Paola Di Natale
La valenza conoscitiva del
fantastico
1. Il fantastico e l'unidualità del pensiero
"C'era e non c'era una volta": André Brink, nel Prologo del
romanzo La prima vita di Adamastor, apre la narrazione -
presentando "le clausole del suo contratto con il lettore" - con il riferimento
a questa formula "trovata in un libro, finito chissà dove, sulla dinamica dei
modelli narrativi" (Brink, 1988, pp. 3, 5) (1). Si tratta di una formula che può
tornare molto utile per definire le caratteristiche portanti e le modalità di
tensione interna non solo dei testi narrativi in genere, che, in quanto tali,
presuppongono a monte un procedimento di fictio, di elaborazione
manipolante del reale e si collocano, per questo, sempre nella dimensione
dell'immaginario (2), ma soprattutto di quei testi che rientrano nella categoria
- pur vaga e difficilmente circoscrivibile (3) - del "fantastico". Approfondire
il significato di questa formula può aiutare a determinare un criterio,
orientativo, per la delimitazione e la classificazione.
"C'era": affermazione
di esistenza di una vicenda o di un evento che si pretende accaduto, anche se
sovverte l'ordine e i parametri accettati di realtà, e che viene presentato al
di fuori di una precisa collocazione spazio-temporale, quindi in una prospettiva
volutamente sfumata e straniante; e, contemporaneamente, quasi paradossalmente,
"non c'era": negazione dell'evento nella prospettiva della logica e insieme
postulazione di un patto narrativo, con cui, avvertendo il lettore del carattere
immaginario della narrazione, lo si invita a prestarvi comunque fede all'atto
della fruizione del racconto (4). Un gioco di specchi, che apre alla percezione
del lettore la categoria del possibile, allargandone le prospettive di approccio
e di comprensione; un doppio e perturbante velario frapposto tra verosimile ed
inverosimile, reale ed irreale, normalità e trasgressione, che tende ad
annullare le opposizioni logiche, a superare le dinamiche di interpretazione
puramente lineare, a favorire l'ingresso in una prospettiva "altra" senza
traumi.
Se, come afferma Segre, "il narratore è... un bugiardo autorizzato,
per ciò che attiene all'opposizione vero/falso" (Segre, 1979, p. 213), ciò si
verifica in particolare per lo scrittore "fantastico", che si arroga per
definizione, a priori, il diritto all'instaurazione di un mondo in cui le
coordinate considerate "normali" sono annullate e sostituite da altre, secondo
principi e paradigmi che è lui stesso a definire. In questo vortice di
inesistenza, di non-essere, che diventa per un momento il contrario di sé, il
lettore è invitato ad immergersi: gli si chiede "una presa di distanza, una
levitazione, l'accettazione di un'altra logica che porta su altri oggetti e
altri nessi da quelli dell'esperienza quotidiana (o dalle convenzioni letterarie
dominanti)" (Calvino, 1970, p. 215).
Da questo punto di vista, tratto
specifico e costitutivo del genere fantastico - se di genere si può parlare,
dati l'enorme sviluppo e la differenziazione nel tempo degli esiti, per cui
alcuni studiosi tendono a parlarne piuttosto come di un "modo narrativo"
(Ceserani, 1983) - sembra essere l' infrazione e la "trasgressione" di un
limite: come afferma Rosalba Campra, "la trasgressione appare... come l'isotopia
che, attraversando i vari livelli del testo, permette la manifestazione del
fantastico" (Campra, 1981, p. 226). Il concetto di trasgressione (5) apre
convincenti prospettive soprattutto in relazione all'analisi della valenza e del
potere conoscitivo del fantastico. Prendiamo in considerazione il livello delle
tematiche: la Campra, proponendo una sistematizzazione e classificazione dei
temi fantastici secondo categorie oppositive (concreto/astratto,
animato/inanimato, io/altro, presente/passato/ futuro, qui/là), sottolinea che,
a questo livello, "la natura del fantastico... consiste nel proporre, in qualche
modo, uno scandalo razionale, in quanto non c'è sostituzione di un ordine con un
altro, ma sovrapposizione. Da qui nasce la connotazione di pericolosità, la
funzione di annientamento - o incrinamento, almeno - delle certezze del lettore"
(Campra, 1981, p. 203) (6). Scandalo razionale, quindi, nell'esperienza del
limite, nel varco di una frontiera, nell'irrompere di un elemento
destabilizzante (7).
Ma forse c'è qualcosa di più: proprio mentre
varca ed infrange il limite - tra naturale e sopra-naturale, tra tempo e
spazio reali e tempo e spazio immaginati -, mentre viene condotto
in un regno in cui non valgono più le normali categorie di identità o di
rapporto causa-effetto, il lettore (ed il narratore insieme con lui) si trova
contemporaneamente al di qua del limite, in una sospensione liminare: i
territori del fantastico restano così definiti da un "punto", ideale frontiera
di passaggio, luogo non misurabile che presuppone di continuo la coesistenza
degli opposti, l'essere e il non essere, la coscienza e la perdita di coscienza,
la coerenza e l'incoerenza, l'indicazione e l'evocazione, la realtà e la
metafora.
In tal senso soprattutto, il fantastico assume una funzione non già
puramente evasiva, ma costruttiva sul piano gnoseologico: investe i dogmi,
scardina i limiti delle certezze, spiazza le attese del lettore, prospetta la
possibilità di nuovi paradigmi ed interpretazioni del reale al di là di quelli
riconosciuti dalla logica comune, insinua la componente del dubbio, travolge
l'assuefazione a dare per certi i dati acquisiti, mette in forse i meccanismi
stessi del conoscere. E tutto ciò, va sottolineato, per via contemporaneamente
razionale ed analogica. Annota Lugnani: "Il racconto fantastico è anche,
sicuramente e primariamente, una sfida e una avventura conoscitiva, ma bisogna
intendersi bene. In ballo non sono tanto la relazione tra noto e ignoto e i
possibili tragitti dall'ignoranza alla sapienza attraverso le lezioni, gli
exempla veritieri e le rivelazioni di maestri dotti e illuminati, quanto il
concetto e l'esperienza stessa del conoscere, che è dubitare molto più che
sapere ed è perplessità molto più che certezza". L'esperienza fantastica si
connota quindi come "uno stato di insicurezza e di vertigine intellettuale"
(Lugnani, 1983b, p. 287). Ma se Lugnani insiste, in un altro saggio, sul "blocco
gnoseologico", sulla paralisi del giudizio che sarebbe connessa al fantastico
(Lugnani, 1983a, pp. 72-73) - un aspetto, questo, sul quale torneremo più avanti
-, si può anche radicalizzare il discorso: dinanzi ad un testo caratterizzato
dalla cifra del "perturbante", è l'intelligenza che ragiona su se stessa e,
ripiegandosi, si pone il dilemma della sua esistenza medesima, della veridicità
e accettabilità dei suoi intrinseci meccanismi di funzionamento, dell'esattezza
o della fallacia della percezione, grazie al corto-circuito provocato
dall'immaginario. Non tanto "stato assoluto di stallo" dovuto ad un insuperabile
inceppamento del paradigma (Lugnani, 1983a, p. 72) quanto tensione dinamica
verso un oltrepassamento possibile.
Dinanzi al lettore, collocato
simultaneamente fuori e dentro lo specchio di Alice, in bilico tra due opposti
livelli di realtà, indotto a chiedersi quale sia la verità e quale l'apparenza,
quale la norma e quale l'infrazione, si spalancano campi sterminati: le praterie
del possibile illuminate da due soli, in una nuova rivoluzione copernicana. E'
l'intrecciarsi delle prospettive che costituisce così la specifica valenza del
fantastico, in una sintesi biunivoca: da un lato, la prospettiva
logico-razionale che consente, anzitutto, di fondare il patto (cioè di
formulare, da parte dello scrittore, e di decodificare, da parte del lettore, il
messaggio) e al cui interno ci si confronta con le ragioni dell'inverosimile;
dall'altro, una prospettiva "diversa", che non si presenta solo come il riflesso
speculare e rovesciato della prima - il mondo fantastico come "contro-senso del
mondo quotidiano" (Maldiney, 1988, p. 211) - ma anche come una sua necessaria
integrazione o al limite come un'alternativa intuibile. Essere e non-essere,
essere "certamente" ed essere "probabilmente", bianco e nero che di continuo si
intersecano, infiltrandosi l'uno nell'altro, rivelando "doppi" inquietanti: e il
lettore nella zona d'ombra, la "zona perduta", che consente di raccordare, con
sguardo obliquo, logos e mythos.
