come dotata di una valenza educativa, in quanto strumento di socializzazione e di trasmissione dei valori di solidarietà e di rispetto, che accompagnano la partecipazione guidata alla vita del gruppo e la pratica sportiva. In proposito, un operatore ha esplicitato di sentirsi in primis un educatore, e poi un allenatore. Un altro ha sottolineato che intende la sua attività come una funzione di impegno civile e di promozione sociale nell'ambito di un quartiere periferico degradato e marginale. Infine, praticamente tutti gli allenatori hanno in qualche modo fatto riferimento a casi di ragazzini problematici ("timidi", "taciturni", "isolati") che attraverso la socializzazione indotta dalla partecipazione alla scuola hanno mostrato "sorprendenti" cambiamenti ("una volta il padre di un ragazzo è venuto a ringraziarmi").
La connotazione pedagogica si ritrova anche nel modo di rappresentare il rapporto di docenza, nei termini propri della relazione educativa. Gli allenatori, infatti, sottolineano come i bambini investano in termini idealizzati e identificatori la loro figura, e che tale modalità affettiva costituisce al contempo una dimensione di elevato impatto emozionale e di criticità organizzativa ("abbiamo una grande responsabilità. Questi ragazzi non solo cercano di imparare da noi, ma ci prendono a modello"). E' a quest'ultimo aspetto che si ricollega quanto in precedenza osservato in merito al fatto che tutti gli intervistati hanno sottolineato come l'area del rapporto con i bambini costituisce il momento di maggior criticità dell'esercizio della funzione di ruolo, e il luogo dove maggiormente è avvertita l'esigenza di un supporto formativo.
Sul piano organizzativo e del rapporto con l'ambiente, la connotazione ludico-educativa costituisce un punto critico, il crinale di un conflitto. Gli allenatori intervistati, infatti, da un lato si riconoscono portatori di tale connotazione; dall'altro lamentano il fatto che nel sistema organizzativo, così come negli atteggiamenti delle famiglie dei ragazzi, essa non trova consenso pieno, ma è antagonizzata da una declinazione della scuola calcio come momento di costruzione del futuro calciatore professionale.
Il conflitto che viene segnalato tra queste due logiche si esprime su diversi crinali:
* innanzitutto, si riscontra negli interessi divergenti tra le scuole calcio e le società interessate a reperire futuri calciatori da immettere nel circuito professionistico;
* si ritrova, conseguentemente, nel rapporto tra gli allenatori e i dirigenti delle scuole, che rintracciano nei risultati agonistici i segni maggiormente riconoscibili del successo organizzativo[12];
* infine, si riverbera all'interno della funzione di ruolo, reificata nella segmentazione dicotomizzata tra personale specializzato e non specializzato, in rapporto alla disponibilità a recepire il nuovo orientamento delle scuole calcio, volto a valorizzare la dimensione pedagogica-partecipativa, rispetto a quella agonistico-selettiva[13].
Anche il rapporto con i genitori dei ragazzi risulta informato da tale conflitto. Gli allenatori distinguono due categorie di genitori. Quelli "buoni", che affidano i propri figli all'allenatore, con il quale stabiliscono un rapporto fiduciario, sulla base del riconoscimento delle competenze. Quelli "cattivi", che interpretano la partecipazione dei figli in termini competitivi, e conseguentemente, espongono questi e gli allenatori a continue richieste e proteste, volte a perseguire/garantire il "successo" dei figli.
2) Formare il carattere
Si tratta di un insieme di discorsi ed osservazioni che, se pure rientrano nella sottolineatura della valenza educativa della pratica calcistica, si differenziano dal materiale raccolto nel nucleo descritto al punto precedente per una specificità che ne accomuna i riferimenti. Tale specificità riguarda la connessione della valenza educativa alle componenti di frustrazione e sacrificio connessi con esperienza della partecipazione all'evento agonistico. Si tratta, quindi, della sottolineatura del valore formativo della lotta e del sacrificio, della dedizione alla causa comune e del riconoscimento dell'avversario.
Questo vertice rappresentazionale sembra il risultato dell'intreccio della valorizzazione del senso pedagogico che gli allenatori attribuiscono alla loro funzione, con il riconoscimento della qualità intrinsecamente competitiva del gioco in questione. La sintesi che ne deriva è la evidenziazione delle valenze educative di quegli eventi e fattori che sono connessi a:
* l'esercizio della coesione di gruppo in rapporto al conflitto con l'outgroup (= lo spirito di squadra, il riconoscimento del legame cooperativistico con i compagni, versus ed in funzione dell'avversario);
* la capacità di sostenere e delimitare l'implicazione emozionale e simbolica connessa all'agito del conflitto, in modo che le pulsioni distruttive che tale agito sollecitano ed accompagnano possano al contempo essere contenute da una funzione di realtà capace di portare al riconoscimento dell'alterità (= il saper perdere, il riconoscere i meriti dell'avversario).
Ambedue queste classi di fattori, evidentemente, si qualificano per il fatto di riconoscere nel rapporto conflittuale e competitivo con l'Altro una valenza pedagogica.
3) La disciplina di gioco
Sono stati raccolti in questa categoria le produzioni discorsive relative alla rappresentazione del gioco del calcio come sistema organizzato, articolato ed interdipendente di comportamenti, veicolato da un gruppo sociale (la squadra).
Abbiamo già avuto modo di osservare (cfr. punto 1) come gli allenatori tendano a bypassare tale modulo rappresentazionale, ricorrendo ad un meccanismo di scissione, attraverso il quale questa dimensione viene separata dal ruolo ed attribuita a soggetti altri (genitori, società professionistiche, ecc.). A ciò si accompagna la sottolineatura del fatto che le esigenze dettate dalla "tattica" (espressione peculiare della disciplina di gioco) intervengono a ridurre il carattere omogeneo e ludico del gioco e, al contempo, a rendere necessarie decisioni differenzianti il gruppo dei bambini (ad. es. selezionando per le partite gli utenti in rapporto alle abilità)[14].
D'altra parte, le caratteristiche strutturali del gioco del calcio e dell'attività di avviamento a tale gioco connessa non consentono al meccanismo di scissione di saturare completamente il campo rappresentazionale. In altri termini, la realtà del compito di ruolo detta all'allenatore la necessità di farsi carico - sia pure parzialmente e ambivalentemente - della dimensione in questione.
Da questo lato la "disciplina di gioco" viene declinata secondo il suo aspetto di sistema organizzato, nei termini cioè di corollario qualificante del carattere intrinsecamente sociale e sistematico del calcio e fondamento funzionale del ruolo stesso[15]. Da questo vertice rappresentazionale, gli allenatori evidenziano il carattere finalizzato del gioco del calcio[16], e la dialettica tra il tendenziale egocentrismo dei bambini e le esigenze di decentramento cognitivo necessario per partecipare all'organizzazione di gioco.
