Michele Cesaro
Michele Intorcia

I climi psico-organizzativi. L'altra faccia delle organizzazioni

1. Pensare un nuovo soggetto

La considerazione dalla quale muoviamo per valutare le potenzialità euristiche del concetto di clima organizzativo è la scarsa capacità delle scienze organizzative di <<pensare>> e <<vedere>> il soggetto e la sua soggettività. È una considerazione quest'ultima che traiamo dalla riflessione in atto nella psicologia delle organizzazioni che, ripensando strumenti e approcci, indica possibili nuovi itinerari per la problematica complessità del soggetto nelle organizzazioni [Depolo & Sarchielli 1991; Kaneklin & Aretino 1993].

Ci pare che rientri in questo tentativo, innanzitutto, lo sforzo di ripensare il ruolo del soggetto che conosce le organizzazioni, cioè lo studioso di problemi organizzativi. Esso diventa <<soggetto capace di pensare se stesso pensante>>, compiendo l'operazione epistemologica fondamentale di <<reintegrare l'osservatore nelle sue osservazioni>> così da ricollocarlo al centro della <<conoscenza complessa delle organizzazioni>> ancor prima che della <<conoscenza delle organizzazioni complesse>>.

In questo senso affermare, come fa Morgan [1980; 1986; 1989], che la teoria organizzativa è metaforica implica il riconoscimento che essa è impresa essenzialmente soggettiva, che coinvolge cioè il soggetto come protagonista di conoscenza (in questo caso scientifica).

A partire da questa metariflessione in ambito organizzativo la soggettività si rivela metafora complessa capace cioè di fornire una rappresentazione dialogica e uniduale dell'organizzazione e dunque di prefigurarla e concepirla come <<unità molteplice>>, come pluralità di soggetti e come soggetto plurale, come produttrice di soggettività (che è sempre meno sottoprodotto) ma nondimeno prodotto di soggettività molteplici [Spaltro 1990].

E se pluralità significa molteplicità di obiettivi, di razionalità, di professionalità, di libertà, di culture del lavoro [Carboni 1991] significa anche disordine, conflitto, vincoli, antagonismo tra queste culture e razionalità. Questa pluralità costituisce un problema di gestione -- per l'individuo la complessità organizzativa e per l'organizzazione la complessità individuale -- dunque uno spazio per configurare nuove relazioni tra questi due soggetti.

Si è parlato anche di <<nuova alleanza>> per definire questa relazione circolare, in cui l'organizzazione è spazio-tempo conversativo per il soggetto e la soggettività è conversazione [Varchetta 1990].

L'ipotesi di un nuovo soggetto si muove intorno all'idea che esso stabilisca una relazione circolare e complessa con il contesto organizzativo. Si pensa il soggetto come uno <<sperimentatore>> di un progetto lavorativo ed organizzativo "ecologico" dove l'identità di attore è connotata dalla capacità stessa di progettazione, come qualcosa che il soggetto è impegnato a fare, una sua costruzione sociale, cognitiva e nondimeno culturale e temporale (esser-ci) [Maggi 1988; Varchetta 1990]. Dunque la relazione organizzativa è relazione conversativa capace di produrre l'identità di un soggetto che organizza il mondo organizzando sé stesso.

Dall'altro lato la nuova organizzazione impegnata nell'implementazione delle condizioni di flessibilità, di qualità totale, di gestione delle reti, dell'idea di servizio trova nel soggetto organizzativo un attivatore ed un referente valoriale e interpretativo imprescindibile.

Ciò significa vedere in modo nuovo la relazione che va dal macro livello dell'individuo come risorsa organizzativa (la gestione della risorsa umana) al macro livello dell'organizzazione come risorsa individuale (la realizzazione del proprio se, del proprio progetto personale) [Quaglino & Varchetta 1986]. Questa nuova relazione, definita anche <<solidarietà organizzativa>>, è anche un modo di pensare l'organizzazione come <<comune sentire>>, come emozione collettiva dunque come spazio negoziale tra individuo e collettivo ovvero come clima organizzativo.

2. Le origini: le atmosfere di gruppo

Vige ormai un certo consenso tra gli autori che si interessano di climi psico-organizzativi nell'indicare nei lavori condotti da Lewin sulla dinamica di gruppo la matrice originaria di questo tipo di studi [Schneider 1978; Glick 1985; Quaglino & Mander 1987; Mestitz 1987].

Il concetto di clima sociale o atmosfera di gruppo viene, infatti, introdotto da Lewin, Lippit e White alla fine degli anni `30 in seguito alle osservazioni dei fenomeni prodotti da differenti stili di leadership nei gruppi e nei vissuti interpersonali. Lewin indica le condizioni di tipo psico-sociale che si vengono a creare nei gruppi con il concetto di atmosfera:

L'atmosfera è qualcosa d'intangibile, una proprietà della situazione sociale complessiva, e potrà essere valutata scientificamente se verrà valutata da questo punto di vista [Lewin 1980; 114]

e in un'altra occasione:

una proibizione o una meta da raggiungere possono giocare un ruolo essenziale nella situazione psicologica senza tuttavia essere chiaramente presenti alla coscienza. Lo stesso è in particolare vero per ciò che riguarda l'atmosfera sociale generale: il suo essere favorevole, ostile o tesa. Non v'è dubbio che proprio queste caratteristiche generali dell'atmosfera sociale sono del più grande significato sul comportamento dell'uomo e del suo sviluppo. Tuttavia spesso ci si accorge dell'importanza di ciò solo quando tale atmosfera ha subito dei mutamenti [Lewin 1972; 310]

Solo trent'anni dopo gli studi di Lewin il concetto di clima sociale viene mutuato dagli psicologi americani di stampo comportamentista che si interessavano di management e di efficienza organizzativa.