Puntando quindi su
quella che Edgar Morin ha definito l' "unidualità" del pensiero - l'intreccio
tra due modi, due forme, opposte e complementari, di pensiero-azione: pensiero
empirico, logico, razionale da un lato e dall'altro pensiero simbolico,
mitologico, magico (Morin, 1986) (8) -, il fantastico schiude le porte
dell'interpretazione meta-logica del reale; e ciò attraverso un consapevole e
sistematico ribaltamento e rimescolamento di codici e paradigmi, e, nello stesso
tempo, mediante il ricorso ad indici e meccanismi costanti, individuabili al di
là delle differenze di intreccio e di tematiche. Partiamo, per esemplificare, da
quello che gli studiosi riconoscono in genere come uno degli schemi di base del
racconto fantastico "classico": una prima parte è costituita dalla narrazione di
un evento per così dire quotidiano, collocato sul piano della "normalità", in
rapporto alla quale viene introdotto lo scarto, l'elemento incredibile,
l'episodio fuori dalla norma; poi la sezione centrale, con l'evento
inesplicabile in genere sottolineato da un cambiamento di segno, che Lugnani
chiama "effetto soglia" (1983b, pp. 220-221); infine la conclusione, per lo più
caratterizzata da un finale "ad effetto". Tre macrosequenze, quindi, che a prima
vista appaiono connotate da differenti meccanismi. Ma attenzione: anche quando
sulla scena irrompe l'elemento di infrazione del limite, l'oltre-reale,
l'(apparentemente) impossibile, esso si presenta con dei caratteri di
"riconoscibilità" immediata per il lettore: vale a dire che è costruito mediante
elementi che appartengono alla normale esperienza fenomenologica, oltre che
logica, anche se - e questo è un punto essenziale - diversamente combinati,
stravolti e deformati, oppure trasferiti sul piano della negazione (già Caillois
- 1965, p. 117 - affermava che l'universo del fantastico deve essere
"perfettamente riconoscibile" perché l'impossibile che "ne costituisce l'essenza
sopraggiunge all'improvviso in un mondo da cui è bandito per definizione").
Viceversa, il piano della (presunta) normalità viene caricato di cifre allusive,
segnali premonitori dispersi ad arte nel tessuto narrativo, riferimenti
impliciti ad un "diverso" sempre incombente nel reale, che anzi finisce per
costituirne la struttura profonda, minacciosa ed incomprensibile. La visione si
sdoppia, di più, si moltiplica, si sfaccetta secondo percorsi multipli, nella
modificazione continua del piano prospettico: l'invisibile assume sostanza, il
visibile perde gradualmente i contorni di definibilità, i piani si intrecciano
per velari incrociati in dissolvenza, la rete delle intuizioni si coagula per
sciogliersi subito dopo. E' vero anche - e soprattutto - per il fantastico
quello che ha affermato Calvino parlando del rapporto tra filosofia e
letteratura: "Di momento in momento ci aspettiamo che la filigrana segreta
dell'universo stia per apparire in trasparenza: aspettativa sempre delusa, com'è
giusto" (Calvino, 1967, p. 156).
La riconoscibilità dell'inverosimile e
l'irriconoscibilità del verosimile: il "mostruoso" - l' impossibile, l'insolito,
l'irreale - è costruito a partire da elementi familiari e consueti, diversamente
combinati o evocati per negazione, sì da sortire un effetto perturbante, ma
contemporaneamente esso proietta un'ombra destabilizzante sul familiare e sul
consueto, al punto da renderlo irriconoscibile ed estraneo. Questa può definirsi
la cifra portante nella simulazione dell'irreale: ma quale ne è il
fondamento?
La scrittura simula il meraviglioso, scivola oltre il limite,
"moltiplica gli spessori di una realtà inesauribile di forme e di significati",
per utilizzare un'espressione di Calvino (1978, p. 323) ma sempre a partire da
un nucleo di tangibilità e di concretezza: altrimenti sfuggirebbero le
coordinate stesse dell'invenzione e della comprensione e non si stabilirebbero
le corrispondenze - razionali ed analogiche - tra universo della scrittura, gli
altri universi dell'esperienza, l'universo del possibile, l'universo della
conoscenza. A questo riguardo si può dire, più in generale, che la scrittura
fantastica è, come le altre forme di scrittura, un'interpretazione della realtà:
anche nel dare corpo all'oltre, nel trasformare in immagine quello che è
soltanto intuìto o creato dai meccanismi combinatori dell'intelligenza, si
agisce necessariamente a partire dal nostro modo di vedere e di interpretare: di
conseguenza, il prodotto finale dell'interpretazione tradisce, almeno
indirettamente, i materiali da cui è originato e con cui è stato realizzato. Ciò
non significa che i dati di partenza tratti dall'esperienza siano per così dire
semplicemente "a disposizione" di un'arte combinatoria della mente: tale
combinazione è appunto sempre interpretazione e richiede perciò quella che
Maturana e Varela, analizzando il processo conoscitivo, chiamano "chiusura
informazionale" (Maturana-Varela, 1980): i dati dell'esperienza, in questa
prospettiva, non determinano l'atto interpretativo ma lo innescano soltanto. Il
prodotto dell'interpretazione infatti non è causato dalla logica dell'oggetto
della rappresentazione ma da quella dell'interprete, il quale lo elabora a
partire dalla propria interna storia interpretativa e dalla riflessione di tale
storia su se stessa (chiusura informazionale). Per questo motivo, ogni atto
interpretativo, mentre rimescola e ricombina materiali preesistenti, nello
stesso tempo produce novità: è cioè invenzione. Si sovrappongono qui delirio e
conoscenza: ciò che noi conosciamo è sempre la proiezione sul reale dei nostri
deliri e, di converso, le nostre immaginazioni emergono intrise di concretezza
dal mare dell'esperienza.
La rappresentazione del fantastico e
dell'incredibile si basa, come dicevamo, in prima istanza su dati ordinari e
verosimili: ma intorno ad essi, a partire da essi si articola e si dipana, in
modo concentrico e non sequenziale, un reticolo di immagini, fatti, avvenimenti
in cui le normali distinzioni qui/là, io/altro, concreto/astratto,
animato/inanimato, sono, più che annullate, superate in un circuito che non è
illogico, ma teso a superare il puro razionalismo difensivo, secondo una logica
differente. Per cominciare ad esemplificare, si può attingere al vastissimo
materiale della zoologia fantastica. Sirene e sfingi, ippogrifi ed unicorni non
esistono se non nel giardino zoologico delle mitologie: ma la condizione
necessaria perchè abbiano cittadinanza nel pensiero è che siano composti di
elementi e forme riconoscibili. In linea generale, la costruzione
di animali fantastici è regolata da una molteplicità di procedimenti: si parte
da esseri o oggetti reali per modificarli con la sottrazione di elementi - ad
esempio, i nisnas o nesnas che compaiono nella
Tentazione di Flaubert, che "hanno solamente un occhio, una
guancia, una mano, una gamba, mezzo corpo e mezzo cuore" (Borges-Guerrero, 1957,
p. 114); con l'aggiunta o la moltiplicazione di elementi - esseri con tre teste,
come il Cerbero della mitologia, con quattro occhi, come i cani di Yama, dio
bramanico della morte, con cento braccia come Briareo e così via -; per
ingrandimento di dimensioni - dal "roc" delle Mille e una notte,
uccello gigantesco, immagine dilatata dell' aquila o dell'avvoltoio, a Moby
Dick-; per spostamento o capovolgimento di elementi rispetto all' ordine normale
- esseri con la testa sul dorso o le braccia al posto delle gambe -; per abnorme
dilatazione di un elemento singolo - emblematico il caso della mano mostruosa e
semi-materializzata che con la sua presenza minacciosa terrorizza gli abitanti
di una casa nel racconto The Gateway of the monster (1911, trad.
it. L'anello ) di William Hope Hodgson -; per combinazione di
elementi eterogenei, cioè per ibridazione. Questo è il procedimento più comune,
che sovente si interseca con gli altri sopra citati: i "mostri" nascono
fondamentalmente per dissociazione e combinazione di elementi di esseri reali,
sono "insiemi compositi le cui parti eterogenee sono tratte da corpi
appartenenti a regni diversi, animale, vegetale, minerale, umano" (Maldiney,
1988, p. 205).
Anche quando volutamente il narratore insiste sul carattere di
irrealtà dell'essere fantastico, mantenendolo nello spazio dell'ambiguità e
dell'evanescenza, non può fare a meno di ricorrere a forme che si possono
pensare, a particolari che in qualche modo ricadono nell'ambito dell'esperienza
comune. Il meccanismo, apparentemente semplice, soprattutto quando si tratta di
un procedimento di ibridazione, nasconde però, come accennavamo, sovrapposizioni
di senso. Esempio emblematico può essere l'Odradek di un famoso
racconto di Kafka, Die Sorge des Hausvaters (1920, trad.it.
Il cruccio del padre di famiglia ). Si tratta di un testo complesso
e aperto a molteplici interpretazioni: non ci soffermiamo, in questa sede, sulla
possibilità che Kafka alluda qui alla sua esperienza di vita e che quindi esista
un'intima identità tra l'Odradek e l'autore, che in questa figura proietterebbe
aspetti del proprio mondo interiore e che, a livello profondo, e dando
l'impressione di parlare di tutt'altro, discuterebbe della sua scelta di essere
scrittore (cfr. Baioni,1976, p. 25 e passim ). Le diverse letture,
non solo di tipo biografico, ma anche sociologico (l'Odradek come figura
dell'uomo-massa), storico, psicanalitico, se illuminano la zona delle
motivazioni plausibili del testo kafkiano, ne rimangono tuttavia per così dire
"all'esterno". Non a caso, Borges, con un gesto all'apparenza ingenuo, inserisce
l'Odradek nel suo Manuale di zoologia fantastica (Borges-Guerrero,
1957, pp. 115-116), indicando in questo modo una direzione interpretativa che
riteniamo possa essere scrupolosamente percorsa. Quello che ci preme è
analizzare i procedimenti ed i meccanismi con cui in sede letteraria prendono
corpo e vengono rappresentati gli esseri "fantastici "e soprattutto mostrare la
densità di significazioni che a tutti i livelli fermentano in un testo che non
fa appello a convenzioni realistiche.