Quando e nella misura in cui l'allenatore assume sul proprio ruolo la connotazione "disciplina di gioco", egli avverte che l'esercizio che ne deriva lo espone alla pressione di quell'insieme di attori intra ed interorganizzativi rappresentati come portatori della visione del calcio secondo la logica competitiva e finalizzata. Come in precedenza detto, questo aspetto viene in particolare segnalato dagli intervistati in riferimento ai genitori dell'utenza. Tale riferimento si realizza attraverso l'esasperazione stereotipale di casi ed episodi di genitori che intervengono in modo scomposto ed invasivo nella funzione di ruolo dell'allenatore, genitori desiderosi di vedere nel figlio il futuro campione e per questa ragione pronti a protestare per un cambiamento di ruolo in campo, per qualche minuto di partita giocato in meno, per una esclusione. Gli intervistati hanno riportato in proposito molti episodi, sottolineando unanimemente il fatto che questa dimensione è una delle più problematiche, implicante la necessità di continue mediazioni e la predisposizione di confini organizzativi a protezione delle possibilità di esercizio della funzione[17].
In conclusione, quindi, è risultato evidente che l'area della disciplina di gioco costituisca per l'allenatore il momento di esposizione al conflitto inter ed interorganizzativo che del resto ogni decisione comporta, a maggior ragione se esercitata in rapporto a dimensioni di incertezza critica (nel nostro caso lungo il crinale gioco-competizione).
4) I fondamentali.
Sono stati raggruppati in questa categoria le affermazioni attinenti all'immagine della funzione di ruolo come orientata a realizzare in favore dell'utenza l'apprendimento individuale delle regole e dei comportamenti elementari presupposto e base delle possibilità di esercizio del gioco del calcio (ad. es. le regole del gioco, gli schemi di coordinamento motorio, le procedure prassiche per controllare il pallone e i movimenti).
Questo aspetto del ruolo sembra quello meno valorizzato, come se si trattasse dell'esercizio di una funzione necessaria, ma di per sé non significativa, solo propedeutica. D'altra parte, nei discorsi degli intervistati questa componente del ruolo sembra quella maggiormente protetta da fonti di perturbazioni organizzative ed ambientali, quella sulla quale gli allenatori esprimono maggiore capacità di controllo.
Anche nei confronti dei bambini utenti l'apprendimento dei fondamentali individuali del gioco risulta un processo in sé non problematico, in quanto funzionalmente connesso alla modalità di fruizione dell'esperienza propria dei soggetti di quell'età, al contempo concreta e idealizzante ("i bambini non chiedono altro che un pallone per rincorrerlo"; "noi allenatori siamo una specie di figura mitica per i ragazzi di quell'età. Pendono dalle nostre labbra; si butterebbero nel fuoco se glielo chiedessimo").
Non a caso, su questa area si è riscontrata la massima omogeneità nelle opinioni e rappresentazioni raccolte. Gli intervistati si ritrovano d'accordo nel definire le dimensioni tecnico-operative che rientrano in questa componente di compito (ad esempio, la distinzione/composizione tra gli aspetti di apprendimento del controllo di palla e l'addestramento atletico), così come i parametri all'interno dei quali tale compito si declina (ad. esempio, la necessità di predisporre incentivi motivazionali intrinseci alle procedure di addestramento per contrastare la curva dell'attenzione dell'utenza).
Inoltre, gli allenatori non riconoscono conflitti e divergenze sostanziali in quest'ambito, né all'interno della categoria di ruolo, né nel sistema organizzativo, né nel rapporto con l'ambiente.
In questo senso, l'apprendimento dei fondamentali si costituisce come area di esercizio della funzione di ruolo che - in quanto maggiormente disponibile ad essere parametrata e rappresentata secondo criteri tecnici, è anche quella più riconoscibile consensualmente e meno esposta alle turbolenze ambientali.
Prima di concludere la sezione, vorremmo avanzare alcune osservazioni.
Innanzitutto, è rilevante evidenziare il fatto che i nuclei discorsivi enucleati si presentano, sia pure con salienza variabile, in tutte le sei interviste. In questo senso, quindi, possiamo ipotizzare che essi costituiscono una mappatura cognitiva sistematica e peculiare della cultura di ruolo in oggetto.
In secondo luogo, va rilevato che l'insieme delle produzioni discorsive raccolte può essere raggruppato in maniera omogenea nelle quattro grandi categorie, in modo tale da considerare il modello rappresentazionale che tali nuclei implicano dotato al contempo di una sua esaustività, completezza e omogeneità.
In terzo luogo, si vuole evidenziare il fatto che il quadro proposto ha carattere tridimensionale. Da un lato, infatti, le produzioni discorsive sono state raccolte in termini che topologicamente abbiamo definito nuclei, in modo da costruire uno spazio bidimensionale fatto di addensamenti e vuoti. Contemporaneamente, e complementarmente, tale spazio è suscettibile di una ulteriore articolazione su una terza dimensione, quella relativa all' articolazione dello spettro di indagine, che è stata effettuata secondo variabili proprie del pensiero organizzativo (organizzazione, attori organizzativi, ambiente e utenza).
In questo senso - e questo è il quarto elemento che si vuole sottolineare - la denominazione dei nuclei è puramente indicativa e convenzionale, ed è stata effettuata utilizzando una parte per il tutto, selezionando, cioè, un elemento dello spazio tridimensionale come indicatore dell'insieme del nucleo[18].
Infine, va osservato che gli elementi proposti sembrano coesistere con un basso livello di interazione ed integrazione all'interno delle interviste. Tale basso livello - come riportato in precedenza - si manifesta attraverso specifici processi rappresentazionali. In particolare:
* non sussiste una rete cognitiva la cui configurazione sia sistematicamente rintracciabile tra le interviste. In altri termini, ogni intervistato sembra proporre una idiosincratica modalità di tenere assieme i quattro nuclei, attraverso meccanismi a loro volta differenziati (negazione, contraddizioni, ricomposizioni, ancoraggi, ecc..);
* gli intervistati non esplicitano le implicazioni dialettiche che i nuclei propongono reciprocamente. In questo senso, le affermazioni relative a nuclei diversi sembrano per certi versi tra loro isolate[19], a volte contraddittorie[20].
* l'interazione tra i nuclei sembra sistematicamente veicolata e al contempo riconosciuta soltanto quando la scena risulta composta da un lato dalla propria specifica categoria di ruolo e dall'altro da un alter (i bambini, le famiglie, la scuola, i dirigenti). Solo in scenari di questo tipo, definiti in termini dicotomici Sé (di ruolo) - non Sé, i nuclei vengono rappresentati nelle loro valenze dialettiche, e in questo modo riconosciute nella esigenza di una ricomposizione.
Il modello rappresentazionale
I quattro nuclei rappresentazionali possono essere articolati reciprocamente sullo spazio bidimensionale che li contiene utilizzando due polarità generali, implicate nei discorsi degli intervistati riportati nella precedente sezione.
La prima polarità riguarda il significato generale da attribuire al processo organizzativo che la scuola calcio costituisce. In questo senso, tale significazione sembra avvenire nei termini dicotomici:
* educazione - apprendimento.
Con "educazione" intendiamo segnalare la rappresentazione di una pratica che mira a trasmettere all'utenza valori e credenze. Tale pratica, in altri termini, viene dagli allenatori assimilata alla rappresentazione del processo di crescita morale e dell'uscita dalla condizione neotenica (Beretta e Barbieri 1974; Morozzo e Salvatore 1994) che caratterizza la socializzazione primaria.