Argyris [1958] è forse il primo ad impiegare il concetto di organizational climate, coniandone il termine e sviluppando un vero e proprio modello. In esso trovano spazio tre gruppi di variabili organizzative: le politiche, le procedure e le posizioni formali nell'organizzazione; i fattori personali che includono bisogni, valori e capacità individuali; l'insieme di variabili associate con gli sforzi degli individui per conformare i propri fini con quelli dell'organizzazione. Queste variabili, nel loro complesso, vanno a definire il campo di analisi chiamato organizational behavior ovvero quel "livello di analisi discreto, risultante dall'interazione dei livelli di analisi individuale, formale, informale e culturale" [Argyris 1958; 516].

In linea con il suo modello cibernetico che prevede retroazioni ai diversi livelli, Argyris identifica il clima/morale con lo stato omeostatico del sistema: il clima, visto come un processo dinamico, è cioè un elemento di regolazione del sistema organizzativo che ne permette il funzionamento.

Nei paragrafi che seguono cercheremo di seguire alcuni sviluppi, a nostro avviso essenziali, del concetto di clima organizzativo facendo particolare attenzione alle ipotesi formulate sulla loro genesi.

3. I climi organizzativi

Un primo modo di vedere i climi è concepirli come una caratteristica o un attributo dell'organizzazione nel suo insieme. Secondo James e Jones [1974a] questa ipotesi si è articolata in due approcci: un approccio che ha utilizzato indicatori oggettivi multipli del clima come attributo organizzativo e un approccio che ha utilizzato misure percettive di un attributo organizzativo.

Nel primo il clima è visto come un

insieme di caratteristiche che descrive un'organizzazione e che: a) la distingue da altre organizzazioni, b) sono relativamente durevoli, e c) influenzano il comportamento degli individui nell'organizzazione [Forehand & Gilmer 1964; 362]

Forehand e Gilmer [1964] definiscono in questo modo quello che sarà il campo di indagine dei climi organizzativi sostenendo la necessità di rendere operativo questo concetto se si vuole descrivere gli effetti delle variazioni ambientali sul comportamento individuale, individuando le modalità di misurazione, le sue dimensioni, le relazioni con il comportamento e le implicazioni di tali relazioni sul funzionamento delle organizzazioni. Seguendo l'analogia tra <<clima organizzativo>> e <<personalità individuale>> gli autori propongono un certo numero di <<tratti>> climatici: la dimensione, la struttura di autorità e le relazioni tra persone e gruppi, la complessità sistemica, la direzione dei fini organizzativi e lo stile di leadership variabile sulla quale non nascondono qualche riserva dovuta al suo carattere soggettivo.

Anche il contributo di Litwin e Stringer [1968], esplicitamente ispirato agli studi lewiniani sulle atmosfere di gruppo, è in linea con questa concezione. Gli autori simulano tre ambienti aziendali con differenti climi: il primo strutturato in modo autoritario, il secondo in modo democratico/amichevole ed il terzo orientato al successo individuale. I risultati sono riconducibili a quelli ottenuti da Lewin: i climi organizzativi variano in funzione dei diversi stili di leadership esercitati ed hanno effetti diversi sulle motivazioni dei membri, sulla performance e sulla soddisfazione al lavoro.

Nel secondo approccio ai climi c'è invece una maggiore considerazione degli elementi percettivi. La definizione di Campbell è emblematica: il clima è visto come

un insieme di attributi specifici ad una particolare organizzazione che possono essere indotti dal modo in cui l'organizzazione tratta i suoi membri e il suo ambiente. Per l'individuo, membro dell'organizzazione, il clima prende la forma di una serie di atteggiamenti e di aspettative che descrivono l'organizzazione in termini sia di caratteristiche statiche (come il livello di autonomia), che di conseguenze comportamentali e risultati conseguenti [Campbell e al. 1970]

L'inedita attenzione posta sulla natura percettiva del clima organizzativo pone però due serie di nuove questioni: la prima concernente il peso della situazione data e della situazione percepita nel determinare il comportamento e gli atteggiamenti nelle organizzazioni; la seconda riguarda la relazione tra fattori oggettivi e percettivi soprattutto per ciò che riguarda le definizioni e l'accuratezza di tali percezioni. Il clima organizzativo, in questa accezione, è visto come un processo psicologico determinato dalla situazione in cui le variabili climatiche sono considerate fattori causali o intervenienti per prestazioni e atteggiamenti. Tali fattori intervenienti mediano tra caratteristiche situazionali oggettive (processi organizzativi) e comportamento o tra caratteristiche individuali e comportamento.