Odradek inizialmente viene descritto
come un essere che "sembra.. una specie di rocchetto da refe piatto, a forma di
stella, e infatti par rivestito di filo: del resto potrebbero essere soltanto
frammenti di filo, sfilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati fra di
loro e di qualità e colore più diversi.... dal centro della stella sporge di
traverso una bacchettina, a questa bacchettina se ne aggiunge poi ad angolo
retto un'altra. Per mezzo di quest'ultima bacchetta da una parte, e di uno dei
raggi della stella dall'altra, il tutto riesce a stare in piedi, come su due
gambe" (Kafka, 1920, pp. 65-67). La precisione definitoria, l'ansia quasi
scientifica con cui vengono accumulati i particolari, per dare un'impressione di
verosimiglianza (tra similitudini con oggetti concreti - il rocchetto, la
stella, la bacchetta - e correzioni della rappresentazione) è un'illusione
prospettica: la descrizione rimbalza su se stessa, il riferimento sotteso è
nient'altro che il vuoto. Proprio mentre il lettore comincia a credere di
potersi costruire un'immagine mentale dell' animale - ammesso che di animale si
tratti -, ecco che intervengono indizi contraddittori: la geometria dell'insieme
non tiene, i segnali si moltiplicano e contemporaneamente non rimandano a nulla
di raffigurabile. Nella struttura della percezione si è insinuato il virus del
perturbante che fa deragliare le attese. Ma il gioco continua, in un ossessivo
intersecarsi di definizioni incredibili e dichiarazioni di attendibilità: il
narratore confessa che "non si può dire nulla di più preciso, perchè l'Odradek è
mobilissimo e non si lascia prendere". Tante volte, incontrandolo sulle scale,
"viene voglia di rivolgergli la parola" (ma lo si fa? Parrebbe di sì, a
giudicare dallo scambio di battute che viene riportato, ma i segnali linguistici
insinuano il dubbio che si tratti di un' allucinazione); "naturalmente" (e
l'avverbio allude ad un'esperienza universale e consueta, ad una situazione
paradossalmente ovvia) non gli si fanno domande difficili, anzi lo si tratta
come un bambino: "e la sua minuscola consistenza ci spinge da sola a farlo"
annota il narratore, aggiungendo un altro particolare possibile all'impossibile
descrizione. L'Odradek parla con parole umane, rivela il suo nome e ride: ma -
di nuovo la rettifica che confonde e sconcerta - "è una risata come la può
emettere solo un essere privo di polmoni. E' un suono simile al frusciare di
foglie cadute" (ivi, p. 67).
E' sufficiente una rapida campionatura del
materiale linguistico per individuare la struttura dei procedimenti simultanei
di costruzione e de-costruzione della rappresentazione: da un lato, la frequenza
di verbi come "sembra" e "appare", (sieht, scheint,
erscheint ) in serie con locuzioni del tipo "si sarebbe tentati di
credere" (Man ware versucht zu glauben), "almeno non si ha alcun
indizio in questo senso" (wenigstens findet sich kein Anzeichen
dafur) ; dall'altro, l'iterazione dell'avverbio "naturalmente"
(naturlich) che rovescia l'irreale della percezione dubbiosa di sé;
infine, l'anafora incrociata di sintagmi come "a volte" (manchmal)
e "non sempre" (nicht immer) che, mentre alludono ad un evento che
si ripete, ne sfumano fino all'estremo limite la dimensione temporale. Per non
parlare della discussione, in apertura di racconto, sull'etimologia incerta
della parola "Odradek" con il commento successivo, che spiazza e sconcerta per
la duplicità del riferimento: "Naturalmente nessuno si darebbe la pena di
studiare la questione, se non esistesse davvero un essere che si chiama Odradek"
(ivi, p.64). Indicazione ed evocazione si compensano e compenetrano in uno
scambio che apre le porte del visionario: nel duplice senso, richiamato da
Todorov, per cui la visionarietà è intesa sia come grado superiore del vedere
sia come falsa visione e negazione del vedere stesso (Todorov, 1970, p.
127).
Esempi di questo tipo, sia pure non costruiti con la magistrale
sapienza di Kafka, si rintracciano in moltissimi testi fantastici: un cenno
merita almeno, in questa sede, il racconto Il colombre di Dino
Buzzati (1961). Nella vita di Stefano Roi, il protagonista, che manifesta fin
dall'adolescenza una forte vocazione alla vita marinara, compare d'improvviso un
mostro, dalla cui incombente presenza egli sarà perseguitato per tutta la vita:
salvo a scoprire, in punto di morte, che il terribile animale lo ha inseguito
per incarico del re del mare, allo scopo di consegnargli una perla magica,
capace di dare, a chi la possegga, "fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo".
Certo, la vicenda è chiaramente allusiva e simbolica - lo stesso Buzzati
definisce il racconto "un'allegoria del solito tema dell'uomo che si è
completamente sbagliato nella vita" (Panafieu, 1973, p.154) - e il colombre è
una personificazione trasparente; la rappresentazione cioè rimanda ad un
significato che attiene alla psicologia del profondo e che non è difficile
rinvenire sotto la piega fiabesca. La presenza di un simbolismo evidente o
addirittura di un sovrasenso allegorico, secondo alcuni, a cominciare da Todorov
(1970, p. 47) (9), inficia o limita considerevolmente la natura fantastica di un
testo. Ma non è questa la sede per approfondire la questione o per soffermarsi
sullo specifico del fantastico buzzatiano; ci preme soltanto sottolineare i
procedimenti con cui la cifra dell'oltre-reale e dell'inverosimile si presenta
sulla scena e gli elementi che ne consentono un'interpretazione "doppia" cioè
non lineare o monodimensionale, favorendo l'apertura
conoscitiva.
Inizialmente, agli occhi del ragazzo al suo primo giorno di
mare, il mostro appare come "una cosa che spuntava a intermittenza in
superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della
nave" (Buzzati, 1961, p.650). E' il padre a spiegargli che si tratta di un
colombre, "il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo"
(ivi, p.651); esso, secondo la convinzione diffusa - e che Stefano scoprirà alla
fine non veritiera-, sceglie per motivi incomprensibili la sua vittima e la
insegue fino a che non riesce a divorarla. Un essere in cui si fondono tratti
'riconoscibili' con caratteristiche fantastiche: "è uno squalo tremendo e
misterioso, più astuto dell'uomo", con "muso da bisonte", "bocca che
continuamente si apre e si chiude", "denti terribili" (ivi): nella descrizione,
come si vede, sono accortamente fusi elementi che consentono al lettore di
costruirsi un'immagine mentale precisa del mostro marino, ricondotto ad uno
squalo, ed elementi che ne sfumano la connotazione realistica. Il procedimento
di de-costruzione arriva al limite quando il padre rivela a Stefano che "nessuno
riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue"
(ivi). Il pesce "sinistro" non ha dunque consistenza fuori della "visionarietà"
concessa alle vittime predestinate: visionarietà che si presenta insieme come
una dannazione ed un privilegio. Ma il visionario, cui è attribuita la capacità
di superare il solido muro della consistenza, non è in grado di decifrare i
segni ed i messaggi che provengono dall'oltre-reale: vede, percepisce, ma non
capisce perché è offuscato dalle convinzioni diffuse, dalle superstizioni (in
questo caso simboleggiate dalla leggenda che i marinai hanno costruito intorno
al colombre): una visionarietà mancata, dunque, per difetto di coraggio e di
autonomia.
Le attese consapevoli del protagonista, e con lui del lettore,
risultano spiazzate: sulla linea del meraviglioso le polarità si invertono, i
significati slittano a seconda dell'angolo visuale, i segni apparentemente
univoci consentono un'interpretazione ambivalente; nell'opaca densità del reale
si aprono degli squarci che offrono una via d'uscita dalla limitatezza di ogni
rappresentazione e di ogni giudizio. Qui veramente, e ben al di là del
sovrasenso allegorico e dell'intonazione didascalica, sta la valenza conoscitiva
di un testo come questo: nel suggerire inquietanti possibilità di
transcodificazione dei dati esperienziali secondo prospettive che si aprono
l'una dentro l'altra e non l'una in successione
all'altra; nel configurare la necessità di ricostruire una leggibilità
del mondo secondo un diagramma non lineare; nel chiudere sia pur
provvisoriamente il circuito tra pensiero semantico, che distingue logicamente,
e pensiero simbolico, che congiunge ed unifica, tra razionalità ed analogia; nel
ricomporre la polarità di quello che Edgar Morin ha definito "doppio pensiero"
(Morin, 1986, pp. 172 sgg.).