L'oggetto di tale funzione non è quindi la realizzazione di una competenza, quanto, piuttosto, il cambiamento della persona stessa, la selezione in esso di comportamenti socialmente qualificati e desiderabili. L'opposto di tale criterio è rappresentato dall'apprendimento, inteso come funzione di produzione di competenze specifiche, descrivibili in maniera operativa, circoscrivibili e delimitate nel loro dominio di esercizio (competenze cognitive, motorie, logico-strategiche).
Figura 1 - Modello rappresentazionale proprio degli allenatori scuole calcio
Educazione | | Animazione | Formare il ludica | carattere | | | | Gioco ------------------------|---------------------------Agonismo | | | | Fondamentali | Tattica | | | | Apprendimento
La seconda dimensione attiene alla connotazione a cui viene sottoposto l'oggetto-contesto di apprendimento, il calcio. In questo senso, le connotazioni si polarizzano in termini:
* gioco/agonismo.
Assolutizzando tipologicamente i due termini, possiamo osservare che declinare il calcio come "gioco" implica connotarlo come attività non competitiva, luogo di socializzazione cooperativa, come occasione di esercizio di pratiche prosociali. Al contempo, significa azzerare tendenzialmente le dimensioni normative ed organizzate che esso comunque possiede[21] -secondo una stereotipizzazione che oppone divertimento ad attività organizzata- a favore della evidenziazione del carattere intrinseco ed autoreferente della finalizzazione (=l'obiettivo del gioco è giocare).
Di contro, rappresentare il calcio come attività agonistica significa riconoscere il carattere a somma zero del rapporto sociale che il gioco stesso realizza. Significa, quindi, implicare una scena triadica, composta da una coppia in conflitto rispetto ad un oggetto terzo (il risultato, la vittoria, il premio; se si vuole, l'oggetto buono[22]). E' all'interno ed in funzione di tale competizione che trova modo di ancorarsi e oggettivarsi il senso dell'organizzazione e della disciplina di gioco.
Se si incrociano queste due dimensioni, presupponendo il loro carattere reciprocamente indipendente[23], si ottiene un campo rappresentazionale formato da quattro quadranti, all'interno di ciascuno dei quali è possibile collocare uno -ed uno solo- dei nuclei discorsivi rintracciati, così come riporta la figura 1).
Nel prossimo paragrafo approfondiremo gli aspetti genetici e funzionali del modello rappresentazionale così descritto.
Discussione
In questa sezione intendiamo rispondere a due interrogativi che la descrizione del modello rappresentazionale sollecita.
a) come può essere spiegato sul piano della genesi psicosociale il modello rappresentazionale descritto. In altre parole, perché il modello è proprio quello riportato in figura 1 e non un altro?
b) come interviene tale modello nell'ambito dell'azione di ruolo? In altri termini, che nesso si può individuare tra il modello rappresentazionale e funzionamento organizzativo della scuole calcio?
Affrontiamo i due punti separatamente.
La genesi del modello rappresentazionale
La letteratura psicosociale ha evidenziato come ci sia un rapporto tra i modelli rappresentazionali che gli attori veicolano all'interno delle organizzazioni e le caratteristiche strutturali del compito e dell'organizzazione stessa (Carli e Paniccia 1981, 1993; Salvatore e Rubino 1992; Caviglia et al 1992; Grasso e Salvatore 1993; Morozzo e Salvatore 1994).
Non è questa ovviamente la sede per un approfondimento di tale problematica teorica[24]. Qui ci limitiamo a segnalare le dimensioni strutturali dell'organizzazione scuola calcio che, secondo il modello adottato, si ipotizza costituiscano le leve genetiche del sistema rappresentazionale.
Innanzitutto, si può osservare che un asse del modello (educazione/apprendimento) esprime una dialettica rappresentazionale che è tipica di tutti quei contesti organizzativi di natura formativa, in primis la scuola. Rimandiamo anche in questo caso ai lavori di indagine psicosociale sulla funzione di ruolo del docente per verificare come la dicotomia educazione/apprendimento si proponga nei termini di costante organizzatore rappresentazionale che informa di sé la cultura di ruolo in oggetto. Ciò in quanto il processo di apprendimento implica -e al contempo sollecita- sul piano affettivo una dimensione fantasmatica di natura duale (Carli et al 1980; Carli e Paniccia 1981), evocativa di movimenti identificatori ed idealizzanti, che trovano modo di esprimersi e reificarsi all'interno ed attraverso la ipostatizzazione di una funzione parentale che connota il rapporto docente-discente mimeticamente al rapporto genitore-bambino.
In questo senso, quindi, l'asse si definisce tale in quanto le scuole calcio, come dice la parola stessa, sono scuole.
Il secondo asse può essere connesso con una seconda pregnante caratteristica strutturale del sistema organizzativo in oggetto, quella relativa al tipo di competenza che la scuola calcio promuove. Alcune osservazioni in merito.
Innanzitutto, il calcio, strutturalmente, è un'attività sociale che rientra nella categoria dei "giochi a somma zero". In altri termini, nel calcio ciò che un attore (la squadra) realizza ed ottiene come vantaggio per sé corrisponde a ciò che l'altro attore (l'altra squadra) perde. Il carattere a somma zero è reso ancora più evidente dal fatto che la scena è occupata da solo due attori, il che rende immediatamente visibile la diretta e speculare corrispondenza tra acquisizione e perdita.
La nostra ipotesi è che questa caratteristica strutturale del calcio sollecita sul piano fantasmatico simbolizzazioni affettive che configurano la scena sociale contesto del gioco nei termini dello schema amico-nemico, secondo il modello mors tua vita mea. Ciò, in altre parole, significa che sul piano emozionale dell'inconscio (cioè sul piano di quella funzione mentale che procede per categorizzazioni assolute, omogeneizzanti e sdifferenzianti) una partita di calcio è assimilata (anzi, data la modalità reificata del pensiero inconscio, è) ad una battaglia[25].
Sono numerosi gli esempi e le tracce che il mondo del calcio (così come, più in generale il mondo sportivo) offre a sostegno ed esemplificazione dell'ipotesi qui formulata. Si pensi, ad esempio, alle modalità attraverso le quali si esercita la partecipazione dei tifosi. Si pensi, inoltre, a come il linguaggio del calcio e sul calcio sia fortemente influenzato dalle retoriche militari o comunque del conflitto[26].
Questa dimensione fantasmatica si traduce sul piano della cultura di ruolo nella dicotomia gioco-agonismo. In tale processo semiotico sembrano implicati specifici movimenti rappresentazionali e istituzionali.