Pritchard e Karasick [1973] contribuiscono ad una maggiore definizione del clima organizzativo così concepito introducendo la controversa questione della relazione tra clima e soddisfazione al lavoro. Il clima è definito come

una qualità relativamente durevole dell'ambiente interno di un'organizzazione che la distingue da altre organizzazioni: (a) che risulta dal comportamento e dalle politiche dei membri dell'organizzazione, specialmente dal top management; (b) che è percepito dai membri dell'organizzazione; (c) che serve come base per interpretare la situazione; (d) opera come una fonte di pressione per dirigere le attività [Pritchard & Karasick 1973; 126]

È Guion [1973] che muovendo dalle evidenze di questa ricerca enfatizzerà gli elementi di contraddizione di questo approccio che a suo avviso emergerebbero dalla confusione del clima visto ora come <<attributo organizzativo>> ora come <<attributo individuale>>: se ci si riferisce al clima come un attributo organizzativo misurato percettivamente (perceived organizational climate), sostiene Guion, l'accuratezza delle percezioni deve essere validata da misure oggettive della situazione, confrontando ad esempio, il <<grado di autonomia>> così come è percepito dai membri con misure oggettive della <<formalizzazione>>, della <<standardizzazione>> e <<specializzazione>> compiute dai ricercatori. In altre parole l'introduzione delle percezioni individuali nella misurazione del clima introdurrebbe un elemento di varianza delineandosi come problema metodologico.

Una modalità di sviluppo dei suggerimenti e delle critiche di questi autori è rappresentata dalla formulazione di ipotesi sulle relazioni tra variabili strutturali e clima. Payne e Mansfield [1973] esaminano sia le relazioni tra differenti aspetti di clima e varie dimensioni della struttura e del contesto organizzativo gli <<effetti>> del livello gerarchico sulle percezioni del clima organizzativo traendone l'impressione che "il concetto di clima organizzativo sia troppo grossolano per essere usato nella previsione del comportamento del sistema sociale da esso descritto" [Payne & Mansfield 1973; 526].

Payne e Pugh [1976] che individuano il contesto (mete, dimensioni, risorse, tecnologia, autonomia, proprietà) come capace di influenzare la struttura (formalizzazione, autorità, status, ruoli) che, a sua volta, è in relazione con il clima (sviluppo e crescita, accettazione dei rischi, calore, sostegno, controllo) enfatizzano il peso delle variabili strutturali: il clima, causa ed effetto di percezioni e variabili individuali "descrive i processi comportamentali caratteristici in un sistema sociale in un particolare momento. Questi processi riflettono i valori, gli atteggiamenti e le credenze dei membri dell'organizzazione che diventano quindi parte del concetto" [Payne & Pugh 1976; 1127]. L'ipotesi chiave di Payne e Pugh è che strutture diverse producono climi diversi e, quindi, malgrado gli autori includano nel loro modello variabili psicologiche ovvero soggettive e variabili eminentemente strutturali essi riconducono comunque le prime alle seconde.

Sono invece sorprendenti le conclusioni di Lawler, Hall e Oldam [1974] che analizzano le relazioni tra variabili strutturali e clima organizzativo così come percepito dai membri, nonché quelle tra clima percepito, prestazione e soddisfazioni al lavoro. Sulla base delle evidenze empiriche raccolte sostengono che la struttura non gioca un ruolo decisivo nel determinare il clima organizzativo, ipotizzando che le percezioni di clima hanno a che fare più con l'esperienza quotidiana di lavoro che con la struttura dell'organizzazione.

In conclusione, le ricerche svolte da questi autori evidenziano che il clima organizzativo emergerebbe dagli aspetti <<oggettivi>> del contesto lavorativo e soprattutto in relazione alla dimensione, alla centralizzazione o decentralizzazione dell'autorità nei processi decisionali, al numero dei livelli gerarchici, al tipo di tecnologia usato nella produzione [Peterson 1975]. Questi elementi, etichettati come <<struttura organizzativa>> costituiscono la centralità del pensiero di questi autori. I quali pur considerando l'influenza di elementi soggettivo/percettivi o legati alla personalità dei membri, affermano che è la <<struttura organizzativa>> a determinare il clima organizzativo in modo relativamente indipendente dalla percezione dei membri.

Più volte sono state indicate le debolezze di questi approcci [James & Jones 1974a; Schneider & Reichers 1983; Moran & Volkwein 1992]. La critica mossa da James e Jones [1974a] riguarda la difficoltà che queste ipotesi denotano nel differenziarsi chiaramente dagli studi degli attributi o dimensioni organizzative ai quali altri autori come Pugh, Hickson, Hinings e Turner [1969] avevano fatto riferimento come variabili situazionali o di struttura. Inoltre le evidenze empiriche sulla correlazione tra indicatori strutturali ed indicatori climatici sono alquanto contraddittori variando da ricerca a ricerca e da campione a campione, rendendo difficile la comparazione tra i diversi autori.

Le ipotesi analizzate, ci sembra, sottovalutino o non considerino adeguatamente che <<contesto>>, <<struttura>>, <<mete>> ecc. non sono fenomeni naturali ma soluzioni contingenti, indeterminate, arbitrarie [Crozier & Friedberg 1978] e finiscano col disconoscere il peso degli elementi soggettivi o strategici accettando che esista un sostanziale consenso delle percezioni climatiche spiegato dall'identità della struttura organizzativa che le informerebbe. Così facendo non possono spiegarsi, ad esempio, le differenze climatiche che sembra emergano tra gruppi di lavoro nella stessa organizzazione perché, se la struttura organizzativa può aiutare a distinguere tra organizzazioni diverse, essa è considerata stimolo unico di un unico clima, capace di informare l'intera organizzazione. Ma, soprattutto, reificando la struttura organizzativa si perde completamente di vista quell'area negoziale e negoziata tra individui e tra individui e organizzazioni che dovrebbe avere una assoluta priorità nell'analisi psico-sociale delle organizzazioni. Nell'ultima parte avanziamo una idea per superare questa naturalizzazione degli aspetti strutturali nella analisi del clima.

