Giovanna Tafuri
Problemi della misurazione nelle scienze umane (*)
Cari colleghi consentitemi di ringraziare il Professore Carmine Piscopo per il gentile invito rivoltomi a tenere una conversazione che ha di mira l'individuazione dello "spazio" teorico ed applicativo che può essere riferito ai problemi della misurazione in ambito pedagogico-educativo. In questo modo, infatti, ho potuto "rivisitare" testi ed articoli che avevo parecchi anni fa tenuto presenti per la definizione delle aree paradigmatiche fondamentali, in base alle quali ho, poi, costituito l'ambito teorico del mio insegnamento di Storia della pedagogia.
Come noi tutti sappiamo i problemi dell'educazione e, in particolare, quelli dell'insegnamento richiedono strumenti teorici - anche estremamente rigorosi - che siano, però, capaci di misurarsi col complesso procedere e con l'ardito svolgersi dell'attività pratica, in un campo che è quello - non dobbiamo mai dimenticarlo - della relazione tra un insegnante e i suoi allievi. E così, tra i tantissimi testi, che affrontano i temi dello sviluppo teorico nelle scienze sociali, e, in particolare, quelli dell'educazione, ho deciso di scegliere un lavoro, la cui prima edizione in lingua inglese è del 1952, tradotto un decennio dopo dalla Casa Editrice Il Mulino e che subito acquistai, in quanto mi parve che in esso fosse sempre presente l'intendimento della contemporanea coniugazione della ricerca teorica con la concreta applicazione. Mi riporto al ponderoso volume di William J. Goode e Paul K. Hatt dal titolo Methods in Social Research, Mc Graw Hill, New York, 1952, trad. it. di Anna e Luciano Cavalli, Il Mulino, Bologna, 1962. In esso, infatti, si sostiene che "la scienza è un `metodo di avvicinamento' all'intero mondo empirico, quel mondo cioè di cui l'uomo può avere esperienza" (1). Già questa prima indicazione può essere presa ad emblema di ciò che io dirò nel corso della mia conversazione: nell'esaminare i problemi della valutazione, infatti, cercherò sempre di tener presente, per dirla con i due Autori nord-americani citati, quell'"intricata relazione tra teoria e fatto" (2), di cui d'altra parte ogni insegnante fa esperienza nella sua quotidiana attività di docenza. E', infatti, vero che, nella complessa catena di relazioni che si viene a stabilire tra insegnamento e apprendimento, è ben raro il caso in cui gli strumenti di rilevazione o, se si preferisce, quelli di ricerca non vengano adeguati "in itinere" alla realtà mutevole ed irrepetibile che si riferisce a quella particolare esperienza educativa.
Ma è, tuttavia, certo che sempre di più si aspira ad un'attenzione ai problemi dell'oggettività della valutazione, per affrontare i quali è pur necessario sviluppare "misure critiche" che facciano superare l'area dell'"unicità" del rapporto tra quel singolo docente e quegli allievi, per riferire la dinamica educativa a più ampi contesti. E così, quando la singola relazione che si sviluppa nel mondo della scuola tra area della docenza e quella dell'apprendimento si conclude, su di essa possono essere fatte osservazioni che, accostate a molte altre, possono condurre a "generalizzazioni" vantaggiose per il futuro della disciplina impartita e per il miglioramento dei processi di apprendimento nel loro complesso. Ricordando ancora i due Autori nord-americani "quando la prova è compiuta, la teoria diventa fatto. I fatti sono considerati come definiti, sicuri, senza problemi ed il loro significato come evidente di per se stesso" (3). Ma una concezione della scienza di questo tipo tenderebbe a pietrificare, meglio sarebbe dire ad oggettivare i singoli segmenti paradigmatici trasformandoli, come affermerebbe Durkheim, in fatti da studiarsi come "cose". Ad un tale "schiacciamento" della teoria sulla pratica applicazione o, dicendola con le parole di Goode e Hatt, a tale errata concezione popolare secondo la quale la scienza non avrebbe a che fare, se non con i fatti, anche la "speculazione" che si sviluppa in ambito educativo deve opporsi. Mi pare, tuttavia, che si possa essere d'accordo con gli studiosi menzionati, quando sostengono che 1) "teoria e fatto non sono diametralmente opposti, ma al contrario inestricabilmente intrecciati; 2) che la teoria non è (pura) speculazione; 3) che gli scienziati hanno a che fare con ambedue le cose, teoria e fatto" (4). Voglio concludere la lettura di queste pagine dei due Autori nord-americani rapportandomi alle definizioni di fatto e teoria, in quanto entrambe possono davvero essere utilizzate anche dal pedagogista, meglio dal metodologo della ricerca educativa. E così "un fatto è considerato come una osservazione empiricamente verificabile" (5) ed una "teoria tratta delle relazioni tra i fatti" (6).