La rappresentazione letteraria di mostri ed
esseri fantastici - considerata qui a titolo esemplificativo come indice dei
procedimenti e dei meccanismi tipici del genere - si presenta dunque in prima
istanza come costruita sulla dialettica interna, significativa sul piano
gnoseologico, di dati reali, dati verosimili, dati di immaginazione e di
intuizione, procedimenti di interpretazione. La commistione di elementi,
nell'oscillazione tra presunzione di verità e presunzione di apparenza, varia
ovviamente, a seconda dei testi e degli autori, da un massimo ad un minimo di
riconoscibilità. A titolo di suggestione, e per approfondire le linee del
discorso, ci limitiamo a prendere in considerazione alcuni casi tipici
nell'ambito della letteratura fantastica del moderno. Cominciamo con la orribile
mitologia cosmica di Lovecraft. Ad esempio, i pesci-rana de The Shadow
Over Innsmouth (La maschera di Innsmouth) : " Erano di
colore verdastro e avevano il ventre bianco. La loro pelle sembrava lucente e
liscia, ma la loro schiena era coperta di squame. Il corpo vagamente antropoide
terminava con una testa di pesce dagli occhi sporgenti, sempre aperti. Sui lati
del collo, sotto le orecchie, si aprivano delle branchie palpitanti, e le loro
lunghe zampe erano palmate. Avanzavano a salti irregolari, ora su due zampe ora
su quattro" (Lovecraft, 1931, p.238). Qui, a differenza di quanto accade in
molti altri racconti di Lovecraft, in cui l'essere 'alieno' viene evocato per
negazione o grazie al potere allusivo di determinati particolari - il fetore - o
di parole come "cosa", "gelatina", "melma", l'ambiguità è quasi nulla.
All'allusività si sostituisce la forza straniante della precisione, il lettore
non è chiamato a fare supposizioni e a compiere inferenze sulla figura degli
esseri mostruosi, giacché nessun particolare è taciuto: le creature teratomorfe
di questo obbrobbrioso panteon, che costituiscono la personificazione
dell'abominio, degli indicibili abissi di orrore di un universo concepito come
sede di forze cieche, sono visualizzate e descritte col massimo del particolare;
siamo faccia a faccia col terrore, che si fisicizza e si materializza quanto più
sembra indefinito. La figurazione "gotica" del mostro - divinità rovesciata,
malvagia per definizione, eterna perchè fatta "d'una materia così corrotta e
degenerata che ogni degenerazione ulteriore è impossibile" (Fruttero-Lucentini,
1994, p. VIII) - è costruita per accumulazione parossistica di tratti, per
ridondanza.
Per converso, si può dare il procedimento opposto, in cui la
percezione e la descrizione dell'orrido e del mostruoso avviene per negazione ed
annullamento: negazione ed annullamento di caratteristiche, che costituisce un
caso particolare nella categoria della riconoscibilità. Esempio emblematico,
Le Horlà di Guy de Maupassant (1887). L'essere mostruoso che
minaccia il protagonista-narratore, che lo insegue e lo ossessiona, fino a
spingerlo ad incendiare la propria casa per liberarsi dal "nemico", è
invisibile, non localizzabile e non nominabile: un essere "che non può definirsi
se non come la non-identità, ad un tempo presente e assente, dentro e fuori,
'hors-là' (fuori di là)" (Milner, 1982, p. 120). Il nome che gli dà il narratore
" deriva dall'impossibilità di nominarlo nel linguaggio degli uomini, di
situarlo (fuori o là) nello spazio che crea le distanze e conferma le identità"
(ivi, p. 125). Il mostro non si rivela alla percezione diretta, si sottrae a
qualsiasi possibilità di essere visto ma è presente: c'è e non c'è
simultaneamente, contro ogni regola di logica, anzi è un vuoto, "un niente
ubiquo" (ivi, p. 120) che riesce a manifestarsi proprio per la sua cifra
negativa: è, insomma, un mostro potenziale, la mostruosità quasi in essenza ed
in astratto. Come è stato rilevato di frequente, con ogni probabilità si ha qui
a che fare con uno straordinario caso di patologia mentale, per il quale
Maupassant utilizzò anche la propria esperienza di malato: tuttavia, al di là
della matrice autobiografica, al di là anche dell'ambiguità che caratterizza in
modo magistrale il racconto (attraverso l'alternanza tra elementi finalizzati a
presentare il narratore come inattendibile ed elementi atti a provare in modo
indiscutibile l'esistenza dell'essere mostruoso), il testo è sostenuto da una
lucida premessa concettuale: in discussione è l'assenza di fondamento della
razionalità e del modo con cui ci si pone in rapporto con il reale. In maniera
esplicita e con affermazioni disseminate ad arte lungo il racconto, si dibatte
della limitatezza della percezione, che disvela solo parte della realtà, si
insinua il dubbio circa la facoltà dell'uomo di demarcare con sicurezza il
confine tra ciò che ha spessore e ciò che non ne ha, tra ciò che ha un contenuto
oggettivo e ciò che ha solo un contenuto immaginativo: l'esperienza sensibile è
incompleta, imperfetta e fallace, alle sicurezze positive e scientifiche
subentra l'orrore dell'impossibilità di tener fede agli schemi di riferimento
consueti, che si credevano oggettivi ed immutabili. E ciò a partire dai dati
stessi delle vicende del quotidiano:
" Seguitavo a pensare: il mio occhio
è così debole ed imperfetto che non riesce nemmeno a distinguere i corpi duri se
sono trasparenti come il vetro! Basta che un vetro limpido, senza l'amalgama che
lo rende specchio, si trovi davanti a me: non riuscirò a vederlo e mi ci getterò
contro come l'uccello penetrato in una camera va a battere contro i vetri della
finestra. Mille e mille altre cose l' ingannano, lo disviano. Non c'è da
stupirsi che non riesca a scorgere un corpo nuovo che possa essere traversato
dalla luce" (Maupassant, 1887, pp. 461-462).
Al vuoto che penetra in ogni
dove e si insinua come una sottile minaccia nel pieno tranquillizzante della
casa e della stessa dimora interiore, si attribuiscono tuttavia,
paradossalmente, delle azioni: il mostro beve, ma non sangue - il che lo
collocherebbe nella categoria dei vampiri e ne fornirebbe quanto meno
un'immagine già in qualche modo codificata - bensì acqua o latte. Non solo, può
toccare le cose, prenderle e mutarle di posto: coglie ad esempio una rosa con
mani invisibili:
"....vidi, chiarissimamente, vicino a me, il gambo d'una
di queste rose piegarsi come se una mano invisibile l'avesse torta e poi
spezzarsi come se la medesima mano l'avesse colta. La rosa si innalzò seguendo
la curva che avrebbe descritto un braccio portandola verso una bocca, e restò
sospesa nell'aria limpida, da sé, immobile, spaventevole macchia rossa a tre
passi dai miei occhi!" (ivi, pp. 454-455).
Si tratta di un passaggio
centrale: infatti, nell'episodio viene messa in discussione non solo e non tanto
la verità della percezione, quanto la sua completezza: l'oggetto del vedere è in
questo caso l'azione, che il narratore segue nel suo compiersi senza riuscire a
coglierne la sorgente: l'effetto si dà senza la causa, il limite è varcato, il
sistema di controllo cognitivo (osservazione, valutazione, inferenza, decisione)
è destrutturato nella sua logica consuetudinaria. Il risultato è anzitutto
quello di uno spiazzamento gnoseologico ma il testo suggerisce cifre
interpretative più profonde. Dal punto di vista del narratore, e ancor più del
lettore, le azioni, concepite come indizi, generano un sistema di attese, che
conducono ad ipotesi sulla struttura corporea dell'essere: se il mostro beve,
allora avrà un organo che somiglia ad una bocca; se tocca gli oggetti, si può
supporre che sia dotato di qualcosa che somiglia ad una mano: congetture non
confermate dall'esperienza, da cui deriva tuttavia un'immagine mentale del
mostro, ma - questo è il punto - frantumata e disgregata. L'Horlà non si
costituisce come una figura unitaria e riconoscibile nella sua totalità, ma come
un insieme sconnesso di parti che si stringono attorno ad un vuoto; e alla
scomposizione dell'unità del soggetto-invasore risponde la frantumazione e
dispersione del soggetto psicologico.
La conclusione dell'episodio che stiamo
analizzando introduce un ulteriore motivo perturbante: il protagonista cerca di
afferrare la rosa che si libra, sospesa, davanti ai suoi occhi, ma le sue mani
afferrano solo aria:
" Fuori di me, mi gettai su di essa per afferrarla.
Non presi nulla: era scomparsa.... Ma si trattava davvero d'un' allucinazione?
Mi voltai per cercare lo stelo e subito lo ritrovai sul rosaio, spezzato di
fresco, fra le altre due rose attaccate al ramo" (ivi, p. 455).
Il vuoto
agisce nullificando, trascinando gli oggetti della percezione nella sua
irrealtà, cancellando le trame stesse dei segni dotati di senso. Il processo
giunge al culmine nella scena dello specchio, vero punto focale del racconto: il
protagonista avverte la presenza nemica alle spalle e, quando si volta di
scatto, con le mani tese, per affrontarla, si accorge con terrore che lo
specchio non rimanda più la sua immagine:
" C'era luce come in pieno
giorno, eppure non mi vidi, nello specchio!... Era vuoto, limpido, profondo,
pieno di luce! Ma la mia immagine non c'era! Ed io ci stavo di faccia, vedevo il
gran vetro nitido, da cima a fondo; lo fissavo con gli occhi sbarrati, e non
osavo né fare un passo né muovermi, certo che ci fosse lui, che mi sarebbe
ancora sfuggito, mentre il suo corpo impercettibile aveva assorbito la mia
immagine" (ivi, p. 463).