4. Climi psicologici, climi collettivi e climi aggregati

L'approccio che sposta decisamente lo studio dei climi verso ipotesi percettive è quello che utilizza misurazioni multiple di un attributo individuale [James & Jones 1974a] nel quale sono inclusi soprattutto i lavori di Schneider e altri [1972; 1972; 1975; 1978]. In essi gli autori definiscono il clima come un insieme di percezioni molari o globali che gli individui hanno del loro ambiente organizzativo e di lavoro: queste percezioni globali rifletterebbero l'interazione tra caratteristiche personali e organizzative in quanto l'individuo "come elaboratore di informazioni (informations processor) usa gli inputs da: (a) gli eventi oggettivi e le caratteristiche dell'organizzazione; (b) le caratteristiche (valori, bisogni) del percettore" [Schneider & Hall 1972; 447].

Schneider sostiene che il clima deve essere descritto come personalistico ovvero come una percezione individuale ed aggiunge che "ciò che è psicologicamente importante per l'individuo è come egli percepisce il proprio ambiente di lavoro, non come altri lo descrivono" [Schneider 1973; 254]. Il clima organizzativo è decisamente un attributo individuale.

Sono riferite a queste ricerche le critiche mosse da Johannesson [1973] e Guion [1973] per alcuni aspetti omologhe: se per Johannesson valutare il clima come una misura percettiva rischia di riprodurre gli studi sugli atteggiamenti nei confronti del lavoro, per Guion se ci si riferisce al clima misurato percettivamente come ad un attributo individuale senza utilizzare alcun referente esterno per verificarne l'accuratezza, il pericolo è quello di <<riscoprire la ruota>> ovvero misurare ed etichettare vecchi costrutti come la soddisfazione al lavoro con nomi nuovi.

La soluzione suggerita da James e Jones [1974a; 1974b], a queste come ad altre questioni sui climi, è quella di tenere ben distinti il clima visto come attributo organizzativo ed il clima come attributo individuale:

Quando considerato come un attributo organizzativo, il termine clima organizzativo appare appropriato. Quando considerato come un attributo individuale, è raccomandato l'impiego della nuova designazione di "clima psicologico" [James & Jones 1974a; 1108]

Ed ancora, chiarendo i motivi teorici di tale distinzione:

Il clima organizzativo deve essere differenziato dal clima psicologico. Il clima organizzativo si riferisce ad attributi organizzativi ed ai loro effetti principali, o stimoli, mentre il clima psicologico si riferisce ad attributi individuali, chiamati processi psicologici intervenienti, per mezzo dei quali l'individuo trasforma l'interazione tra attributi organizzativi percepiti e caratteristiche individuali in una serie di aspettative, atteggiamenti, comportamenti, ecc. [James & Jones 1974a; 1110]

Probabilmente consapevoli dell'eccessivo formalismo di una tale distinzione James e Jones [1974b] tenteranno successivamente di chiarire il rapporto tra clima organizzativo e clima psicologico ed in ultima analisi a loro avviso il clima psicologico è la percezione del clima organizzativo [Quaglino & Mander 1987].

Il concetto di clima psicologico diventerà assolutamente predominante negli studi successivi sui climi non prima però di aver affrontato il problema della relazione con il concetto di soddisfazione al lavoro [Downey & Hellriegel & Slocum 1975; La Follette & Simms 1975; Schneider & Snyder 1975]. La soluzione è una distinzione logica e concettuale che Schneider e Snyder [1975] formulano ed alla quale molti autori si rifaranno:

1. Il clima organizzativo è concettualizzato come una caratteristica delle organizzazioni che è riflessa nelle descrizioni fatte dai membri delle politiche, delle pratiche e delle condizioni che esistono nell'ambiente di lavoro.

2. La soddisfazione al lavoro è concettualizzata come una risposta affettiva degli individui che è riflessa nelle valutazioni fatte dai membri degli aspetti individualmente salienti del loro lavoro e dell'organizzazione per la quale lavorano [Schneider & Snyder 1975; 326 corsivo mio]

Malgrado questi sforzi di concettualizzazione non mancheranno gli articoli polemici: Woodman e King [1978] si chiedono, dopo aver illustrato i maggiori ostacoli nelle ricerche sui climi se quest'ambito di ricerca non rientri piuttosto nel folklore che nella scienza. Restano però voci isolate e la ricerca sui climi psicologici, soprattutto negli Stati Uniti, si rivitalizzerà sulla base delle teorie cognitiviste in psicologia.