Avvantaggiata da questa possibilità di definire ambito teorico ed ambito applicativo passo ora, sia pure brevemente, ad affrontare un altro problema relativo alla diversità tra scienze della natura e scienze dello spirito. Credo che tutti siamo convinti che la ricerca pedagogica si esprima nell'ambito delle scienze dello spirito, ma una scelta, che può sembrare a tutti noi ovvia, ha delle conseguenze proprio in un settore, come quello della misurazione educativa, che ha fatto il massimo sforzo nella direzione della "oggettività". La dicotomia più nota tra i due campi dello sviluppo della scienza: quello della Naturwissenschaften e delle Geistwissenschaften è individuata dalla differenza che si esprime nella dichiarazione di "estraneità" del ricercatore nei confronti degli esperimenti condotti nel suo laboratorio, mentre questa dichiarazione di "estraneità" non può essere fatta nel secondo caso.
E' vero che la mancanza di partecipazione rispetto al fenomeno indagato venne invocata anche nel caso della scienze dello spirito, quando però esse erano nella loro fase, per così dire infantile, o quando la ricerca delle scienze umane si esprimeva avendo come modello i processi ingegneristici di produzione e di organizzazione del lavoro delle macchine. Ma quando questa modellistica venne portata alle sue estreme e più rigorose conseguenze essa mostrò i suoi limiti divenendo così il migliore simbolo delle difficoltà teoriche che si sviluppano a partire dai processi di oggettivazione nelle scienze sociali e dell'educazione, come ho tentato di dimostrare più sopra. Mi riferisco, ad esempio, all'"organizzazione scientifica del lavoro" di Frederick Winslow Taylor. Questi studi, espressisi, ripeto, col massimo rigore scientifico, condussero "sottoponendo ad analisi e ricerca critica i vari metodi iniziali (...) alla rivalutazione della componente "umana" dell'organizzazione nei suoi aspetti psicologici e sociali" (7). Fu, in particolare, nel corso delle ricerche portate avanti da Elton Mayo negli Stati Uniti negli Stabilimenti della Western Electric ad Hawthorne, negli anni '20 e '30, che studi in ambito ingegneristico consentirono la scoperta di quello che poi sarebbe stato chiamato il "fattore umano". Ha scritto, infatti, Aldo Fabris: "(q)ueste ricerche ebbero inizio secondo un'impostazione chiaramente tayloriana, cioè adottando il metodo sperimentale e cercando di determinare le migliori condizioni fisiche e ambientali (illuminazione, temperatura, umidità ecc.) atte ad assicurare il più adeguato rendimento dell'operaio.
Non avendo potuto conseguire alcun risultato pratico dalla mole enorme dei dati raccolti, nella seconda fase l'attenzione dei ricercatori fu diretta non più sulle componenti fisiche, ma piuttosto su quelle psicologiche e sociali dell'ambiente di lavoro" (8). Si determinò insomma che più che la quantità di luce o i gradi della temperatura dell'ambiente era importante l'organizzazione del gruppo di lavoro, ma - in questo caso - soprattutto l'attenzione che il singolo ricercatore mostrava nei confronti degli operai associati in attività. In questo modo si dimostrava che ci si prendeva cura di loro, con un interesse almeno pari a quello - oggi diremmo - del sistema degli oggetti, di cui si componeva l'unità produttiva.