Innanzitutto, la dicotomia si presta ad essere letta come l'esito di un processo di scissione che separa e contemporaneamente reifica in due connotazioni giustapposte e reciprocamente indipendenti e contraddittorie le due componenti del modello amico-nemico che abbiamo considerato come fondamento fantasmatico dell'attività calcistica intesa come azione sociale a somma zero. Le due componenti in questione sono le direttrici delle pulsioni di vita e di morte in funzione delle quali la simbolizzazione affettiva orienta i comportamenti e gli affetti all'interno della scena sociale in maniera da assicurare la reciprocità[27] tra gli attori. In altre parole, la scena sociale nel momento in cui è declinata in termini di conflitto, attraverso il modello mors tua vita mea, si articola in due aree: l'area del nemico, come luogo di esercizio della distruttività, e l'area dell'amico, come luogo di esercizio dell'appartenenza affiliativa e coesiva. In realtà, le due componenti non sono distinguibili ed articolabili tra loro. Le separiamo qui solo per necessità di discorso. Esse costituiscono, piuttosto, l'una il reciproco dell'altra, le due facce della stessa medaglia. In questo senso, possiamo dire che la simbolizzazione dell'altro come nemico implica strutturalmente, anzi, sul piano emozionale, tout court è la coesione difensiva del gruppo di appartenenza[28].
In questo modo, quindi, le due componenti di un unico e complessivo processo esperienziale diventano sul piano culturale due moduli rappresentazionali separati e antinomici, e per tale ragione al contempo reciprocamente dipendenti (in quanto la negazione dell'uno significa l'affermazione dell'altro) e incomunicanti (nel senso che gli allenatori mostrano di utilizzarli in maniera tale che l'uso dell'uno non influenza l'uso dell'altro; utilizzando come unico dispositivo di integrazione strumenti linguistici[29]).
Un ulteriore fattore che ipotiziamo intervenga ad orientare la traduzione della dimensione fantasmatica in oggetto sul piano del discorso (cioè sul piano della cultura di ruolo che i discorsi veicolano ed al contempo esprimono) riguarda il rapporto tra una simile dimensione e il contesto formativo in cui essa si esplica. Da questo punto di vista, infatti, la scissione-reificazione che subisce lo schema amico-nemico è l'esito di un movimento difensivo di tipo negatorio di quelle componenti (la distruttività), che per definizione non sono compatibili con il modello prevalente nel contesto (che abbiamo visto in relazione al primo asse essere quello del registro duale idealizzato del rapporto parentale, proprio dei processi formativi). In altre parole, dal momento che le scuole calcio sono prima di tutto scuole, il che significa che in esse è dominante la dimensione fantasmatica che riconduce i rapporti alla matrice della dualità; considerato inoltre che tale dimensione non lascia spazio per la simbolizzazione di un altro nemico[30]; si comprende come si attivino movimenti difensivi scotomizzanti le fantasie triadiche[31] che comunque l'attività calcistica evoca in quanto "gioco a somma zero". Questa ipotesi spiega tra l'altro il senso emozionale della ambivalenza degli allenatori rispetto alla valenza competitiva, ambivalenza che appartiene loro in quanto è propria dell'organizzazione, nel senso di essere all'interno del nesso dialettico tra processo organizzativo (la formazione) e suo contenuto (il calcio).
La funzionalità del modello rappresentazionale
Di per sé nessun modello rappresentazionale è buono o cattivo, giusto o sbagliato. Il punto è, piuttosto, quanto utile sia in rapporto alle specifiche e contingenti situazioni di contesto.
La nostra ipotesi è la seguente: la situazione di cambiamento organizzativo propone dei compiti di ruolo agli allenatori in rapporto ai quali il modello rappresentazionale non risulta adeguato, e tale inadeguatezza si riscontra sul piano fenomenologico nei termini degli eventi critici precedentemente evidenziati.
Vediamo di esplicitare e giustificare tale ipotesi attraverso i dati fin qui riportati.
Innanzitutto, si tratta di definire i nuovi compiti di ruolo.
Nell'introduzione abbiamo rilevato il contenuto generale della politica di sviluppo organizzativo in atto nelle scuole calcio, politica orientata da un lato a incrementare la professionalità e la qualità del servizio erogato e a valorizzarne le componenti e le valenze pedagogico-ricreative.
Un simile cambiamento per definizione implica una ridisegnazione delle funzioni e delle modalità di esercizio del ruolo degli allenatori, in quanto personale organizzativo più esposto nel rapporto con l'utenza e al contempo principale vettore della produzione/erogazione del servizio.
In particolare, ciò che viene a modificarsi è la capacità dei criteri tecnici di garantire una adeguata copertura del ruolo. In altri termini, l'allenatore si ritrova a dover gestire una situazione di incertezza e di variabilità che non si presta ad essere immediatamente ridotta/risolta attraverso il ricorso alle norme e a criteri tecnici che costituiscono il bagaglio della sua competenza di ruolo. Tale incertezza, d'altra parte, non è un effetto disfunzionale e/o imprevisto, quanto, piuttosto, la necessaria conseguenza del mutamento del servizio da addestrativo a formativo[32]. Simile mutamento, infatti, in quanto attribuisce/promuove una partecipazione costruttiva dell'utenza, implica il riconoscimento e la necessità di assumere la autonoma decisionalità che a tale partecipazione costruttiva è inscindibilmente legata[33]. In tal modo, per il processo formativo, diventa incidente e saliente l' articolata rete di rapporti organizzativi e sociali in cui, per cui ed in rapporto a cui tale decisionalità si esprime. La rete in questione si costituisce, così, come contesto entro ed in rapporto al quale si esercita la funzione dell'allenatore. Contesto, d'altra parte, che per definizione è dotato di una propria autonomia, rispetto alle esigenze e compatibilità del ruolo dell'allenatore. E' proprio questa caratteristica ad essere rilevata dall'interno del ruolo come incertezza e variabilità, non saturabile attraverso il ricorso normativo alle tecniche[34].
Ricapitoliamo quanto fin qui detto. A differenza di quanto risulta necessario per addestrare un soggetto ad una abilità specifica e parcellizzata (o, anche, per incrementarne le capacità atletiche)[35], l'esercizio di una funzione educativa - poiché assume l'utente come soggetto impegnato in un processo di costruzione di senso - non si esaurisce nella attivazione di procedure e protocolli predefiniti sulla base di criteri normativi e tecnici, ma, piuttosto coinvolge processi sociali di progettazione, decisione, negoziazione, costruzione di consenso (Salvatore 1994) attraverso i quali gestire l'autonomia degli attori impegnati ed implicati nel processo, autonomia che dal punto di vista di chi ha la responsabilità sul risultato (l'allenatore) viene ad essere rappresentata in termini di incertezza[36].
L'allenatore, quindi, trova nel cambiamento organizzativo implicata la necessità di assumere sul proprio ruolo la funzione di presa in carico del contesto organizzativo costituente il dominio di esercizio della sua stessa azione tecnica. Entrare nel merito di che cosa va ad intendersi per "contesto organizzativo" della funzione di ruolo dell'allenatore ci porterebbe lontano, e implicherebbe una specifica linea d'analisi organizzativa. In questa sede ci limitiamo a segnalare le aree che i discorsi degli allenatori hanno con più insistenza segnalato implicate come luoghi/processi organizzativi connessi con l'esercizio della funzione di ruolo. In particolare, distinguiamo:
1. Un asse di contesto intraorganizzativo, sul quale assume salienza la relazione che l'allenatore stabilisce con il singolo bambino e quindi con il gruppo di bambini.