L'Horlà, essere privo di consistenza, divora
l'immagine riflessa nello specchio, grazie alla quale l'individuo dovrebbe
prendere possesso della propria identità: come afferma Milner (1982, p. 23) "ciò
che viene messo in causa... è il rapporto dell'uomo con la propria immagine, e
la possibilità che egli ha di riconoscervisi come soggetto indipendente ed
autonomo". Il protagonista-narratore "vede... l'assenza del proprio riflesso,
come dire che l'Horlà è lui stesso, ma lui stesso assente, cancellato dal mondo
dei vivi" (ivi, p. 126); di più, vede qualcosa che è proiezione negativa di sé.
E' una chiave di lettura importante, questa, per identificare i meccanismi con
cui la riconoscibilità si afferma quale fondamento del fantastico nella sua
valenza cognitiva: come abbiamo dimostrato, all'interno della narrazione
fantastica personaggi ed eventi si costruiscono nell'intersezione tra dati
reali, dati verosimili e dati immaginativi, con conseguenti variazioni e
slittamenti di senso. Ma da dove deriva tale riconoscibilità, non banale ma
perturbante? Proprio dalla dialettica tra coscienza di sé e coscienza di sé
negata: dialettica che in modo esemplare si ritrova ne Le
Horlà.
Gli esseri mostruosi, di cui sono popolati il mito e la
letteratura fantastica - sia pur con differenze notevolissime di significazione
e spessore tra i due ambiti - traducono dunque in maniera paradigmatica la
tensione dialettica tra partecipazione e distanziamento, tra il visibile e il
possibile, tra ciò che è considerato normale e ciò che viene percepito come
alieno; ipostatizzano, nella forma dell'ibridazione, il conflitto tra l'umano e
l'extra-umano, tra la verità, approssimativa e di continuo suscettibile di
aggiustamenti, quale si disvela all'esperienza, e
l'interpretazione, necessariamente allusiva ed ambigua. Che
incarnino il prodigioso proiettato nell'outspace, la variabile di
alterità percepita in uno spazio esterno al soggetto, oppure il mistero degli
orizzonti interiori dell'inconscio, la deformità assorbita nel soggetto, essi
manifestano in modo macroscopico la saldatura tra le dimensioni dell'esistere e
del conoscere.
Con i suoi mostri, la letteratura fantastica del moderno si
collega alla cultura antica, in cui il teras è il segno dell'enigma
e del prodigioso per eccellenza, che il sapiente è chiamato ad interpretare e a
decifrare: esso "segnala l'infrazione di un ordine, l'apertura di uno iato
nell'ordine del sapere" (Bologna,1980, p. 557): per questo, "non si dà
teratologia, nella cultura antica, che non abbia per qualche verso rapporto con
la conoscenza delle cose oscure, che non sia anzitutto scienza dell'ermeneutica"
(ivi, p. 558). E' vero che sovente, nell'arte moderna, i significati risultano
banalizzati; è vero che, come rilevano alcuni studiosi, le rappresentazioni di
esseri "anormali" - specialmente nella fantascienza- alludono soprattutto ad una
proiezione esterna di scissioni interiori, di cui è possibile controllare così
la virulenza (Jacobelli, 1970, p. 61); tuttavia, al fondo, il mostruoso continua
ad essere indicatore di un'eccedenza semantica, portatore di una significazione
che scatena il dramma ermeneutico, segno che allude metaforicamente ad una
conoscenza "altra": del reale, vero labirinto inestricabile in cui
l'inverosimile si nasconde nelle pieghe del quotidiano - rassicurante e perciò
fallace -, e di se stessi.
2. Effetti di sospensione nelle categorie conoscitive
Superando i confini dell'oggettività matematizzante, la macchina
narrativa del fantastico taglia la realtà come una lama; si spinge negli
universi brulicanti e stratificati del possibile insinuando dubbi sulle certezze
dell'evidenza e sulla correttezza dei paradigmi interpretativi; crea dei vuoti
là dove sussisteva la tranquilla compattezza dei pieni. Lucio Lugnani afferma
che "il racconto fantastico funziona in tanto in quanto il lettore implicito
viene alla fine lasciato solo, nel silenzio e nell'irresolutezza, a fissare una
irresolubilità che intacca i codici e le certezze paradigmatiche" (Lugnani,
1983a, p.71). Lo studioso arriva alla conclusione che "all'origine dell'atto di
narrazione fantastico e al fondo dell'atto di lettura fantastico c'è il blocco
gnoseologico che deriva da questa inesplicabilità" e parla perciò di "dubbio
gnoseologico assoluto" (ivi, p.72) o di "paralisi del giudizio" (Lugnani, 1983b,
p.266); noi, sulla base di una suggestione di Goggi (1983) (10), preferiamo
avanzare l'ipotesi che l'effetto sia quello di una sospensione,
veicolata dal turbamento: si sospende la fiducia negli schemi compiuti
dell'architettura razionale, che pure continuano ad agire nel profondo; si
sospende, in virtù di uno scatto in avanti della conoscenza, il consenso,
normalmente dato per scontato, alla demarcazione sì/no, vero/falso; alla fissità
dei fatti come sono o come appaiono si sovrappone il movimento vorticoso degli
eventi che potrebbero essere; la lineare disposizione dei fenomeni subisce una
significativa curvatura verso il profondo, aggrovigliandosi su se stessa a
spirale. Davanti all'inesplicabile il lettore "è indotto a dubitare della
validità e adeguatezza del paradigma di realtà come codice culturale e
assiologico e come meccanismo di conoscenza e interpretazione del mondo" e
perciò sperimenta "lo smarrimento di chi è finito in un vicolo cieco e non può
tornare sui propri passi" (Lugnani, 1983a, pp.72-73), è vero, ma al tempo stesso
lo smarrimento e il disorientamento allargano la prospettiva conoscitiva e
proiettano verso un superamento dell'impasse con l'elaborazione di nuove
categorie. Insomma, il fantastico "sospende" la fiducia non tanto nel reale
quanto nel verosimile, poiché mette in discussione non i fatti ma le categorie
con cui i fatti vengono interpretati; la sua valenza cognitiva sta proprio nel
produrre categorie nuove che interpretano gli eventi e quindi producono nuova
realtà.
Il fantastico attiva così un movimento dinamico, onde di
intermittenza che creano un nuovo sistema: superata la soglia della
verosimiglianza, lacerato il velo della possibilità, non si può che tentare -
vanamente - di ri-verificare il senso della vicenda narrata, come con un
velocissimo riavvolgersi del nastro. Poiché il procedimento indiziario non
sortisce effetto di quadratura, alla luce di "regole" codificate, si produce
l'accettazione dello scarto, che a sua volta genera un nuovo equilibrio: nello
sdoppiamento cambia l'orizzonte di attesa, si compie il circolo
dell'autoreferenzialità.
Il concetto di sospensione, in tal senso, è utile a
rimarcare la valenza positiva e costruttiva dello sconvolgimento provocato dal
fantastico all'interno dell'architettura razionale consuetudinaria. Esso non
solo lacera ma "apre" anche le vie della ragione, che non sono visibili fino a
che la sua struttura appare rigida e immobile come il cristallo; il fantastico
rompe cioè le simmetrie che costituiscono l'intelaiatura logica della
razionalità. E' evidente che l'ordine simmetrico di per sé non è modificabile,
come non è modificabile la struttura del cristallo; d'altra parte invece la
ragione possiede un suo dinamismo, si modifica, arricchisce i propri contenuti e
rende più complessa la propria forma; essa cioè cambia nel tempo. Come è
possibile ciò ? Il dinamismo della ragione non può essere giustificato con il
suo ordine statico, il quale anzi rende invisibili le sue stesse possibilità;
occorre allora ipotizzare che nel cuore della stessa ragione vi sia una
potenzialità di "essere altrimenti" (11), che si può dire affondi le proprie
radici nella funzione di sospensione dell'ordine razionale costituito: funzione
realizzata appunto dal fantastico. Del resto, come osserva Ceserani, gli autori
del fantastico hanno anticipato vagamente nelle loro dichiarazioni sul genere ed
esplorato pienamente nei loro racconti "la concezione della vita interiore
dell'uomo come stratificata verticalmente e il riconoscimento dell'esistenza
simultanea, legittima e inquietante di esperienze e discorsi contrapposti e
contraddittori" (Ceserani, 1983, p. 14).