Solo pochi decenni prima la ricerca empirica in ambito scolastico indicava le difficoltà che si appalesavano mettendo a confronto gli indici numerici (i voti), in base ai quali si manifestavano le valutazioni degli elaborati scolastici. E proprio negli stessi anni '20, in cui si sviluppavano le ricerche che ho appena ricordato, in Francia avendo come caposcuola il Piéron, in Belgio con O. Decroly e poi negli anni '30 negli Stati Uniti, col contributo di importanti Fondazioni e di prestigiose Università, si affrontò sistematicamente il problema della valutazione nella scuola. Fu anzi il Piéron ad indicare il nome dell'ambito disciplinare, attraverso il quale fosse possibile una corretta valutazione dei risultati degli studenti: la docimologia, appunto la scienza che si propone il compito di esaminare con indici quantitativi la capacità non solo dell'allievo, ma anche dell'insegnante. Come ha scritto nella "voce" da lui curata con estrema chiarezza ed eleganza Luigi Calonghi "fecero molto scalpore constatazioni come quelle riferite da Starch e da Elliot nel loro manuale di psicologia scolastica: un elaborato di lingua materna redatto dall'alunno a livello della prima media, dato da correggere a 142 professori, riceveva punteggi dal 64 al 98 in centesimi (dal 61/2 al 10, si direbbe parlando in decimi); l'allievo B riceveva voti dal 50 al 98. Secondo gli stessi Autori un compito di geometria valutato da 116 professori riceveva punteggi dal 28 al 92 . E' chiaro che se un elaborato vale 3 decimi (28 centesimi circa) costituisce per l'insegnante e per l'allievo un problema ben diverso, quanto a necessità e modi di recupero, da quello posto da un elaborato quasi perfetto che viene valutato quasi a pieni voti" (9). Una valutazione del genere che mostrava a quale disparità di trattamento fossero esposti gli elaborati scolastici, anche quelli che si ottenevano all'interno delle discipline scientifiche, come la matematica e la geometria (che per definizione dovrebbero essere pressoché immuni da così profonde oscillazioni, in quanto espressioni di esattezza e di astrazione) obbligò ad una attenzione mirata nei confronti dei criteri stessi utilizzati per valutare. Va da sé che le cose dette finora per la ricerca che si esprime nell'ambito delle scienze dello spirito, anche quella che abbia l'ambizione di raggiungere la massima possibile oggettività, non potrà ignorare il coinvolgimento del "valutatore" e dei "soggetti valutati" in un "processo" che può sì concludersi con indici quantitativi, ma, per ottenere i quali, è sempre necessario la preliminare scelta comune dei criteri da adottare per la valutazione o, come ho detto all'inizio di questa relazione, l'"adeguamento" di criteri elaborati da altri specialisti in alcuni ambienti ad una particolare area, nella quale vengono combinati docenza e apprendimento. Infatti scrive il Calonghi "la docimologia può studiare come far raggiungere una valutazione concorde a docenti che condividono gli stessi obiettivi, ma non decide della loro scelta che deve essere fatta in base alla concezione che l'insegnante ha della cultura, dell'uomo e del suo destino.
Nel caso in cui, nello stesso consiglio di classe, si fosse davanti a queste diversità, non sarà compito solo della docimologia studiare come comporle, ma di un pluralismo autentico, che non sia cioè relativismo o qualunquismo" (10). E così ben a ragione il Calonghi dichiarava che "meriterebbero un paragrafo a parte gli studi docimologici sui valutatori" (11): con questa consapevolezza s'incardina, così, a pieno titolo, la docimologia all'interno delle scienze dello spirito, evitando le secche insidiose, che nascerebbero dal ritenere l'elaborazione quantitativa per ciò stesso immune da limiti e da incertezze anche di non modesto spessore.
Ovviamente nei settanta anni circa di sviluppo di questa disciplina essa ha subito profonde modificazioni.