I limiti concettuali degli studi sui climi verrano rivisti al fine di superarli grazie ai suggerimenti che vengono dalla <<teoria cognitiva dell'apprendimento sociale>> e dalla <<psicologia interazionale>> da James, Hater, Gent e Bruni [1978]: gli autori propongono di considerare il clima come "rappresentazioni cognitive individuali di condizioni situazionali relativamente prossime, espresse in termini che riflettono interpretazioni psicologicamente significative della situazione" [James e al. 1978; 768]. Gli individui cioè risponderebbero in primo luogo alle rappresentazioni cognitive della situazioni piuttosto che alla situazione in sé ed il clima psicologico sarebbe dunque assimilabile ad uno <<schema di ordine elevato>> (Higher-Order Schemas); inoltre le rappresentazioni cognitive delle situazioni sarebbero correlate a precedenti esperienze, all'apprendimento ed alla memoria; infine si ipotizza che le cognizioni, i sentimenti, ed i comportamenti siano causalmente interattivi come pure la relazione tra individuo e situazione.

Pari importanza teorica per il consolidamento del costrutto clima psicologico ha l'articolo di Jones e James [1979] secondo i quali:

l'attuale trattamento del clima come un insieme di attributi psicologici fondati percettivamente sembra condividere al minimo le seguenti assunzioni e cioè che il clima psicologico: (a) si riferisce alle descrizioni individuali della situazione fondate cognitivamente; (b) comprende un processo psicologico di percezione specifiche nelle più astratte rappresentazioni delle influenze psicologicamente significative nella situazione; (c) tende ad essere più strettamente correlato a caratteristiche situazionali che hanno un legame relativamente diretto e immediato alla esperienza individuale; (d) è multidimensionale, con un nucleo centrale di dimensioni applicate attraverso una varietà di situazioni (benché l'aggiunta di dimensioni specifiche può essere voluta per meglio descrivere una situazione particolare) [Jones & James 1979; 205]

Gli autori porranno inoltre un problema che resta pregnante nelle ipotesi percettive: quello della <<teoria di composizione>> cioè di aggregazione dei dati climatici individuali [Powell & Butterfield 1978].

Autori diversi daranno soluzioni diverse a questo problema: Jones e James [1979] utlizzeranno come criterio aggregatore le entità funzionali formali dell'organizzazione. Schneider e Snyder [1975] indicheranno la posizione gerarchica, Johnston [1976] l'appartenenza dei membri a gruppi generazionali diversi; altri autori come Hellriegel e Slocum [1974], James [1982] e Joyce e Slocum [1984] considereranno invece il grado di accordo (aggreement) o di consenso sulle percezioni di clima come base o criterio di aggregazione delle informazioni individuali. Joyce e Slocum [1982] tenteranno invece di ridefinire i concetti di clima organizzativo e psicologico intorno a quello di discrepanza climatica (climate discrepancy), cioè lo scarto tra la misura della percezione climatica individuale e la media delle percezioni individuali (clima organizzativo). Per questi autori i climi sono "costituiti da due parti: una parte organizzativa condivisa con gli altri individui, e la discrepanza climatica, che rappresenta la singola prospettiva personale riguardo al clima organizzativo" [Joyce & Slocum 1982; 956]. Ancora Joyce e Slocum [1984] useranno un espediente per alcuni versi opposto a quello appena visto che consisterà nel verificare la validità dei climi aggregati attraverso il grado di accordo sul clima psicologico individuale, coniando il concetto di climi collettivi.

Moussavi, Jones e Cronan [1991], si trovano alle prese con lo stesso problema, articolare delle ipotesi nuove sui criteri di accordo delle percezioni climatiche. La questione presa in considerazione è se le variabili individuali e di posizione possono essere identificate come determinanti delle percezioni individuali dell'ambiente lavorativo o non piuttosto associate ad esse. Gli autori suggeriscono l'aggiunta di un criterio di accordo intra-unità al più convezionale, e già collaudato, criterio di associazione delle differenze di aggregazioni inter-unità. Le evidenze metteranno in risalto che ad elevate differenze inter-unità non corrisponde un elevato accordo intra-unità.

Nonostante il notevole sforzo compiuto da questi autori per restituire la dimensione sociale e consensuale al clima, dopo averne spostato la genesi nelle percezioni climatiche, il tentativo resta insoddisfacente. Così come per le ipotesi strutturaliste ci chiediamo se il <<dipartimento>>, <<la posizione gerarchica>>, il <<sottosistema>> siano criteri adeguati o sufficienti per spiegare il consenso sulle percezioni del clima.

È soprattutto per l'inadeguatezza di tali risposte che alcuni autori mutueranno alcune ipotesi dall'interazionismo simbolico. Questa teoria permette di affermare che è l'interazione tra individui in risposta alla loro situazione a rendere possibile quel consenso che è la fonte e la premessa per parlare di clima organizzativo [Ashforth 1985]. Le specificità di questo approccio sembrano enfatizzarsi soprattutto a riguardo dell'emergenza del significato: il significato non è negli oggetti stessi né è esclusivo prodotto di un individuo elaboratore di processi, secondo la metafora cognitivista, ma piuttosto "esiste nella transazione comportamentale stessa. ... è appreso nel tempo ed emerge da una serie di interazioni tra persone" [Schneider & Reichers 1983; 30] a seguito di una intenzionalità degli attori la quale richiede consapevolezza di un <<oggetto>> che ha una propria autonomia.