Da questo punto di vista risulta ovvia la differenza di funzioni dell'allenatore se la competenza di ruolo non si limita all'insegnamento di come calciare il pallone o al potenziamento delle risorse atletiche, ma si orienta rispetto a finalizzazioni quali: aiutare il bambino a comprendere il senso sociale dell'esperienza di partecipazione e ad elaborare le idonee forme di fruizione della stessa. Ciò che entra strutturalmente e differenzialmente in gioco è la necessità da parte dell'allenatore di farsi carico (di categorizzare, gestire, orientare, trattare, elaborare...) complessivamente del sistema di partecipazione[37] che l'utenza mette in atto nei confronti della scuola-calcio, e, in particolare, nei compiti dell'allenatore stesso come figura catalizzatore di tale contesto[38].
2. Un secondo asse, relativo al rapporto con l'ambiente sociale allargato. Su tale asse risulta particolarmente pregnante nei discorsi dei soggetti intervistati la dimensione costituita dal rapporto con le famiglie degli utenti e con le società di calcio, strutture, ambedue, spesso portatrici di domande ed esigenze conflittuali con quelle dell'esercizio di ruolo.
Se in rapporto al primo asse la funzione di presa in carico si configura come capacità di tenere in conto la complessità del processo sociale che struttura la relazione formativa allenatore-bambino, dal punto di vista di questo secondo asse la funzione di presa in carico del contesto si configura nei termini di definizione-uso dei confini organizzativi, funzione che al contempo consenta di salvaguardare la capacità di azione organizzativa del sistema e di orientarla in rapporto alla domanda (riconosciuta ed elaborata) che dall'ambiente proviene[39].
Secondo la nostra ipotesi, il modello rappresentazionale individuato a carico degli allenatori non risulta funzionale alle esigenze di azione organizzativa determinate dalla nuova configurazione assunta dalla funzione di ruolo. Ciò, fondamentalmente per il coniugarsi di due fattori:
* per il carattere polarizzato che ambedue le dimensioni rappresentazionali mantengono;
* per la polarizzazione del campo organizzativo su cui insiste il sistema scuola-calcio.
Prendiamo in considerazione il primo fattore.
Abbiamo avuto modo di osservare che su ambedue gli assi (quello relativo al processo e quello relativo al contenuto dell'azione organizzativa) le polarità si determinano reciprocamente in termini dicotomici del tipo o/o[40] tanto da essere sul piano genetico plausibile l'ipotesi (che comunque andrebbe verificata con metodologie ad hoc) della salienza di processi di semiosi affettiva di tipo scissorio e negatorio. In questo senso, i quadranti derivati dall'incrocio degli assi (cfr. la descrizione grafica del modello in figura 1) costituiscono altrettanti moduli rappresentazionali, modelli, cioè, in qualche modo compiuti, reificazioni ed assolutizzazioni di una componente della fenomenologia di ruolo trasformata così in un sistema di esperienza e normativo dotato di autonoma capacità di esistenza. Sul piano dei discorsi tale meccanismo semiotico si attiva attraverso processi di ancoraggio a patterns dell'esperienza riconoscibili in sé (la partita, l'esercizio ginnico, la disciplina e i premi, il campionato...)[41] e successive oggettivazioni che trasformano le assimilazioni categoriali (= gli ancoraggi) in artefatti concreti e compiuti, dotati di senso e movimento autonomo (il valore formativo della partecipazione sportiva; la competizione, la tattica...).
Da questo punto di vista, il modello rappresentazionale sembra essere il risultato della cooptazione e successiva giustapposizione delle valenze suggerite dal progetto di sviluppo, senza però una effettiva integrazione sul piano culturale ed organizzativo (ovviamente non su quello teorico e normativo) con le precedenti modalità d'azione e di valori.
Di per sé questa polarizzazione non costituisce un fattore di criticità o di disfunzionalità. Diventa tale nella misura in cui l'allenatore è chiamato dal cambiamento della propria funzione a farsi carico di ciò che abbiamo inteso con il termine "contesto organizzativo"; ciò in quanto tal'ultimo scenario è caratterizzato da un conflitto speculare alla dialettica che si è riscontrata nel modello rappresentazionale di ruolo. Tale conflitto riguarda la pluralità ineliminabile che caratterizza le logiche d'azione e gli obiettivi che accompagnano i diversi attori sociali presenti nello scenario di esistenza della scuola calcio. Si pensi, a titolo esemplificativo, da un lato alla motivazione affiliativa e ludica che caratterizza la partecipazione dei bambini (Testa, 1994) e, dall'altro, alle richieste della committenza rappresentata dalle società professionistiche, interessate ad ottimizzare le capacità selettive dei vivai riducendo gli errori di omissis e di falso positivo attraverso la assimilazione sempre più pervasiva della pratica di avviamento all'attività agonistica.
La polarizzazione del modello rappresentazionale degli allenatori va in risonanza con tale conflitto piuttosto che funzionare come criterio di ricomposizione. In questo modo, il pluralismo ambientale, piuttosto che oggetto dell'azione di ruolo diventa fonte di criticità e disfunzionalità, venendosi così a determinare un circuito vizioso che riduce le capacità di azione dell'allenatore nei termini critici che abbiamo esposto all'inizio della sessione.
In questa prospettiva, quindi, la problematicità degli allenatori a gestire la relazione con i genitori va considerata il segnale -ed al contempo la conseguenza- della difficoltà degli stessi ad elaborare la "domanda" di questa specifica committenza. Tale elaborazione, infatti, implicherebbe la necessità di riferirsi a criteri organizzativi integrati che assumano l'esigenza che la domanda veicola ed al contempo la sintetizzano rispetto a target di funzionalità sovraordinati e sovraordinanti. In altri termini, per poter trattare la domanda di tale committenza è necessario possedere una concezione organica ed integrata della funzione e della struttura del processo organizzativo in cui consiste la scuola calcio, in modo da poter accogliere come parzialità - e, quindi, componente di un sistema differenziato - l'esigenza della committenza stessa. In caso contrario non rimangono che le due alternative logiche già riportate: l'isolamento o la fusione.
Un altro aspetto che la prospettiva evidenziata consente di comprendere è costituito dal modo con cui gli allenatori hanno rappresentato il cambiamento in atto. Essi, infatti, nel momento in cui lo valorizzano, al contempo lo rappresentano come esito di un processo dall'alto in basso, come determinato in primis sul piano normativo e quindi realizzato nei termini dell'adeguamento a tale normatività. In questa prospettiva, non stupisce che il cambiamento venga quindi interpretato non come la ridefinizione delle gerarchizzazioni tra il mix dei fattori insiti nel compito (il gioco, le funzioni di addestramento, le esigenze di selezione e di promozione delle abilità di gioco...), ma come sostituzione/aggiunta normativa di valenze (del tipo: "la scuola calcio diventa così!").
Conclusioni
La ricerca che abbiamo presentato si è proposta l'obiettivo di individuare elementi psicosociali che potessero segnalare ed aiutare a comprendere la attuale situazione di ruolo degli allenatori delle scuole calcio. I dati così raccolti hanno consentito di costruire delle ipotesi sia sui soggetti di ruolo in questione, sia in merito al contesto organizzativo che li raccoglie.