Come ha scritto Gilbert de Landsheere "mentre la docimologia della prima generazione incarnata da Piéron aveva come sua preoccupazione principale la denuncia delle manchevolezze degli esami e assumeva un carattere negativo, l'orientamento attuale è la dominante positiva: ricerca di una più grande validità e analisi dei processi psicologici" (12). Volendo proiettarci dal presente verso il futuro più lontano - ma su questo tornerò alla fine della mia relazione - non posso non notare già ora che, con l'aiuto del computer le elaborazioni quantitative e il loro incardinamento in ambiti logico-formali di grande arditezza potranno avere importanti sviluppi. Fino a prevedere lo stesso migliore orientamento dei programmi: "(g)razie a queste tecniche, due tipi di ricerche valutative su grande scala entreranno al servizio dei responsabili di sistemi educativi: gli studi nazionali di rendimento e il pilotaggio (monitoring) dei programmi" (13).
Ma ancora una volta conviene - secondo lo spirito evidente che si esprime in questa mia relazione - coniugare gli stessi processi valutativi degli allievi con quelli autovalutativi degli insegnanti. Ciò è vero - e in questo siamo completamente d'accordo con il Landsheere - anche per la pedagogia sperimentale dove invece "abbondano studi sulle caratteristiche degli insegnanti considerate preannunciatrici del valore pedagogico" (14). Solo così assumerà rilievo l'"ambiente" di apprendimento creato dall'insegnante e le routines di assimilazione delle discipline da parte degli allievi, per le quali è, io penso, di notevole interesse l'esame della relazione educativa.
E' appena il caso che io sottolinei come questa relazione si esprima all'interno di realtà microsociali: i gruppi di apprendimento, per i quali l'accumulazione di ricerche empiriche si è fatta, a partire dagli anni '50, soprattutto negli Stati Uniti, imponente. A questa raccolta di materiale si è giunti utilizzando strumenti di misurazione che sono diventati nell'ambito del group work sempre più raffinati e complessi. In particolare si sono rispettate quelle esigenze di rigore, alle quali sono così attenti gli specialisti di docimologia. "L'obiettività concerne la garanzia che qualunque esaminatore o osservatore che valuti correttamente l'esecuzione del testo, possa pervenire alle medesime conclusioni. Le più importanti qualità metrologiche che devono possedere i testi sono: la validità: bisogna dimostrare che il reattivo scruti ciò che intende evidenziare e non altre cose; l'attendibilità o fedeltà (che) consente di valutare entro quali limiti risulta affidabile il reattivo; la selettività (che) riguarda la capacità di discriminare sfumature, anche vicine, della funzione che viene saggiata" (15).
Sul tema della misurazione ricordo di aver approfondito parecchi anni fa la prospettiva emergente dagli studi di Jacob Moreno: il suo test sociometrico, ampiamente presentato dal De Augustinis può davvero essere valutato come un utilissimo strumento di misurazione delle attrazioni e dei rifiuti - in una parola delle dinamiche interne che si sviluppano in ogni gruppo e anche in tutti i gruppi di apprendimento. Se avessi più tempo, volentieri mi soffermerei su questo valido ausilio per i docenti ma, in ogni caso, non posso non rammentare la matrice sociometrica, elaborata da Gattullo e da Giovannini, in quanto in essa possono essere messi in rilievo i comportamenti del singolo allievo (16). Particolare attenzione può essere dedicata in ambito didattico ai processi di simulazione, al microteaching che "consiste nel fare interpretare ad un tirocinante il ruolo di insegnante e ad altri il ruolo degli alunni" (17); ed infine il role playing (o gioco del ruolo). Questa ultima metodologia, usatissima in psicologia, per la formazione degli insegnanti ha per scopo quello di consentire, in particolare, il riconoscimento dei ruoli e la capacità di prevedere le conseguenze, a partire da certi comportamenti ed atteggiamenti.