Le ipotesi interazioniste sono dunque interessate a cogliere i contenuti delle interazioni che fanno emergere il clima sostenendo che l'interazione comunicativa di un individuo con ciascun altro permette di definire, interpretare e rispondere a elementi della situazione in un modo particolare.

Anche la fenomenologia influenza le ipotesi interazionali: Poole e McPhee [1983] rifacendosi ad essa intendono stabilire una relazione circolare tra individuo e organizzazione rompendo con ogni semplice riduzionismo lineare. Il superamento di un modello lineare di influenza tra individuo e organizzazione è attuato adottando un modello di analisi intersoggettivo: la proposta degli autori è quella di una <<structurational theory>> che riesca a comprendere il livello macro/organizzativo ed il livello micro/individuale. Distinguendo tra struttura e sistema Poole e McPhee affermano il carattere intersoggettivo della prima: essa è un costrutto legato alle interazioni degli individui non riconducibile esclusivamente alle cognition individuali o a dati oggettivi percepibili; il sistema è invece costituito dagli esiti osservabili dell'agire che si verificano nella struttura ovvero quelle relazioni normalizzate e regolarizzate tra individui e gruppi. L'intersoggettività è dunque il processo attraverso il quale si costituisce un legame sopraindividuale tra le prospettive, interpretazioni, valori, credenze dei membri organizzativi: il clima è dunque

un atteggiamento collettivo, prodotto e riprodotto in continuazione attraverso le interazioni fra i membri. Questo atteggiamento è riflesso da una serie di affermazioni di linguaggio circa l'organizzazione: è una variabile di tipo nominale piuttosto che continua: [...]. Nella prospettiva strutturazionale il clima non è un semplice elenco di aspettative o credenze; esso comprende il modo di produzione e aspettative e credenze generalizzate [Poole & McPhee 1983; 213]

Nella suddetta teoria il clima è dunque sia medium che risultato delle interazioni: è cioè medium capace di generare strutture e interpretare eventi organizzativi specifici ma anche esito delle pratiche e procedure che si svolgono nelle organizzazioni strutturate.

La critica principale che viene sollevata alle ipotesi interazioniste del clima è di non considerare adeguatamente il modo in cui il contesto sociale stabilizza e normalizza l'interazione rendendola ricorrente: "gli individui interagenti non formano le loro comuni percezioni de novo. Le loro interazioni sono altamente vincolate e regolate dai precedenti e profondi significati della cultura organizzativa manifesti in elementi come valori, norma e miti" [Moran & Volkwein 1992; 31]. Le dimensioni del clima non posseggono, dunque, né una qualità universale né una esistenza indipendente dal contesto sociale al quale si riferiscono e lo studio della cultura organizzativa può aiutare a prendere in considerazione quel <<differenziale antropologico>> che sembra mancare al costrutto climatico [Cartoccio & Varchetta 1985].

5. Climi e cultura organizzativa

Le prime ipotesi di relazioni tra climi e cultura organizzativa sono contenute nei lavori di Glick [1985] e Ashforth [1985].

Glick analizza la letteratura sui climi organizzativi facendo riferimento ad alcuni nodi problematici: le unità della teoria, le determinanti del clima, le regole di composizione, l'accordo percettivo, la dimensionalità del clima. L'argomentazione chiave è contenuta nella polemica con quegli autori che hanno identificato il clima organizzativo con la media dei fattori di misurazione del clima psicologico. Il clima, secondo Glick, è invece il risultato di processi socio-organizzativi e quindi "deve essere concettualizzato come un fenomeno organizzativo non come una semplice aggregazione del clima psicologico" [Glick 1985; 605].

Ma ristabilendo la specificità del clima organizzativo rispetto a quello di clima psicologico Glick stabilisce anche una relazione tra il clima ed il concetto di cultura organizzativa. Così come il clima, la cultura "è una classe estesa di variabili organizzative e psicologiche che riflettono interazioni individuali in un ambito organizzativo" [Glick 1985; 612]. Glick si sofferma su alcuni elementi di continuità e di discontinuità tra i due ambiti di ricerca senza però proporre un vero e proprio modello.

Ashfort [1985] sembra muoversi parzialmente in questa direzione innestando il discorso sulla cultura organizzativa sulle ipotesi interazioniste della genesi del clima. Accanto al <<gruppo di lavoro>>, all'<<affettività>> ed all'<<ambiente fisico>> quelle sulla <<cultura>> ed il <<management simbolico>> sembrano essere argomentazioni più originali nella spiegazione del clima. Concependola come un insieme di "valori e di assunti dati per scontati" [Ashforth 1985; 841] l'ipotesi centrale dell'autore sulla cultura è che essa informi il clima indicando gli <<oggetti>> significativi per gli individui e che una tale funzione si svolga: a) direttamente, aiutando gli individui a definire che cosa è importante ed attribuendo così un senso alla loro esperienza; b) indirettamente influenzando l'ambiente di lavoro <<oggettivo>>, ossia il materiale grezzo delle percezioni climatiche. In definitiva assunzioni e valori che costituiscono la cultura organizzativa

forniscono un modo di vedere, di relazionarsi e anche di sentire il mondo -- una ideologia. Quindi, mentre le assunzioni e i valori culturali tendono anche ad essere condivisi e durevoli, sottostanno alle percezioni e inferenze ed aiutano a definire ciò che è psicologicamente importante (ad es. realizzazione, affiliazione) [Ashforth 1985; 842]

Ornstein [1986] tenta invece di studiare empiricamente la relazione tra simboli organizzativi e percezioni climatiche in un'ottica, dunque, psicologica. I risultati della ricerca sembrano confermare nella sostanza le ipotesi formulate dall'autore: i simboli agirebbero come comunicatori di informazioni e significati ma anche gli oggetti fisici possono agire da simboli veicolando significati non legati alla funzione dell'oggetto stesso.