Un'ulteriore precisazione: lo stato
di sospensione che ci sembra caratteristico del fantastico si pone su di un
piano diverso rispetto al concetto di hésitation proposto da
Todorov. Come è noto, lo studioso sostiene che elemento fondante del fantastico
è l'esitazione tra due diverse spiegazioni, costruita dall' autore attraverso
l'intreccio: "In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo,
senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto,
non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che
percepisce l'avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si
tratta di un'illusione dei sensi, di un prodotto dell'immaginazione, e in tal
caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l'avvenimento è
realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è
governata da leggi a noi ignote... Il fantastico occupa il lasso di tempo di
questa incertezza... Il fantastico è l'esitazione provata da un essere il quale
conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente
soprannaturale" (Todorov, 1970, p. 26). Sulla base di tale definizione, Todorov
costruisce una tassonomia dei generi, segnando una distinzione tra "fantastico"
da un lato, "strano" (che si basa su di una spiegazione razionale degli eventi)
e "meraviglioso" (il racconto del sovrannaturale accettato) dall'altro. Ora, è
chiaro che il concetto di "esitazione", anche a volerlo intendere nel suo
significato più ampio, non coincide con quello di "sospensione" da noi proposto:
è vero che molte opere coltivano, addirittura tematizzano l'esitazione tra
un'interpretazione patologica dei fatti e l'ipotesi di una sovversione
dell'ordine naturale, tra l'attribuzione della vicenda "scandalosa" ad un sogno
o ad un'allucinazione e la postulazione di un evento straordinario; e ciò
avviene soprattutto quando la narrazione è condotta in prima persona, con
l'identificazione tra io-narrante e protagonista, meccanismo "che ha il fatidico
dono di contaminare di dubbio l'esistenza stessa dell'evento" (Campra, 1981, p.
212). Chiave del fantastico non ci sembra però l'atteggiamento psicologico
soggettivo del dubbio sul "come" si sono svolti i fatti, dell'incredulità, cioè
della "esitazione" o incertezza tra due strade contraddittorie tra loro (e
tantomeno tra una spiegazione naturale ed una sovrannaturale degli avvenimenti
narrati) che si presentano improvvisamente alla coscienza (di un personaggio del
racconto e/o del lettore), quanto piuttosto l'arco che congiunge strutturalmente
e oggettivamente queste due strade: l'una che va in direzione del 'dato',
l'altra che va in direzione dell'inverosimile, dell'inspiegabile,
dell'indecifrabile. Di conseguenza, la sospensione che caratterizza la
dimensione del fantastico si presenta come una relazione di tipo epistemologico
tra due modalità diverse della conoscenza; è il terreno sul quale si realizza un
dinamismo di significati che in altre dimensioni è presente ma non costitutivo.
Considerare il fantastico come arco che congiunge il reale, o meglio
l'effettuale, con l'incredibile significa semplicemente dire che è al suo
livello che tale rapporto rimane stabilmente e strutturalmente
caratterizzato.
Se il fantastico parte dal reale e se ne nutre, dunque,
finisce per rimescolare in tavola le carte della percezione; "...fa giocare la
natura delle cose e risveglia la fertilità dell'ambiguo" (Resnik, 1988, p. 80).
E' movimento vivo che, attraverso la sospensione, dinamicizza la ragione e fa
approdare ad una dimensione dalla quale è possibile "vedere con nuovi occhi"
(Musil, 1976, p.735). In altri termini, la ragione viene strappata a se stessa e
trascinata lontano, deraglia dai binari consueti, vede rompersi le simmetrie; ma
dal "disordine" logico - la sospensione - si genera un nuovo equilibrio a
livello superiore: dopo aver danzato sull'abisso, la ragione ritorna a se stessa
e ri-fonda il reale nella direzione della complessità. Dall'esperienza del
"limite", caratteristica del fantastico, non deriva una sconfitta conoscitiva,
al contrario: la presa di coscienza del fatto che non si dà un'esauriente,
ordinata, totalizzante sistemazione dell'essere in termini logici genera per
converso un'immagine vertiginosamente seducente del reale: inesauribile e
dilatabile all'infinito, aperto su mondi possibili, esso costituisce una sfida
"creativa" cui accingersi con nuovi strumenti e, vorremmo dire, nuova
razionalità: una razionalità che non può servirsi solo di valori assiomatici,
modalità oggettive, rapporti necessitanti e verificabili, procedure lineari, ma
anche di evocazioni, raccordi unificanti, coaguli analogici.
Finzione al
quadrato, "apoteosi della bugia" (Albertazzi, 1993, p.56), il fantastico
"ricade" così quasi paradossalmente nel reale; impastando elementi in varia
guisa riconoscibili, modificandoli e sovvertendone l'ordine tramite l'allusività
e l'illusione, proietta l'immagine che ci siamo fatta del mondo - che lo
scrittore e il lettore hanno del mondo - in una sfilata di specchi: non gioco
ottico, ma visione centuplicata e allargata, che si oppone a quella sorta di
Medusa pietrificatrice che è la realtà quale la percepiamo con gli strumenti del
logos . Lungi perciò dal postulare semplicisticamente una fuga o
un'evasione nei meravigliosi mondi dell'immaginario, esso fornisce una chiave
per prendere le distanze da quelle che Calvino ha definito "le sabbie mobili
dell'oggettività" (Calvino, 1960, p. 44); introduce una spinta contraria, dalla
quale può prendere origine lo scatto critico, il barlume di una coscienza che
simultaneamente aderisce alle pieghe del mondo e lo comprende
dall'interno da un lato e dall'altro si proietta al di fuori, ragionando su di
esso. Ciò perché il fantastico è per eccellenza campo generatore di tensioni:
tra partecipazione e distanziamento, identificazione e rigetto, su cui la
sospensione getta un ponte percorribile ad ogni momento nelle due
direzioni.
3. La fantascienza: verso la ricomposizione della polarità figura-sfondo
La fantascienza può essere considerata come un genere letterario, per
giunta minore, che svolge semplicemente la funzione di proiettare all'esterno
angoscianti conflitti interiori, tipici di una società antagonistica e complessa
(12)? Può quindi essere ricondotta ad una sorta di "disincantamento" del
fantastico, che non sarebbe più una via verso il mistero, verso l'alterità ma,
per dirla con Foucault, una maniacale ripetizione dell'Identico (Foucault, 1966,
p. 353) e cioè un insieme di pure espressioni simboliche della banalità
quotidiana? Ad esempio, si può dire che i mostri spaziali siano la
rappresentazione del "nemico" in epoca di guerra fredda o che le allucinazioni
di un autore come Dick siano la raffigurazione di una situazione
"schizofrenica"? E' quanto sostengono molti studiosi e si tratta solo di uno dei
modi in cui la questione della science fiction viene affrontata in
sede critica.
Confinata nella paraletteratura (13) o rubricata come esempio
di "letteratura dell'epoca post-industriale", ridotta a forma ibrida, che solo
per ipostasi contenutistica può essere collocata nel novero dei generi, comunque
separata e distinta dalle manifestazioni artistiche "alte", la fantascienza
sconta a livello di esegesi uno strano destino: da un lato si riconosce che
utilizza, manipola, fonde i meccanismi tipici del fantastico, aggiornandone le
tematiche e proponendo una decisa curvatura verso le innovazioni
scientifico-tecnologiche, sì da presentare dei confini abbastanza ben
demarcabili (14); dall'altro dal fantastico viene sovente esclusa, per
differenti motivazioni (15) e considerata come una forma artistica a funzione
fondamentalmente evasiva e ludica. A nostro parere, tuttavia, la fantascienza
non può essere considerata come una banalizzazione del mito in chiave
psicologica, nè come genere neutro dal punto di vista della valenza cognitiva:
al contrario, essa si presenta, a ben guardare, come una delle strade oggi
percorribili verso il mistero, giacché, attraverso le sue costruzioni, genera un
lavoro ermeneutico in direzione di ciò che è "altro".
In via preliminare,
occorre cogliere le categorie unificanti del genere fantascientifico,
analogamente a ciò che è stato fatto per il mito, la favola e così via. Le
categorie dominanti ci sembrano due: da un lato quella del "non-umano",
dall'altro quella della "macchina": si potrebbe addirittura fare una storia
della fantascienza attraverso l'analisi dei tipi di macchine che, di tempo in
tempo, hanno costituito il perno della narrazione e ne hanno determinato i
meccanismi e dire, ad esempio, che ad una fantascienza centrata sulla figura
della macchina/nave spaziale è succeduta una fantascienza centrata sulla figura
della macchina/ robot umanoide, per giungere infine ad una fantascienza centrata
sulla macchina /congegno elettronico. Parallelamente, si potrebbe seguire questo
percorso analizzando i tipi di antagonisti (doppi) delle corrispettive macchine:
si andrebbe così a verificare che alla stagione dei mostri alieni (in
corrispondenza della macchina/ nave spaziale) è seguita la stagione degli
androidi minacciosi (in corrispondenza della macchina/robot) e poi quella della
intelligenza reificata (in corrispondenza della macchina/ congegno
elettronico).
Questo processo sarebbe sufficiente a mostrare che la
fantascienza ha come sua essenza la scoperta dell'ambiguità
dell'artificiale : la macchina non è presentata e considerata tanto
come un mezzo di cui l'uomo possa servirsi ma soprattutto come un elemento che
lo trasforma dall'interno. Da un lato perciò le macchine sono proiezioni di
desideri inconsci, dall'altro rappresentano la ormai incombente fatalità di una
ibridazione e confusione tra artificiale e naturale, tra mezzo e fine, tra
conoscibile e inconoscibile. Tanto per fare qualche esempio, il tema
dell'imprecisabilità dell'identità, tipico di Philip Dick, costituisce in modo
emblematico la spia di un'epoca in cui l'artificiale riproduce il reale e
quest'ultimo a sua volta imita quello, in un processo di simulazione che
cancella la certezza di modelli e paradigmi interpretativi. Al centro della
vicenda del romanzo di Dick Do Androids Dream of Electric Sheep?