E' naturale, tuttavia, che l'insegnante abbia attenzione non tanto alle dinamiche che si sviluppano all'interno del gruppo quanto, piuttosto, alla relazione che si viene ad esprimere tra il singolo docente (o il gruppo di docenti) e la sua classe (o il singolo allievo). E' questo il campo magistralmente indagato da Marcel Postic, nella sua notissima opera La relation éducative (18). Questo scritto, che ho lungamente meditato, presenta, in particolare, quello che l'Autore chiama la "natura del dialogo educativo", individuandone come primo segno distintivo il suo carattere asimmetrico. Tale differenza di posizione - intendo quella che si esprime tra gli insegnanti e il gruppo dei suoi allievi - emerge proprio dall'esame dei ruoli esercitati dai soggetti agenti nel microcosmo sociale, dove si misura il processo di apprendimento con la progettualità docente. "(I)l dialogo nella situazione pedagogica presenta un carattere asimmetrico risultante dalla natura delle funzioni assunte da ciascuno dei partners e dalla dimensione temporale aperta sul futuro: l'insegnante avvia il processo educativo e agisce in base alla percezione del futuro dell'allievo. Anche se ha come scopo quello di emancipare... (l'allievo) e di aiutarlo a costruire il suo itinerario personale, egli rimane il protagonista della situazione" (19). A questo punto non possiamo non chiederci - coinvolgo, naturalmente, chi mi ascolta - se sia mai possibile un "dialogo simmetrico"; ovviamente non tengo in nessun conto - almeno in questa sede - la richiesta che lo stesso Postic chiama demagogia di eguaglianza tra soggetti strutturalmente disuguali. Ma, a ben leggere il testo del Postic, una certa possibile simmetria può essere rintracciata, quando noi si sia capaci di individuare nella relazione educativa tutti i processi di "transazione" o, per dirla con l'Autore, tutte "le possibilità di apertura del dialogo e di riduzione dell'asimmetria" (20). A ben vedere il rapporto relazionale tra insegnante ed allievo non si presenta secondo un modello bipolare, ma piuttosto secondo "una configurazione triangolare, poiché ha come oggetto la conoscenza, come obiettivo lo sviluppo della personalità e come mediatore l'insegnante. Se non avesse questa finalità, il dialogo non esisterebbe e l'insegnamento non sarebbe altro che indottrinamento e inculturazione" (21). Così si può immaginare che non si esprima insegnando soltanto un rapporto unidirezionale: insegnante-allievo, ma piuttosto un rapporto estremamente più complesso che vede l'insegnante curvarsi in una posizione mediana tra l'apprendimento del singolo allievo ed il patrimonio di conoscenze, che, attraverso la sua docenza, vengono espresse. Naturalmente un'attenzione allo stesso modo puntuale va dedicata alla motivazione del discente nei confronti del suo stesso processo di apprendimento e della disciplina che sta apprendendo. In questo ambito, particolare cura verrà dedicata alla fruizione del complesso della valutazione che è poi, a ben guardare, lo strumento di "verifica" sia del processo di apprendimento, ma, contemporaneamente, anche delle capacità dell'insegnante. "Nel corso delle interazioni, attraverso i giudizi espressi su di lui, ogni allievo definisce ciò che gli insegnanti, gli altri allievi, i suoi genitori si attendono da lui in una certa area di apprendimento e a determinare, non solo il livello di rendimento che gli altri si aspettano da lui in tale materia, a un dato momento, ma anche la natura del ruolo che egli deve assumere nella situazione" (22).
E' a questo punto evidente che tutti i sussidi di tipo didattico e ogni sforzo compiuto nella direzione della formalizzazione delle procedure di insegnamento e di apprendimento non possono non incardinarsi e trovare un orientamento di senso proprio all'interno della complessa tessitura di rapporti che ho finora descritto. Ma non posso e non voglio esimermi dal manifestare il mio punto di vista nei confronti della cornice didattica all'interno della quale ogni procedura di valutazione non può non esprimersi. E questo mi sembra particolarmente vero, perché alcuni studiosi, come il de Benedetti, considerano "la stessa programmazione una modalità tecnologica" (23). Naturalmente assieme a strumenti e tecniche didattiche esaminati con rigore dal Bertoldi, quali la lezione "frontale" che si rivolge fondamentalmente a "blocchi di ascolto" non possiamo ignorare l'insegnamento individualizzato e l'insegnamento di gruppo. Esaminiamo questi tre ambiti un po' più diffusamente. Scrive il Bertoldi che "la lezione frontale implica la trasmissione di informazioni da parte di un emittente (insegnante) e un ricevente, quasi sempre rappresentato dal "blocco di ascolto". L'ordinamento di una lezione frontale è una delle grandi risorse della tradizione didattica, sviluppata dall'antica lectio e già in Comenio si trovano attualissime indicazioni a correzione degli eccessi, soprattutto verbali" (24). Per quanto le sue radici possono ritrovarsi così profondamente immerse nella storia del pensiero pedagogico pare al Bertoldi ed a me che essa non abbia perduto la sua efficacia, anche se, probabilmente, in essa si è più attenti alla trasmissione di informazioni, piuttosto che alla formazione del singolo docente.