I costrutti di clima e cultura non vanno dunque confusi: secondo Ornstein la cultura è "un concetto globale generalmente riferito a norme, valori e fini organizzativi mentre il clima è definito come descrizione individuale delle condizioni di lavoro di un'organizzazione" [ibidem; 226].

Senz'altro più solido teoricamente è il contributo di Moran e Volkwein [1992]: il tentativo degli autori è quello di prefigurare un approccio culturale alla spiegazione della formazione del clima. La definizione di clima che questi autori propongono richiama esplicitamente quella già vista di Forehand e Gilmer [1964] ma è integrata ed arricchita dalle ipotesi sulle relazioni con la cultura organizzativa:

Il clima organizzativo è una caratteristica relativamente durevole di una organizzazione che la distingue da altre organizzazioni: e (a) incarna le percezioni collettive dei membri sulla loro organizzazione con rispetto a dimensioni come autonomia, fiducia, coesione, supporto, riconoscimento, innovazione ed equità; (b) è prodotto dalla interazione dei membri; (c) serve come base per interpretare la situazione; (d) riflette le norme, i valori e gli atteggiamenti della cultura organizzativa; e (e) agisce come una fonte per forgiare il comportamento [Moran & Volkwein 1992; 20]

ed andando meglio chiarendo l'approccio culturale:

l'approccio culturale si focalizza sul modo in cui i gruppi interpretano, costruiscono e negoziano la realtà attraverso la creazione di una cultura organizzativa. La cultura organizzativa contiene gli elementi essenziali dei valori, spiegazioni negoziate e significati storicamente costituiti che impregnano le azioni con propositi e valutatazioni consensuali rendendo possibile gli sforzi organizzati e, quindi, le organizzazioni [Moran & Volkwein 1992; 33]

Gli autori avanzano dunque una serie di ipotesi sulla relazione tra clima e cultura. Mentre il clima sarebbe una caratteristica relativamente durevole dell'organizzazione la cultura è una caratteristica molto durevole dell'organizzazione stessa, dunque, evolve solo lentamente in quanto essa è in un certo senso "una registrazione dell'interpretazione della storia di una unità sociale e dipende dall'esistenza di un passato conosciuto di notevole durata" [Moran & Volkwein 1992; 39]. Inoltre il clima come realtà organizzativa è più superficiale rispetto alla cultura e si forma e trasforma più rapidamente. Se il clima opera al livello di atteggiamenti e valori, la cultura opera non solo a questi livelli ma anche al livello di assunzioni inconsce di una collettività di individui.

Il clima organizzativo sembra dunque includere quei comportamenti che agiscono ai livelli dei <<valori>> e delle <<creazioni>> (le forme di una cultura). In altre parole il clima è "una risposta che un gruppo di individui interagenti, che sono informati e vincolati da una comune cultura organizzativa, dà alle domande e contingenze emergenti negli ambienti interni ed esterni dell'organizzazione" [Moran & Volkwein 1992; 39]. Ciò significa che il clima interseca le forme della cultura, che sono quelle pratiche culturali delle quali gli individui hanno una esperienza più consapevole ed immediata, non la sostanza della cultura organizzativa (fig.1).

Fig.1 - La sovrapposizione tra clima e cultura per Moran e Volkwein [1992]

6. Ipotesi per una analisi climatica

Una delle considerazioni generali che possiamo fare sulla letteratura dei climi riguarda la notevole eterogeneità di modelli, ipotesi e conclusioni a fronte di una elevata quantità di contributi che va ormai ad identificare un preciso ambito di indagine sulle organizzazioni.

A dispetto degli sforzi teorici e metodologici condotti, infatti, i ricercatori hanno più volte manifestato la difficoltà di elaborare modelli climatici soddisfacenti nei quali indicare dimensioni e relazioni valide <<una volta per tutte>>. Rispetto ai problemi che si voleva affrontare, il concetto di organizational climate appare costellato da cambiamenti di paradigma più che da vere e proprie soluzioni: la relazione tra clima e soddisfazione al lavoro ci pare emblematica ed anche il rinnovato interesse sui climi dovuto alle ipotesi sulle relazioni con la cultura organizzativa e le rappresentazioni sociali [Mestitz 1989] ci sembra vada in questa direzione.

Le potenzialità metaforiche del concetto restano comunque intatte: il clima sembra cioè essere capace di cogliere e tenere in conto, pur nelle difficoltà metodologiche spesso denunciate, dell'altra faccia delle organizzazioni cioè degli elementi soft del sistema organizzativo ed è quindi diffusa la convinzione che il clima sia qualcosa di pregnante la vita degli individui nelle organizzazioni sia in relazione ad altri aspetti psicologici come la soddisfazione al lavoro che ad elementi sociologici come i ruoli o più propriamente <<tecnici>> come la performance lavorativa [Tancredi 1991].

