La percezione

 

Una confusione di suoni e di colori, il neonato inizia la sua vita.

Cos’è la percezione? Alcuni autori definiscono la percezione come quel processo mediante il quale l’essere vivente, grazie alle capacità discriminatorie dei suoi organi di senso e all’elaborazione superiore o cognitiva del percepito, trova informazioni sul mondo che lo circonda. Tra le tante scuole o correnti di psicologia la Gestalt pone, sin dall’origine, in primo piano, il nesso soggetto-oggetto, relazione che viene indagata nell’atto psichico più complesso, ossia la percezione. Infatti, con la Gestalt vengono individuate, rintracciate, delle strutture, sia nel mondo fisico sia nel mondo mentale, e tra questi due domini si cerca di rintracciare la condizione generale che rende possibile una loro interpretazione omogenea. Tale condizione viene individuata nel postulato dell’isomorfismo, ossia in una corrispondenza di forme o strutture tra mondo fisico e mondo psichico, tra sfera fisiologica e sfera mentale, secondo un modello esplicativo di tipo analogico. Questa visione viene espressa dai gestalisti, soprattutto attraverso due leggi psicologiche fondamentali: la legge della formazione non additiva della totalità e la legge della pregnanza: queste due leggi dicono che il Tutto si comprende solo a condizione che venga abbandonato l’atteggiamento di considerarlo come la risultante di una somma, per progressive aggiunte ad elementi primitivi, già esistenti e/o pre-esistenti. Questi cessano di essere considerati addenti, ma diventano fattori che cadono sotto il carattere dell’appartenenza al Tutto. Così, gli elementi che entrano nella sensazione non posseggono solo una funzione strutturata, ma anche strutturante, in quanto ne costituiscono il materiale e, nel contempo, concorrono a determinare la struttura o configurazione generale. Alla luce di questo, possiamo dire che l’atto stesso del percepire è una ricostruzione interna del mondo che ci circonda, ossia la percezione è una approssimazione del mondo. Alcuni sperimentatori del cosiddetto “New Look” hanno dimostrato, in alcuni esperimenti, che l’individuo chiamato a dover descrivere gli stimoli somministrati in condizioni particolari come: tempo di stimolo limitato, illuminazione crepuscolare, forme di oggetti debolmente strutturati, davano comunque una descrizione personale e non reale dello stimolo percepito. La qualità delle risposte, si è visto, era comunque, o poteva essere, condizionata dai bisogni organici del soggetto e dal valore individuale che veniva attribuito agli oggetti percepiti. Mc Clelland ed Atkinson, nel 1948, per dimostrare l’importanza dei bisogni fisiologici nella percezione e descrizione di stimoli “ambigui”, sottoposero 108 soggetti adulti, tenuti a digiuno da un minimo di un’ora ad un massimo di 18 ore, ad una prova che, secondo le istruzioni, si proponeva di misurare le capacità di percepire stimoli deboli o subliminali. In realtà, per 32 dei soggetti, venivano proiettati su di uno schermo deboli macchie, mentre, per i restanti, non si proiettava assolutamente nulla, sebbene vari espedienti fossero messi in atto per dare l’impressione che si trattasse effettivamente di una prova di acutezza visiva. Le risposte percettive dei soggetti sottoposti all’esperimento furono analizzate secondo la frequenza con cui presentavano contenuti relativi al cibo, o secondo la valutazione riferita intorno alla grandezza e al numero degli oggetti relativi al cibo oppure neutri. Inoltre, le risposte vennero analizzate secondo le ore di digiuno a cui i soggetti erano stati sottoposti. I risultati mostrano che il numero delle risposte comportanti connotazioni di cibo aumenta notevolmente man mano che crescono le ore di privazione di cibo; questo numero aumenta quando lo schermo è vuoto ed ai soggetti viene ugualmente chiesto di riferire ciò che “hanno visto”. Le risposte relative agli oggetti-cibo ed agli oggetti-strumento, atti a procurare il cibo, danno evidenza a valutazioni di maggior grandezza rispetto agli oggetti-strumento a carattere neutro; ciò non è stato rilevato nelle risposte dei soggetti sazi. Due ricercatori italiani, Riccobono e Di Fiore, nel 1965, in uno studio sull’influenza del bisogno di fame sulla percezione, hanno confermato i risultati sopraccitati. Altri esperimenti comprovano l’importanza, nella descrizione delle caratteristiche dell’oggetto, del valore affettivo attribuito allo stimolo. Infatti, quando si parla di espressività degli oggetti percepiti, come scrive Metzger (1966), l’individuo cerca o, meglio, coglie una serie svariata di qualità, che possono essere così classificate:

1) Qualità sensoriali o semplici. Sono presenti anche se riduciamo lo stimolo ad una area punti-forme, e sono specifiche per un preciso organo di senso

Esempi: le tonalità cromatiche, il caldo, il freddo, l’amaro, il dolce, ecc.

 

2) Qualità globali o formali. Sono estese a tutta la configurazione nel suo insieme e sono tali da emergere solo dall’esame del tutto, non di piccole parti; non è possibile, cioè, risalire ad esse da un esame di particolari eventi. Esse si colgono immediatamente da una ispezione globale, estesa a tutto l’oggetto con un atteggiamento non analitico, ma globale. Le qualità globali a loro volta comprendono:

 

a)   qualità strutturali: caratterizzano appunto la forma e il disegno architettonico dell’oggetto. Tali sono le qualità cui fanno riferimento gli aggettivi rettilineo, rotondo, aperto, snello, tozzo, simmetrico, ecc. Sono qualità che si possono cogliere con immediatezza nelle configurazioni visive, nei ritmi, nelle melodie, ecc.;

b)   qualità costitutive: si riferiscono agli aggettivi liscio, ruvido, molle, lucido, trasparente, torbido, rauco, ecc.;

c)   qualità espressive: sono quelle cui si riferiscono aggettivi come allegro, triste, aggressivo, frettoloso, solenne, virile, amichevole, ecc. Anche queste sono qualità che emergono con immediatezza e spontaneità nell’esame degli oggetti.