Tale limite sembra, invece, superato dall'insegnamento individualizzato, col quale è prevista una interazione più mirata tra allievo ed insegnante. Richiamo volentieri col Bertoldi una distinzione già operata da Aldo Agazzi "il quale parla di "insegnamento individuale" quando il rapporto didattico si istituisce con un solo soggetto, di "insegnamento individualistico" quando l'insegnamento tende ad ignorare le finalità socializzanti e di "insegnamento individualizzato" quando superando l'inevitabile uniformità dell'azione sul gruppo il docente si sforza di adattarlo alle esigenze del singolo" (25).
Infine per l'insegnamento di gruppo valgono le parole che io ho già speso a proposito della microsocialità che, d'altra parte, può essere anche indagata con strumenti metrici assolutamente rigorosi. Di questi strumenti e tecniche va forse evitato quello che il Bertoldi chiama "ingenua applicazione", ma personalmente non posso ignorare, che l'attività microsociale che si svolge in classe, l'operare del docente con e verso piccoli gruppi consente, poi, quella capacità tecnica di osservazione sistematica e di osservazione partecipata che rappresentano i principali strumenti di avvicinamento alla dinamica dell'apprendimento di gruppo.
Per quello che riguarda il problema pedagogico-educativo della valutazione, che io affronto in questa sede esclusivamente sul piano teorico, non posso non far mio il punto di vista della studiosa, Laura Serpico Persico, che è stata dirigente superiore per i servizi ispettivi del Ministero della Pubblica Istruzione. Ella, nel descrivere i problemi dell'applicazione nella scuola media e nella scuola superiore italiana, dichiarava che "la valutazione viene più che associata, identificata col `giudizio' cioè con l'espressione definita `misura' in termini di quantità e qualità delle prestazioni dell'alunno: una misura che scandisce, periodicamente, il tempo/scuola con accertamenti di vario segno, mediante i quali il docente si fornisce di dati necessari a formulare il giudizio" (26). E continua l'Autrice che ho appena rammentato, ricordandoci che i problemi della misurazione in campo scolastico (dai voti ai giudizi) non possono non incardinarsi all'interno di un itinerario che vede intrecciato insegnamento ed apprendimento in un processo che ha pur sempre - a me pare - almeno due punti di grande rilievo: la formazione dell'allievo e l'arricchimento del patrimonio di conoscenze, di cui l'insegnante è portatore.
A questo punto della mia relazione non posso non scegliere un ambito all'interno del quale illustrare i concetti sinora presentati. Dopo lunga riflessione mi è parso di grande interesse l'esame dell'esperienza di formalizzazione che (per quello che riguarda il tema che mi è stato assegnato) si riferisce alla valutazione dei criteri da adottare nell'analisi del linguaggio. Come chi mi ascolta potrà ben comprendere avrei potuto scegliere anche campi differenti, ma mi è sembrata che questa direzione fosse più congeniale alle ricerche da me alcuni anni fa condotte con molto rigore. Chi esamini lo sviluppo della lingua - di ogni lingua - non può non verificare che in essa è prevalente l'"ambiguità" e l'articolazione semantica con orientamenti verso differenti significati, piuttosto che l'unidirezionalità e l'assoluta coerenza che viene di regola sostenuta da strutture sintattiche massimamente rigorose. Chi esamini gli speech acts, gli atti compiuti nel parlare o se si preferisce le azioni umane che si esprimono attraverso la parola non può non rilevare differenti livelli o gradi di comportamento. Parlando si può comandare o ordinare o più blandamente richiedere, raccomandare, invitare, suggerire ed accennare. Come ha dimostrato John R. Searle alcune espressioni possono essere lasciate volutamente nell'ambiguità, mentre altre possono essere cariche di chiarezza interpretativa fino al punto che ad ogni parola corrisponda un solo concetto (27).