(1968, trad. it. Il cacciatore di androidi ) - da cui è stato
tratto il cult-movie Blade Runner - compaiono esseri artificiali
che coltivano il sogno di vivere una vita umana: sogno irrealizzabile non per
motivi materiali ma per ragioni più profonde: non hanno infatti una memoria
personale ma i loro ricordi sono quelli di persone realmente vissute, presi per
così dire in prestito. In tal senso il romanzo si può leggere come un'inchiesta
sulla natura della soggettività: lo stesso protagonista, Deckard, che si serve
di una macchina per riconoscere i ricordi autentici da quelli innestati, in modo
da scoprire i pericolosi androidi, alla fine rimane in dubbio sulla propria
identità: non sa - e non ha modo di scoprirlo - se è un essere umano oppure un
androide egli stesso.
Una variazione del motivo si può individuare in un
racconto dello stesso Dick, Impostor (1953, trad. it.
Impostore) . In causa è anche qui l'identità del protagonista,
Spence Olham, che viene accusato di essere in realtà un robot: a quanto rivelano
i funzionari del controspionaggio, gli invasori extraspaziali avrebbero ucciso
l'umano di nome Olham e l'avrebbero sostituito con una macchina che lo riproduce
in tutto e per tutto, fin nella coscienza e nei ricordi, inviata sulla terra col
compito di far esplodere una bomba devastatrice. Nel racconto l'oscillazione
circa la realtà dei fatti è costruita in modo magistrale grazie all'impiego
insistito della focalizzazione interna: gli eventi sono presentati nell'ottica
di Olham, convinto di essere vittima di un terribile equivoco o di un complotto,
indubitabilmente sicuro della propria identità, pronto ad improvvisarsi
investigatore pur di provare la propria verità; solo nell'explicit
egli - protagonista inattendibile - scopre di non essere quello che
credeva: e la scoperta coincide con l'esplosione della fatidica bomba. Il tema
dell'usurpazione dell'io, tipico di tanta letteratura fantastica (16), viene qui
mediato, con una fortissima ricaduta sul piano dell'apertura cognitiva, dal
motivo del robot umanoide. L'incubo kafkiano si risolve nell'affermazione di un
ordine di cui il soggetto stesso implicato nei fatti non ha coscienza, non
perché la sua percezione sia distorta, ma perché non è un soggetto, non possiede
capacità di percezione e coscienza propria, essendo in realtà una macchina;
l'artificiale mima l'umano creando un effetto di verosimiglianza doppia, in un
gioco in cui il lettore stesso è coinvolto fino alla fine, continuamente
spiazzato nella ricerca della verità possibile, mentre il velo del dubbio si
estende finanche sul piano extratestuale. In un altro romanzo di Dick, The
Man in the High Castle (1962, trad. it. La svastica sul sole
), si immagina che gli Americani vivano in una dimensione in cui Hitler e il
Giappone hanno vinto la seconda guerra mondiale: nelle Montagne Rocciose
tuttavia c'è un uomo che sembra avere le prove del contrario: ha scritto un
romanzo in cui si postula che, in realtà, la guerra è stata vinta dagli Alleati.
Così, in un'epoca in cui la convinzione comune è che Hitler e il Giappone siano
stati sconfitti, è possibile che ci sia qualcuno che abbia le prove che essi
invece abbiano vinto. Il gioco di specchi e di illusioni può continuare
all'infinito.
Il tema comune ai testi che abbiamo citato è la confusione tra
realtà ed apparenza, per effetto del potere, proprio dell'età della tecnica, di
duplicare con l'artificiale il naturale e di dare luogo ad una forma di vita
ibrida e ancora incomprensibile, che appare come presenza minacciosa
nell'esistenza dell'uomo: categorie che sembravano ovvie ed indiscutibili
vengono confuse, rovesciate, distorte. In questo senso, la fantascienza è strada
immaginativa verso l'enigma (come afferma Caillois, 1966, p. 52: "la scienza,
che ha cessato di rappresentare una protezione contro l'inimmaginabile, appare
sempre più come una vertigine che vi precipita"). Essa in sostanza mette allo
scoperto la valenza conoscitiva dello "strumento" - la macchina - il quale è
sempre l'apertura di un nuovo spazio interpretativo: non serve soltanto ad
ottenere uno scopo, che preesiste nella mente del soggetto, non è solamente il
docile mezzo progettato per raggiungere un fine ma, esorbitando dalla sua stessa
natura, mette in moto, attraverso la meraviglia, un procedimento di
interpretazione, apre a possibilità inattese, rivela il turbinare
dell'imprevisto e dell'imprevedibile dietro il conosciuto. Così come la macchina
/ nave spaziale disvela la dimensione paradossale del rapporto tra spazio e
tempo, l'automa manifesta la potenzialità del nesso meccanismo/biologia, mentre
la macchina elettronica (computer, cyberspazio, autostrade elettroniche e così
via) la problematicità della connessione tra intelligenza e individualità
soggettiva.
La nave spaziale ricrea e rifonda, in prospettiva aggiornata, la
dimensione tradizionale e il topos del viaggio, con tutte le sue
valenze e potenzialità narrative: il viaggio verso mondi sconosciuti, l'incontro
con l'alieno, le strutture di una geografia che non è quella terrestre ma quella
di uno spazio-tempo puramente geometrico, la trasformazione della psicologia e
della stessa struttura fisica dei personaggi, fino alla codificazione del
viaggio interstellare nel concetto di "iperspazio" e alla sua trasfigurazione in
una sorta di attraversamento dello spazio e del tempo. I paradossi della teoria
della relatività sono utilizzati per decentrare completamente il punto di vista
del soggetto, il quale, spostandosi fisicamente, si sposta anche nel tempo,
mettendo continuamente in gioco le proprie coordinate di riferimento. In un
romanzo di Ron Hubbard, Return to tomorrow, del 1950 (trad. it.
Ritorno al domani ) si affronta ad esempio il tema dei viaggiatori
nello spazio-tempo i quali, per effetto del cosiddetto "paradosso dei gemelli",
(17) ogni volta che tornano sulla terra la trovano completamente trasformata per
il trascorrere delle epoche (corrispondenti a pochi dei loro anni soggettivi),
così che sono costretti a rinchiudersi in una sorta di consorteria il cui
mondo-ambiente non è più in nessun luogo fisico. Si può dire che il viaggio
spaziale finisce con l'annullare gli stessi termini del viaggio - la partenza e
il ritorno - in una sorta di fuga all'infinito che del resto è rappresentata
emblematicamente in un'opera di Heinlein (Orphan of the Sky, 1963,
trad. it. Universo) . Rispetto alle metafore tradizionali, il
viaggio non ha inizio nè fine: costituisce in sé una specie di mondo, come una
sorta di universo chiuso è l'astronave, grazie alla quale si supera la frontiera
del sistema solare, spazio interno, conosciuto e rassicurante rispetto
all'outer space .
L'elemento più ricorrente del viaggio è
l'incontro con l'alieno: la dimensione che viene da esso negata è quella che si
può definire della "normalità". L'alieno o è creatura meravigliosamente benevola
(vedi Incontri ravvicinati del terzo tipo ) o è puro distillato di
ferocia (Alien) o anche, nei filoni più critici e satirici della
fantascienza, è la quintessenza dell'intelligenza e/o della stupidità (così, ad
esempio, è rappresentato in molti romanzi di di Robert Sheckley). In questo
senso, si può dire che la caratteristica strutturale dell'alieno sia l'iperbole.
Esso è "realtà" al sommo grado e all'eccesso, e perciò può provocare orrore o
desiderio di comunione. Da tale punto di vista, il libro che riassume tutte le
potenzialità dell'essere alieno, toccando i vari vertici dell'eccesso e
fondendoli in un sentimento distanziante di nostalgia, è senza dubbio
Martian Chronicles (trad.it. Cronache marziane ) di
Ray Bradbury: qui traluce l'idea di esperienze estreme, perdute per sempre, di
cui nella banalità quotidiana rimane soltanto qualche simulacro.
L'automa
apre la dialettica copia/originale. Come ha mostrato Baudrillard, l'elemento che
caratterizza ciò che egli chiama "iperrealismo" è la simulazione, l'
indistinguibilità dell'originale dalla copia, la quale finisce con l'essere più
reale del reale stesso, perché contiene, oltre alle caratteristiche proprie del
reale, quelle della indistruttibilità e della riproducibilità all'infinito
(Baudrillard, 1980). Ad un livello molto semplice, tale dialettica genera il
meccanismo narrativo centrato sul rapporto tra l'uomo e il suo alter ego
artificiale; ad un livello più avanzato, essa dà vita al nodo conoscitivo che
aggroviglia le categorie dell'essere e dell'identità. Nella prima tipologia,
troviamo tutto il filone della robotica fantascientifica ispirata ai modelli
asimoviani, modelli costruiti sull' ipotesi che "i robot abbiano un'anima".