Sembra quasi che il concetto non riesca a dimostrare la propria portata se non relativizzato in un modello più generale sul comportamento organizzativo che prenda in considerazione diversi livelli o piani teorici di analisi.

Crediamo che i casi siano due: o effettivamente il concetto non è utilizzabile ed è preferibile abbandonarlo a vantaggio di costrutti che si rivelino più efficaci, oppure, e noi siamo di questo avviso, il concetto pone un problema, <<pensare il soggetto e la sua soggettività>>, la soluzione del quale non può essere, come auspicato dagli autori americani, un modello <<rigido>> buono per tutte le situazioni organizzative.

Vogliamo allora tentare di dare alcuni elementi di analisi e di discussione per una prima connotazione di questo modello.

In primo luogo rispetto alla questione del livello di analisi, individuale vs. organizzativo, che anima le ricerche sui climi ci sembra che gli autori italiani abbiamo sottolineato meglio di altri l'importanza di compiere una analisi a tre livelli: individuale, sociale e collettivo ai quali corrispondono tre temporalità, passato, presente e futuro [Spaltro 1977; DeVito Piscicelli 1984].

In secondo luogo ad un livello di analisi culturale (Fig.2) ogni descrizione del clima compiuta dagli individui è in qualche modo culturale: si serve cioè del linguaggio, delle verbalizzazioni, delle storie, dei miti che ogni gruppo ed ogni organizzazione come <<ambito di produzione culturale>> genera in maniera distintiva [Louis 1988; Ashforth 1985; Moran & Volkwein 1992]. Poole e McPhee [1983] hanno indicato questo elemento sostenendo che il clima è una variabile di tipo <<nominale>> piuttosto che <<continua>>. Inoltre è stato giustamente affermato che la cultura organizzativa permette di relativizzare il costrutto clima psico-organizzativo che è un analizzatore di processi erroneamente "presentato con una validità universale a prescindere dalle differenze culturali" [Cartoccio & Varchetta 1985; 44].

Ma ciò significa nondimeno relativizzare il costrutto <<cultura organizzativa>>, acriticamente indicato come una nuova pietra filosofale del management [Willmott 1993], compiendone una lettura anche psicologica, attenta cioè agli aspetti motivazionali e psico-sociali e capace di focalizzare quel livello inconscio legato all'uso difensivo che gli individui possono fare collettivamente della cultura organizzativa [Cascioli & Cascioli 1991; Schein 1990].

Ad un livello più propriamente sociologico riteniamo assolutamente insoddisfacente l'uso fatto negli studi dei climi di variabili legate alla struttura organizzativa come determinanti del clima o come criteri di aggregazione dei dati individuali del clima (clima psicologico): unità formali, divisioni, dipartimenti, sottosistemi reificano la struttura aderendo ad un'idea razionalistica dell'organizzazione ed eliminando così ogni possibilità di immaginare dialogicamente le vicende umane.

Fig.2 - Un'ipotesi di analisi climatica

I suggerimenti a tal proposito ci vengono da almeno due costrutti, non nuovi, ma spesso mal compresi a detta degli stessi autori. Orton e Weick [1990; 1976] sostengono che il concetto di <<sistema a legame debole>> permette di compiere una interpretazione dialettica di un'organizzazione. A patto che si evitino metodologie di ricerca che inducano ad analizzare concetti di tipo dialettico con variabili di tipo unidimensionale ed impiegando in alternativa lo studio dei casi, etnografie, l'osservazione sistematica. Ciò significa vedere tali sistemi come una arena dove accadono in continuazione processi complessi ignorando così la presenza della connessione forte all'interno delle organizzazioni. Solo così "il concetto di sistema a legame debole può portare i ricercatori a studiare le strutture come qualcosa che le organizzazioni `fanno' invece che qualcosa che le organizzazioni `hanno'" [Orton & Weick 1990; 47].

Dall'altro lato, ma a nostro avviso compatibilmente con l'immagine dei legami deboli, l'analisi strategica fornisce una ulteriore chiave di lettura dialettica (analisi strategica vs. sistemica) dei vincoli e delle opportunità che si aprono nel sistema e che l'attore coglie per la sua azione. Un <<sistema d'azione concreto>> non è un sistema asservito ma piuttosto "un insieme umano strutturato che coordina le azioni dei suoi partecipanti con meccanismi di gioco relativamente stabili e che conserva la sua struttura cioè la stabilità dei suoi giochi e i rapporti fra loro con meccanismi di regolazione che costituiscono altri giochi" [Crozier & Friedberg 1978; 198].

In conclusione, sulla base di questi elementi, intendiamo proporre una definizione del clima psico-organizzativo secondo la quale esso è la rappresentazione collettiva della qualità relazionale di ogni <<sistema d'azione concreto>>. Inferibile dalle <<descrizioni>> che i soggetti compiono in virtù della propria identità di gruppo e organizzativa facendo riferimento alla produzione culturale <<distintiva>> (linguaggio, riti, storie, miti) nonché da valori e norme;. Prodotta e informata dai "giochi" ai quali gli attori partecipano implementando le proprie strategie volte ad impiegare ai fini dell'azione le opportunità offerte da condizioni di connessione debole. Ma nondimeno necessaria per interpretare questi "giochi" ed elaborare le strategie <<razionali>> acquisendo una valenza comportamentale.

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