Come ha notato Arturo Vanni, docente di Informatica nella nostra Facoltà, si possono distinguere le lingue dai linguaggi artificiali proprio per il maggior livello di formalizzazione e, per così dire, per il maggior livello di "esattezza" richiesto per i secondi. Infatti le lingue o, come egli le chiama, "i linguaggi naturali sono un modo di manifestarsi dell'attività simbolica dello spirito umano (e) (s)ono stati elaborati in modo da essere idonei a comunicare idee e fatti (e) rappresentare le cose" (28). I linguaggi artificiali, invece, "sono quei particolari linguaggi che si fondano su significati simbolici univoci e non confondibili da chiunque li conosca. Devono presentare una struttura sintattica con alto grado di rigidità, in modo che tutti i casi possibili risultino definiti con grande precisione" (29). Come ognuno può facilmente intendere proprio il grande sforzo di formulazione ha consentito lo sviluppo di quei linguaggi informatici che, come d'altra parte ho già sostenuto nel corso di questa mia relazione, così grande importanza potranno avere anche nel campo delle scienze dell'educazione.
Così la tematica della valutazione non potrà non essere coniugata anche con quella dell'istruzione programmata e ora dell'istruzione assistita dal calcolatore. Certo, come ha scritto Mauro Laeng, si sono fatti grandi passi dai testi "mischiati" (scrambled) e dalle "macchine per insegnare". Eppure ha affermato il Laeng - con esse "nasceva una nuova pedagogia e didattica più attenta alla produzione di materiali, all'autogestione dei processi. Da queste esperienze isolate di pochi sarebbero derivate le premesse alle prime programmazioni didattiche su computer" (30). Contemporaneamente a questi sviluppi si operavano delle interazioni di grande interesse anche con le teorie della comunicazione di massa, per le quali venivano definiti codici e linguaggi iconico-acustici sempre più arditi e capaci di interagire con lo sviluppo psicologico dell'allievo (31).
E' con piacere che concludo questa mia relazione con un riferimento ad un'indagine sull'educazione ai valori condotta da una nostra collaboratrice, Maria Donnarumma D'Alessio. Nella sua analisi sono indicati alcuni elementi concettuali, dai quali sono felice di scegliere un "frammento" che ricollega la conclusione di questa mia conversazione con il paradigma iniziale, da cui sono partita. Quando "W. Windelband distinse le scienze dello spirito da quelle della natura (indicò) nel metodo l'elemento discriminante. L'oggetto delle scienze dello spirito è l'individualità" (32). Anche nelle scienze storiche come in quelle pedagogiche l'individuazione dei profili dei singoli soggetti agenti e del rilievo che le loro azioni hanno avuto o, in alcuni casi, continuano ad avere per il nostro presente, è lo strumento più vantaggioso per giungere alla più elevata arditezza scientifica.
Riferimenti bibliografici
G. Acone ed altri, Dimensioni attuali della professionalità docente, La Scuola, Brescia, l991.
F. Bertoldi, Note critiche di tecnologia didattica, in G. Acone ed altri, Dimensioni attuali della professionalità docente, cit.
Luigi Calonghi, "voce" Docimologia, in A.A.V.V., Nuovo dizionario di pedagogia, a cura di G. Flores d'Arcais, Edizioni Paoline, Roma, 1982, pp. 353-357.
M. De Augustinis, La comunicazione educativa, La Scuola, Brescia, 1993.
M. De Benedetti, Appunti per una programmazione dell'apprendimento in M. Groppo (a cura di), La comunicazione educativa: le tecnologie dell'istruzione, Vita e pensiero, Milano, 1975.
G. de Landsheere, Storia della pedagogia sperimentale. Cento anni di ricerca educativa nel mondo, Armando Armando, Roma, 1988.
M. Donnarumma D'Alessio, Perché devo crescere?, Istituto geografico De Agostini, Novara, 1989.
M. Gattullo e M. L. Giovannini, Misurare e Valutare l'Apprendimento nella Scuola Media, Mondadori, Milano, 1989.
W. J. Goode e P.K. Hatt, Metodologia della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1962.
M. Groppo (a cura di), La comunicazione educativa: le tecnologie dell'istruzione, Vita e pensiero, Milano, 1975.
J. Holmes, The structure of teachers directives, in J. C. Richards and R.W. Schimdt, Language and communication, Longman, London and New York, 1983.