Una stessa qualità espressiva, come la calorosità, può manifestarsi oltre che in qualità semplici (ad esempio, nella sensazione termica di caldo, o nel colore giallo rossastro), anche in determinate strutture: ad esempio, nelle forme spaziali di certi tipi di barocco, oppure nella struttura comportamentale della tenerezza umana. Vi è dunque una coincidenza espressiva fra determinate forme e qualità semplici, nel medesimo od anche  in diversi ambiti sensoriali. Come afferma Kòhler (1935), per lungo tempo si è ritenuto che le qualità dei diversi sensi non avessero nulla in comune, eppure molti fatti contraddicono questa concezione. Chiarezza ed oscurità sono attributi comuni all’esperienza visiva ed a quella uditiva. La parola tedesca rauch (rauco, ruvido) viene usata sia per certe esperienze uditive, sia per esperienze tattili. Un aggettivo come dolce si può usare non solo per un cibo che assaggiamo, ma anche per il suono di una voce. Es:  in un esperimento è stato richiesto di far coincidere di le parole tachete e maluma (prive di significati convenzionali) con i due modelli grafici mostrati in basso; la massima parte dei soggetti risponde, senza ombra di esitazione, chiamando tachete la figura appuntita e maluma la figura arrotondata.


Anche nella figura successiva non vi sono dubbi, quando si chiede quale cane si chiama Plisch e quale si chiama Plum.

 


Questi risultati sono spiegabili solo se ammettiamo che i due ordini (le parole ed i disegni) hanno qualcosa in comune, e cioè il correlato psicologico del processo percettivo dinamico. In altri termini, gli eventi psichici, che corrispondono alla percezione della parola tachete, hanno qualcosa in comune, cioè sono isomorfi, con gli eventi psichici che corrispondono alla percezione del disegno angoloso.

Se accettiamo la teoria dell’isomorfismo, possiamo spiegarci perché, ad esempio, un paesaggio ci sembri triste: evidentemente, la strutturazione percettiva di quel paesaggio è isomorfa, in qualche modo, con lo stato d’animo tristezza oppure con il comportamento di una persona manifestante triste. Possiamo dire ancora, ad esempio, che il silenzio, il buio, sono per noi impressioni evidenti e cariche spesso di emozioni; questi sono stati puramente percettivi presenti in noi anche in assenza delle realtà fisiche corrispondenti. Vi sono poi, come già detto, altre situazioni naturali o artificiali nelle quali attribuiamo agli oggetti proprietà che fisicamente non hanno.

L’espressività è quindi una qualità globale; la percezione delle emozioni è un caso particolare della espressività.

La teoria gestaltica non nega ogni importanza all’esperienza, alla familiarità, alla memoria, perché questi sono fattori di campo. Si spiega così perché il comportamento di una persona è tanto più espressivo, quanto più la persona stessa è conosciuta. Ma imparare a cogliere le espressioni non significa associazione su base empatica; significa piuttosto affinamento delle capacità discriminative.


 
L’importanza delle capacità discriminatorie dell’individuo, nell’atto del percepire, può essere spiegata attraverso l’esperimento condotto da Kanizsa nel 1955: questi presentò a dei soggetti una figura dove vi era riportata, in un quadrato chiuso, una figura stimolo. Questa veniva percepita dai soggetti e descritta come raffigurante due triangoli isosceli sovrapposti, pur se nella realtà non vi era raffigurato nessun triangolo. Questo fenomeno può essere spiegato attraverso, la teoria gestaltica dell’isomorfismo. Per riassumere, quindi, possiamo dire che la percezione è una ricostruzione interna ad ogni osservatore della realtà  fisica, ambientale, ricostruzione a cui concorrono non solo le proprietà degli stimoli, ma anche le attività autoctone dell’organismo: capacità discriminatorie degli organi di senso ed elaborazione superiore o cognitiva del percepito. Questo ci porta a riflettere anche sul meccanismo delle allucinazioni; come si sa, queste non sono altro che degli episodi percettivi di vario tipo: acustici, tattili, olfattivi e visivi, dove però manca l’oggetto stimolo.

Alcuni esperimenti sulla deprivazione sensoriale hanno permesso di confermare l’importanza dell’attività percettiva per il mantenimento dell’armonia psichica dell’individuo. Shurley, nel 1960, in un esperimento di deprivazione sensoriale, usò una piscina e chiese ai volontari di immergervisi dentro, privandoli così anche della gravitazione. Il risultato dell’esperimento fu l’apparizione, nei soggetti, di allucinazioni violente, accompagnate dal prorompere verso l’esterno di fenomeni endogeni, come suoni, immagini, sdoppiamenti ed  emozioni di tipo euforico o ansioso. La deprivazione sensoriale aveva portato gli individui a vivere delle esperienze allucinatorie vicine o simili agli stati psicotici. Farmè, nel 1969, scrisse: “la regolare funzione del SNC dipende dal costante bombardamento di stimoli, che produce uno stato di veglia: perché si abbia un comportamento normale, intelligente, adatto, occorre una continua varietà di stimolazioni”. Importanti sono quindi anche gli stimoli subsogliali, che ci ricordano ad esempio di essere vestiti senza farci pesare la sensazione degli abiti che coprono il corpo.

  Angelo Vecchiarelli                                    a.vecchiarelli@aliseo.it