Si tratta di ipotesi che meritano un successivo approfondimento e ulteriori forme di verifica, sia in rapporto alla loro attendibilità sia in rapporto alla possibilità di generalizzazione. D'altra parte, l'indagine si proponeva un obiettivo di natura preliminare ed esplorativo, orientato, appunto, alla costruzione di un primo quadro di lettura della problematica in oggetto, al fine di orientare i successivi dispositivi analitici.
In questa prospettiva, i risultati ottenuti offrono ragioni di conforto all'impostazione che si è dato all'indagine. Ciò, in particolare, in rapporto ai seguenti aspetti.
Innanzitutto, ci sembra che il modello psicosociale di analisi culturale della fenomenologia organizzativa che si è adottato si sia dimostrato dotato di fecondità euristica e capacità di organizzare le informazioni raccolte. E' stato infatti possibile raccogliere in maniera sufficientemente esaustiva e omogenea il materiale discorsivo ed individuare in rapporto ad esso ipotesi strutturali e funzionali che consentissero di connettere la dimensione soggettiva indagata (i sistemi rappresentazionali e di discorso) con la fenomenologia organizzativa, in particolare per gli aspetti di innovazione e di sviluppo che la caratterizzano.
In secondo luogo - proprio in virtù di tale connessione delle dimensioni soggettive e contestuali - ci sembra che le ipotesi e le osservazioni proposte non si mantengano all'interno di una esercitazione speculativa, ma si aprono ad implicazioni di carattere operativo, si offrono come elementi e criteri indicativi utilizzabili per la politica di gestione/sviluppo delle risorse umane propria dell'organizzazione in questione.
In particolare, vogliamo evidenziare due implicazioni generali per una funzionale politica delle risorse umane.
1) La politica formativa per gli allenatori risulta essere un' area strategica.
D'altra parte, dal momento che la problematica di ruolo degli allenatori non si configura come assenza di criteri e di mezzi tecnici, quanto, piuttosto come esigenza di elaborazione/integrazione del modello di ruolo in rapporto allo sviluppo organizzativo che ha caratterizzato le scuole calcio, il progetto formativo non risulterebbe coerente con il bisogno se si limitasse ad ipotizzare un percorso di apprendimento di tipo lineare, trasmissivo delle risorse specifiche che costituiscono il bagaglio della competenza tecnica. Questo aspetto - ovviamente necessario - va integrato con un'offerta formativa che si configuri come momento/luogo all'interno del quale i soggetti di ruolo possano elaborare la propria esperienza organizzativa, integrare le dimensioni soggettive e contestuali, riconoscere e sottoporre a revisione le categorie che orientano la prassi di ruolo. In altre parole, risulta strategica la possibilità per gli allenatori di ripensare strategicamente i modelli rappresentazionali che più o meno implicitamente guidano la loro funzione di ruolo.
2) Si è avuto modo di ipotizzare che la criticità del ruolo dell'allenatore non risieda sic et simpliciter nel modo che tale operatore ha di rappresentarsi il proprio ruolo. La criticità, piuttosto, interviene come esito della risonanza che si realizza tra tali modelli e i modelli di funzionamento organizzativo. Secondo tale ipotesi, la frammentarietà riscontrata a carico del modello di ruolo è al contempo un segnale di come il sistema organizzativo non abbia ancora realizzato la compiuta integrazione del progetto innovativo.
D'altra parte, la dinamica dei modelli rappresentazionali non avviene in un vacuum. Essa si estrinseca comunque in rapporto ai vincoli e possibilità che i contesti di afferenza offrono. In questo senso, il modello di ruolo che si è indagato nella presente ricerca se da un lato va inteso come dotato di una propria autonomia, dall'altro va comunque considerato orientato, sollecitato e movimentato dalle coordinate generali di senso che il sistema organizzativo (inteso come contesto sovraordinante del ruolo) mette in gioco. Ne consegue, quindi, che gli allenatori possono elaborare l' esperienza di ruolo - o meglio, le categorie che configurano tale esperienza - nella misura in cui il contesto organizzativo procede a definire e fornire orientamenti e categorie sistematiche che possano funzionare da criteri di verità e da coordinate di senso.
In questa prospettiva, quindi, il progetto formativo e la progettazione organizzativa costituiscono due momenti di un unico percorso di sviluppo: la principale risorsa formativa è la capacità dell'organizzazione di definire con chiarezza i termini e i vincoli, i target e i criteri di successo e di verifica (Avallone 1990).
In terzo luogo, la presente ricerca si offre come un esempio di un modo di fare ricerca psicologica che la intende al contempo come:
* funzione di intervento nell'ambito dei sistemi sociali, orientata al supporto della capacità dei soggetti (individuali e collettivi) di perseguire i loro scopi;
* funzione che non si misura necessariamente e primariamente con le patologie individuali, ma con i processi propri di ciò che il senso comune chiama "normalità".
La psicologia, quindi, come scienza di intervento sulla fisiologia dei sistemi sociali, come "scienza della convivenza" (Paniccia 1992).
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Note
*. Il presente lavoro rielabora l'intervento svolto al congresso "Da bambino a calciatore", Centro Tecnico Federale di Coverciano, 4 giugno 1994.
1. Tali affermazioni si basano sui colloqui avuti preliminarmente alla ricerca con alcuni quadri della dirigenza della F.G.C.I., e su fonti documentali (FGCI 1994).
2. Ci preme in particolare ringraziare per il supporto tecnico-organizzativo il dott. Gennaro Testa, responsabile delle Scuole Calcio del Settore Giovanile e Scolastico.
3. In particolare, la presente indagine si focalizza sulla funzione tecnica, articolata sui ruoli di allenatore giovani calciatori e istruttore. La differenza tra tali qualifiche è relativa ai percorsi formativi, in quanto alla seconda ha accesso il personale dotato di diploma ISEF. Comunque, nella presente ricerca i due ruoli non vengono indagati differenzialmente, ma considerati complessivamente in quanto funzione tecnica della scuola-calcio. Ciò chiarito, nel presente scritto si continuerà ad utilizzare il termine "allenatore", da intendersi riferito alla funzione di ruolo generale, comprensiva degli allenatori giovani calciatori e istruttori.
4. Tale autonomia, inoltre, è ancora più evidente e saliente nelle organizzazioni di servizio, in quelle organizzazioni, cioè, che non si strutturano in funzione di processi di produzione materiali, quanto, piuttosto, in termini di produzioni immateriali. Chi si è occupato di tale tipo di organizzazioni, infatti, ha sottolineato la limitata possibilità dei centri decisionali di determinare le modalità (quantitative, ma soprattutto qualitative) di erogazione del servizio dal parte del personale a contatto con l'utenza (Norman 1991). Questa caratteristica delle organizzazioni di servizio fa si che esse siano definite "ad alta intensità di personalità", intendendo con ciò il fatto che il successo delle loro attività sia strettamente dipendente dalla capacità del personale in rapporto con l'utenza di gestire tale rapporto.