M. Laeng, Pedagogia informatica, Armando Armando, Roma, 1985.
J. Parry, Psicologia della comunicazione umana, Armando Armando, Roma, 1973.
M. Postic, La relazione educativa. Oltre il rapporto maestro - scolaro, Armando Armando, Roma, 1983.
L. Serpico Persico, La valutazione come problema educativo e pedagogico, in G. Acone, Dimensioni attuali, etc., cit.
F. W. Taylor, L'organizzazione scientifica del lavoro, Prefazione a cura di Aldo Fabris, Etas Compass, Milano, 1967.
A. Vanni, La didattica dell'informatica. Problemi e prospettive, Edisud, Salerno, 1987.
Note
*) Testo della relazione tenuta presso la Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Salerno - Dipartimento di Scienze dell'educazione nel corso di Perfezionamento, di Aggiornamento e di Formazione culturale e professionale in "Metodologie e misure docimologiche" il 13 marzo 1995.
1) W. J. Goode e P.K. Hatt, Metodologia della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1962, p. 16.
2) Ivi.
3) Ivi, p. 17.
4) Ivi.
5) Ivi.
6) Ivi.
7) F. W. Taylor, L'organizzazione scientifica del lavoro, Prefazione a cura di Aldo Fabris, Etas Compass, Milano, 1967, pp. XXXII.
8) Ivi.
9) Si veda la "voce" docimologia a cura di Luigi Calonghi, in A.A.V.V., Nuovo dizionario di pedagogia, a cura di G. Flores d'Arcais, Edizioni Paoline, Roma, 1982, pp. 353-357.
10) Ivi, p. 354.
11) Ivi, p. 357.
12) G. de Landsheere, Storia della pedagogia sperimentale. Cento anni di ricerca educativa nel mondo, Roma, Armando Armando 1988, pp. 201-202.
13) Ivi, p. 202. In questo caso l'Autore si riferisce al National Assessment of Educational Progress.
14) Ivi, p. 204.
15) M. De Augustinis, La comunicazione educativa, La Scuola, Brescia, 1993, p. 117.
16) Ivi, p. 122. Il De Augustinis fa riferimento allo scritto: M. Gattullo - M. L. Giovannini, Misurare e Valutare l'Apprendimento nella Scuola Media, Mondadori, Milano, 1989.
17) Ivi, p. 124.
18) M. Postic, La relazione educativa. Oltre il rapporto maestro - scolaro, Armando Armando, Roma, 1983.
19) Ivi, p. 121.
20) Ivi.
21) Ivi.
22) Ivi, p. 125.
23) M. De Benedetti, Appunti per una programmazione dell'apprendimento in M. Groppo (curatore), La comunicazione educativa: le tecnologie dell'istruzione, Vita e pensiero, Milano 1975, citato da F. Bertoldi, Note critiche di tecnologia didattica, in G. Acone ed altri, Dimensioni attuali della professionalità docente, La Scuola, Brescia, l991, p.157.
24) Ivi, p. 158.
25) Ivi, p. 159.
26) L. Serpico Persico, La valutazione come problema educativo e pedagogico, in G. Acone, Dimensioni attuali, etc., cit., p. 184.
27) J. Holmes, The structure of teachers directives in J. C. Richards and R.W. Schimdt, Language and communication, Longman, London and New York, 1983, p. 92.
28) A. Vanni, La didattica dell'informatica. Problemi e prospettive, Edisud, Salerno, 1987, p. 79.
29) Ivi, p. 80.
30) M. Laeng, Pedagogia informatica, Armando Armando, Roma, 1985, p. 67.
31) Si veda, in particolare, l'opera di J. Parry, Psicologia della comunicazione umana, Armando Armando, Roma, 1973.
32) M. Donnarumma D'Alessio, Perché devo crescere?, Istituto geografico De Agostini, Novara, 1989, p. 77.