5. Si fa qui riferimento alla nozione di "cultura organizzativa", elaborata nell'ambito del pensiero organizzativo (Gagliardi 1986) e ripresa nella riflessione psicosociologica come categoria descrittiva dell'intreccio tra i piani di significazione (operativi-funzionali ed affettivi-istituzionali) che configurano il funzionamento organizzativo (Paniccia 1989; Morozzo e Salvatore 1994).
6. Nel linguaggio della psicosociologia tale componente affettiva, che segue le leggi dell'inconscio (Matte Blanco 1975), viene definita "istituzionale" (Carli e Paniccia 1981).
7. La dimensione emozionale, per definizione, in quanto espressione di un pensiero desiderante e indipendente dal criterio di realtà, è descrivibile come funzione di assimilazione del reale alle attese (categorie) del soggetto. In questo senso, tale dimensione può essere intesa come la funzione semiotica autoreferente di autopoiesi dell'organizzazione, come principio di identità.
8. Nel senso che Kuhn attribuisce al termine (1970).
9. Vogliamo sottolineare che la problematicità organizzativa non va necessariamente intesa come disfunzionalità. Con tale termine si intende, più generalmente, una situazione di varianza/incertezza che al contempo costituisce una valenza inprescindibilmente connessa all'esercizio di un compito e una parte stessa del compito, cioè un oggetto di intervento/risoluzione.
10. Per i contenuti di tale politica si rimanda all'introduzione del presente scritto.
11. Emblematiche in questo senso sono, da un lato, gli episodi raccontati sui genitori che vorrebbero che le scuole calcio trasformassero i figli in campioni, e, dall'altro, quanto riferito in merito alle sollecitazioni delle società professionistiche che finalizzano il rapporto con le scuole calcio all'obiettivo di individuare risorse per i propri vivai. Ad esempio, un allenatore ha raccontato del sistematico interessamento delle società volto ad allargare le attività di selezione e implementazione agonistica (abbassando la soglia di ingresso per consentire l'accesso a nuove categorie di utenza sempre più giovane).
12. E' interessante osservare come gli allenatori intervistati, praticamente nella totalità dei casi, esplicitano il carattere soddisfacente del rapporti con i propri dirigenti, spostando su dirigenti di "altre società" la problematica del conflitto pur messa in evidenza.
13. Abbiamo già avuto modo di riportare come tale conflitto venga in molti casi significato ricorrendo ad una differenziazione tra allenatori in possesso di diploma ISEF versus non in possesso. I primi vengono accumunati nella categoria del personale disponibile e vettore del cambiamento organizzativo in oggetto.
14. Un allenatore ha detto che gli risulta sgradito l'appellativo di "Mister" che i bambini gli danno, in quanto esso lo qualifica in rapporto alla funzione di selezionare il gruppo e predisporlo in funzione del risultato agonistico ("mister" è il modo con cui nelle squadre di calcio viene chiamato l'allenatore).
15. Nel senso che un allenatore è tale in quanto il calcio è un sistema organizzato. In caso contrario sarebbe altro (un animatore).
16. La disciplina di gioco, infatti, costituisce la dimensione più astratta dell'apprendimento, che può essere riconosciuta nella misura in cui si attribuisce all'esperienza di gioco una finalizzazione, che trova nella partita la sua forma esplicitata.
17. Un allenatore, ad esempio, ha raccontato del padre di un ragazzo che sistematicamente protesta perché il figlio non viene impiegato per tutto il tempo di gara nella partita di torneo. Da altre interviste si è ricavato il quadro di genitori scontenti per il ridotto tasso di attività agonistica e della conseguente necessità delle società di aumentare il numero di partecipazioni a tornei di categoria. In un altro caso, è stato descritto un genitore che assiste alle partite del figlio dalle tribune, riprendendolo, con consigli, ma soprattutto rimproveri. Dinanzi a queste forme di partecipazione delle famiglie, gli allenatori utilizzano una serie di dispositivi organizzativi di protezione, che si presentano come ibridi di cooptazione-separazione (riunioni mensili con le famiglie, colloqui, soddisfacimento richieste, interdizione delle visite, ecc..).
18. Ad esempio, il termine "animazione ludica" preso in se stesso rappresenta un elemento relativo al compito di ruolo dell'allenatore, mentre nel discorso è stato utilizzato come indicatore del complesso rappresentazionale insistente sull'intero spettro dell'immagine organizzativa.
19. Ad esempio, per quanto sollecitati, gli intervistati non hanno chiarito il modo attraverso il quale una pratica ludica sia al contempo formativa e socializzante. Tale implicito risulta postulato come un dato naturale. Inoltre, si è avuto modo di osservare come l'ambivalenza tra le componenti ludiche e competitive del gioco del calcio sia scarsamente riconosciuta, comunque non affrontata.
20. Ad esempio, un intervistato mentre in una parte del colloquio sottolineava il significato di promozione sociale della scuola, come strumento "per tenere i ragazzi lontano dalla strada", dall'altro sosteneva che il suo maggior interesse nell'esercitare il proprio ruolo era quello di sviluppare il contenuto tecnico-tattico dell'apprendimento proposto. In un altra intervista la contraddizione risultava tra la riconosciuta centralità delle famiglie come luogo educativo d'elezione e la necessità di arginare la presenza dei genitori in rapporto alle decisioni relative alla squadra.
21. Per definizione, ogni attività - quindi anche quella ludica, è organizzata e finalizzata. Ecco perché si è parlato di azzeramento tendenziale.
22. Per una lettura psicoanalitica e psicosociale del conflitto si rimanda a Carli e Paniccia 1981.
23. Sul piano grafico ciò implica che i due assi definitori dei continuum si incrociano perperdicolarmente.
24. In termini generali, come in precedenza accennato, il modello psicosociale a cui si fa riferimento postula il funzionamento delle strutture sociali come risultante dall'intreccio di due dimensioni:
-la dimensione "organizzativa", parametrabile nei termini del comportamento intenzionale orientato allo scopo (e quindi descrivibile attraverso categorie quali: ruolo, funzione, obiettivo, pianificazione, risultato, consenso...);
-la dimensione "istituzionale", relativa alla processualità inconscia specifica del rapporto sociale, in quanto connessa alla comune simbolizzazione affettiva che gli attori fanno della loro reciproca relazione.
Il modello dell'analisi istituzionale (Carli 1982) propone una corrispondenza tra la strutturazione bilogica della mente individuale (Matte Blanco 1975) sulla base dei registri legati alle logiche del pensiero conscio ed inconscio e la doppia referenza del funzionamento delle strutture sociali (in termini organizzazione-istituzione).
Le due dimensioni mantengono un rapporto di reciproca interazione.
Da un lato, infatti, la dinamica istituzionale condiziona, accompagna, significa sul piano motivazionale ed affettivo, orienta il comportamento organizzativo degli attori. D'altro canto, le caratteristiche strutturali del compito e del funzionamento organizzativo funzionano da suggeritori (da attrattori, se si vuole) del tipo di fantasmatica che costituisce l'istituzione. Questo legame, che in altra sede si è proposto di segnalare nei termini di contingenza contestuale (Morozzo e Salvatore 1994), dà ragione della specificità dell'istituzione rispetto al contesto organizzativo e del legame tra i contenuti di ruolo (che sono espressioni della dimensione organizzativa) e la cultura organizzativa (i cui contenuti rappresentazionali e valoriali sono espressione della dimensione istituzionale).
25. Evidentemente, tale aspetto rimanda all'ipotesi di una funzione adattiva delle attività sportive in quanto artefatti culturali che consentono di trattare le dimensioni di aggressività entro sistemi organizzativi dotato di dispositivi di controllo e di localizzazione che evitano la diffusione delle pulsioni stesse nel corpo sociale.
26. Colpisce una delle ultime definizioni create dagli organi di governo del calcio per descrivere una innovazione regolamentare. Tale nuovo criterio, già introdotto in alcune competizioni, implica che, nelle partite che non ammettono pareggi, le stesse proseguono successivamente ai tempi regolamentari fin quando una delle due squadre segna. Il nome di tale dispositivo è "morte improvvisa".
27. "Va ricordato che per reciprocità si intende la capacità di individuare da parte del bambino nell'ambito del rapporto oggettuale, l'oggetto amico da un lato, l'oggetto nemico dall'altro, al fine di direzionare la pulsione libidica sull'oggetto amico, con un esito introiettivo ed identificatorio dello stesso, e la pulsione destrudica sull'oggetto nemico, con un esito espulsivo e di fuga o di attacco nei suoi confronti. Per reciprocità, in altri termini, si intende la funzione di classificazione degli oggetti secondo lo schema amico-nemico, fondamentale ai fini della sopravvivenza" (Carli 1982, pag. 82).
28. Queste osservazioni, d'altra parte, rimandano e sono ampiamente supportate dagli studi psicosociali sul rapporto in-outgroup, studi a cui si rimanda. Si pensi, d'altra parte, a come la retorica dello "spirito di squadra" si appoggi necessariamente, ed al contempo implichi un alter conflittuale.
29. Ad esempio attraverso l'uso di allocuzioni, avverbi e di preposizioni che ricompongano sul piano del verbale ciò che rimane separato sul piano del senso (=" è pur vero che", "non si può però fare a meno di dire anche che"; "d'altra parte..."; "è solo apparentemente contraddittorio affermare che...").
30. Simile rappresentazione costituirebbe la rottura, catastrofica, della dualità, intesa come modello paradigmatico di relazione sociale che prevede la fusione onnipotente tra soggetto ed oggetto d'amore, o, se si vuole, tra madre e bambino.
31. Cioè la fantasmatica connessa al conflitto.
32. E' chiaro che questo modo di descrivere il mutamento è una semplificazione, in quanto ogni situazione di apprendimento implica un mix tra queste due componenti.
33. Non è necessario più di tanto insistere sul fatto che non è possibile un processo formativo senza riconoscere ai soggetti implicati una specifica decisionalità ed autonomia.
34. Ritorna qui il dato relativo al fatto che gli allenatori propongono unanimemente come propri bisogni formativi competenze non tecniche, ma connesse alla gestione della relazione con i bambini, come luogo entro il quale si esercita la funzione di ruolo.
35. Nel quali casi l'unico contesto necessario è costituito dal compito che si richiede all'utente di eseguire.
36. Da questo punto di vista l'evoluzione del contenuto funzionale del ruolo dell'allenatore ripercorre alcune tematiche proprie della riflessione psicosociale sulla funzione docente. In particolare, qui ci interessa cogliere come sia problematica comune dei sistemi formativi quella di sottolineare come la funzione di produzione di apprendimento non può prescindere nella sua attuazione dall'esercizio di una funzione di livello logico superiore - che comunque appartiene alla competenza docente che si configura come predisposizione delle condizioni sociali che consentono all' apprendimento di realizzarsi. La distinzione tra queste due funzioni viene sottolineata dalla distinzione tra le competenze tecniche e quelle organizzative: la letteratura (Carli 1982, Butera 1991, Grasso e Salvatore 1993) sottolineato come la competenza tecnica non sia autosufficiente (nel senso che non conserva obiettivi propri ma si esercita sempre in rapporto, entro ed in funzione di un contesto sociale e quindi organizzativo, di modo che per poter essere implementata necessita dell'integrazione di una competenza organizzativa (Circolo del Cedro 1992).
Recentemente tale tematica è stata ripresa come problematica centrale nelle analisi delle organizzazioni di servizi (Norman 1991), che in quanto produzioni intrinsecamente sociali che prevedono la partecipazione attiva e costruttiva dell'utenza come "fattore di produzione", non possono realizzarsi se non a condizione di una adeguata ed efficace gestione della relazione produttore-consumatore.
37. Sistema di partecipazione che vede in forme diverse implicati attori e strutture sociali quali la famiglia, il territorio, la scuola, il gruppo dei pari, i mass-media. Le situazioni, cioè, che il bambino porta con sé nella partecipazione quotidiana anche se, al contempo, insistono fuori dai confini organizzativi della scuola-calcio stessa.
38. Rapporto che, a sua volta, è articolato su uno spettro ampio di componenti: valoriali, affettive, organizzative, normative, funzionali...
39. Eventualità che evidentemente non è data se i rapporti tra organizzazione e suo ambiente non sono mediati da confini funzionali. In tali casi, infatti sono logicamente possibili due configurazioni di rapporto: la separazione e la fusione. Nel primo caso la domanda sociale viene totalmente scotomizzata, a vantaggio delle possibilità di autonomo perseguimento dei fini da parte dell'organizzazione, ma a costo della perdita di rilevanza sociale dell'azione organizzativa stessa. Nel secondo caso, specularmente, l'organizzazione fa totalmente propria la committenza che le proviene dall'ambiente, ma a scapito delle possibilità di risultato, in quanto per definizione tale committenza non è mai totalmente compatibile con i vincoli all'interno dei quali si muove l'esercizio dell'azione organizzata. Evidentemente, tali due casi logici sono idealtipi, che definiscono nella loro opposizione un continuum all'interno del quale si definiscono le situazioni concrete.
40. Sul piano fenomenologico si è avuto modo di verificare che gli allenatori non rimangono vincolati ad uno dei moduli individuati, mostrando nelle interviste una notevole variabilità rappresentazionale. Tale variabilità, però non va intesa come indicatore di organicità del sistema rappresentazionale, quanto, piuttosto come segno ulteriore di frammentazione. In altri termini, il fatto che il soggetto intervistato nello stesso arco di discorso implichi moduli rappresentazionali differenti (ad esempio implicando la scuola calcio ora secondo il modulo "fondamentali" ora secondo il modulo "formare il carattere") non significa che tali moduli siano tra loro ricomposti, ma, piuttosto, che vengono esercitati senza entrare reciprocamente in rapporto, in maniera reciprocamente isolata.
E' utile ribadire che le definizioni che abbiamo dato ai moduli vanno intese come semplici etichette: i moduli non corrispondono ai discorsi intorno alla tattica o ai fondamentali o all'importanza del calcio per formare il carattere. I moduli, piuttosto, riguardano patterns omogenei di funzione rappresentazionale, che, per necessità di definizione, segnaliamo attraverso le componenti discorsive che più chiaramente consentono la connotazione.
41. In quanto appartenenti ad altri domini linguistici afferenti ad altri universi discorsivi e di convivenza.