Nella seconda tipologia, invece, si possono far rientrare i complicati
meccanismi narrativi di Philip Dick e di pochi altri (come Dish, Zelazny,
Delany) fondati sull'angoscia di tipo metafisico che genera la impossibilità del
riconoscimento della propria identità. In We can build you. A Lincoln
Simulacre del 1972 (trad. it. Abramo Lincoln androide ) il
gioco è portato da Dick alle sue estreme conseguenze: il protagonista, un
androide adibito a ricostruzioni storiche di tipo didattico (in una società in
cui è possibile riprodurre artificialmente il passato per consentirne una
fruizione diretta), diventa il presidente americano perché di fatto
non c'è alla fine niente che possa distinguerlo dal personaggio reale. Il
problema presentato da Dick è quello di un cogito di tipo
cartesiano diventato impossibile: lo strumento-macchina rivela l'enorme vuoto
silenzioso che è al riparo delle pareti del capo.
Si tratta, come afferma
Renato Giovannoli, di "un'operazione sulla struttura logica del linguaggio", che
annulla il principio stesso di non contraddizione (Giovannoli, 1982, pp. 31-32):
secondo le leggi fissate nel quadrato logico di Aristotele e nel quadrato di
veridizione di Greimas (che del primo offre una versione in chiave semiotica),
non si può essere e contemporaneamente non essere ma si può essere e non
apparire (il segreto) oppure apparire e non essere (la menzogna). "Ciò che
trasforma in cerchi questi quadrati... e elimina le disgiunzioni esclusive, è la
nozione di apparenza, che esplorata fino in fondo ingloba quella di
essere" (ivi, p.33). Se, come nel caso del romanzo di Dick che abbiamo citato, o
in The robot who looked like me (trad. it. Il robot che
sembrava me ) di Sheckley, la copia perfetta è indistinguibile
dall'originale, allora "l'essere sarebbe.. definito da un grado molto alto di
finzione, collocato sullo stesso continuum dell'apparenza, senza una briciola di
consistenza ontologica in più. Ma se l'essere non è che apparenza, e l'apparenza
può celare il non essere (esser menzogna), ecco la disgiunzione farsi inclusiva
e il ciclo dei divenire prender forma" (Giovannoli, 1982, p. 35).
La
dimensione elettronica che, soprattutto a partire dal romanzo Neuromancer
(trad. it. Neuromante) di William Gibson, si presenta come
macrotema caratterizzante la fantascienza degli ultimi anni, segna una sorta di
regressione vertiginosa dalla infinità dello spazio esterno alla pseudo-infinità
del cyberspazio. E' interessante confrontare in parallelo la nozione di spazio
collegata al mondo della macchina / astronave con la nozione di spazio correlata
alla dimensione elettronica. L'iperspazio - che è una categoria letteraria
universalmente riconosciuta dagli scrittori di fantascienza- è stato
l'espediente che ha consentito di superare i limiti della teoria della
relatività ristretta, di rendere immaginabili viaggi ad una velocità superiore a
quella della luce, di porre le basi per una espansione indefinita della
conoscibilità dell'universo fisico (con tutte le convenzioni logicamente
deducibili da tale ipotesi primaria). Il cyberspazio, al contrario, non collega
mondi o parti di universo ma informazioni: ha un rapporto diretto con la mente
dell'uomo ed infatti all' "astrogatore" (navigatore degli astri) si sostituisce
il cybernauta, il quale non soltanto viaggia in uno spazio di informazioni
immateriali ma diventa egli stesso un pacchetto di informazioni che può essere
utilizzato da altri analoghi pacchetti. Il punto che viene messo in luce è la
dimensione assolutamente impersonale dell'intelligenza: questa finisce con
l'essere un aggregato coerente di pensieri di cui però si è perso l'autore, un
aggregato che cresce indefinitamente su se stesso. L'avventura rischia di
trasformarsi in incubo: la conoscenza stessa non sa più riconoscersi, perde la
sua aura. In un famoso racconto di Borges, La casa di Asterione
(1952) il Minotauro, metafora dell'enigma, aspetta il suo salvatore, il
redentore (cioè colui che è destinato a sciogliere il nodo del mistero, e della
solitudine) e, quando Teseo arriva, non fa nulla per difendersi dalla spada che
lo uccide: dal canto suo l'eroe non può far altro che distruggere ed abolire il
groviglio del mistero, proprio perché lo svela, credendo di riparare una
lacerazione, una smagliatura nel tessuto compatto della ragione. Nello stesso
modo, la conoscenza attuale, nel momento in cui si trasforma in informazione che
si autoreplica, finisce con lo svelare l'enigma e viene uccisa
dall'algoritmo.
Complessivamente, alla base della produzione
fantascientifica si può dire vi sia una dialettica speculativa: "un confronto
tra un sistema normativo stabilito - una visione del mondo chiusa di tipo
tolemaico - e un punto di vista o uno sguardo che implica una nuova serie di
norme; in termini di teoria della letteratura, questo fenomeno è conosciuto come
l'attitudine di straniamento" (Suvin, 1972, p. 44). Darko Suvin,
partendo da queste premesse, definisce la fantascienza - che "vede le norme di
qualsiasi età, includendo enfaticamente anche la sua, come eccezionali,
mutevoli, e sottoponibili dunque a uno sguardo conoscitivo " - come
letteratura di straniamento conoscitivo, come genere letterario "le cui
condizioni necessarie e sufficienti sono la presenza e l'interazione di
straniamento e conoscenza" (ivi, p. 45). Si tratta di un'intuizione assai
interessante, e feconda, anche se Suvin sembra limitare la portata conoscitiva
della fantascienza quando afferma che "essa mette in discussione
fondamentalmente l'uso e l'effetto della conoscenza politica,
psicologica, antropologica (scienze naturali, scienze umane e filosofia
della scienza ), e la realizzazione o fallimento di nuove realtà
come risultato di essa " (ivi, p. 47). Si tratta allora di operare una
leggera forzatura dell'approccio di Suvin, una forzatura che tende ad
evidenziarne una possibile, radicale direzione di senso: senza escludere gli
aspetti sottolineati esplicitamente dallo studioso, si può sostenere che,
tramite lo sguardo straniato, la fantascienza mette in discussione, più nel
profondo, il modo della conoscenza, le prospettive della logica classica,
fabbricando - inventando - mondi sulla base di una dinamica di trasgressione del
limite che ingloba e supera la logica standard. Si parte da un'idea, da un
assioma e lo si sviluppa in una delle direzioni possibili, secondo un asse
"positivo", utopistico, oppure "critico", distopico, ma sempre aprendo ad un
"oltre" conoscitivo.
Esaminiamo un aspetto particolare della questione, cioè
le modalità di organizzazione e di strutturazione dell'impianto narrativo. Come
abbiamo già accennato, molti racconti fantastici (soprattutto quelli 'classici',
di cui Vera di Villiers de l'Isle Adam può essere considerato un
esempio illuminante (18), e quelli più moderni che ne utilizzano i procedimenti)
presentano uno schema di evoluzione degli avvenimenti che, con tutti gli
slittamenti e le intersezioni che si è cercato di mettere in chiaro, può
definirsi lineare: da una situazione di equilibrio - in cui protagonista o
io-narrante, e con lui il lettore, vedono rispettate le condizioni di realtà
comunemente accettate - si passa ad una situazione di trasgressione, in cui, per
l'improvviso apparire di un elemento perturbante, vengono infrante le categorie
di senso: dal verosimile all'inverosimile, con la conseguente creazione di una
terza dimensione. Nelle opere della science fiction l'elemento
"possibile", il dato in cui si sintetizzano vertiginosamente l'approdo effettivo
di una branca della scienza o della tecnica e l'elaborazione fantastica, è dato
per scontato già all'inizio della narrazione vera e propria: costituisce una
pre-condizione, una pre-supposizione, sulla base della quale si sviluppano gli
avvenimenti. Lo "scandalo razionale", provocato dalla distanza tra mondo
empirico ed universo fittizio, è un punto di partenza, non di arrivo; per
questo, lo scioglimento della vicenda narrata non coincide con l'instaurazione
di un nuovo ordine, radicalmente differente rispetto a quello iniziale, ma si
presenta come variazione ricorsiva, all'interno di un medesimo paradigma di
senso: un paradigma "fantasma" o "assente" per usare l'espressione di Marc
Angenot (1979) (19).
Si tratta di una logica circolare, che in via di
principio genera un forte distanziamento critico. Parallelamente, gli indizi del
testo, e in particolare le sue strutture semantiche - a cominciare da neologismi
e parole immaginarie, come ha dimostrato Angenot - inducono il lettore a
costruirsi, per via di ipotesi continuamente da scartare e riformulare, per via
cioè di aggiustamenti progressivi dell'angolo visuale, un'idea del
mondo fictionale all'interno del quale hanno luogo gli eventi narrati. Il testo
implica, senza mostrarlo ostensivamente, l'esistenza di un paradigma in sé
coerente, che non corrisponde a quello empirico e che però si può ricostruire
per inferenza, riorganizzando gli input in un ordine diverso rispetto a quello
consuetudinario e chiudendo il circuito del disorientamento.
La necessità
della cooperazione del lettore è ancora più evidente rispetto ad altri generi
narrativi: davanti ad un sistema che programmaticamente sconfessa le sue
previsioni e le sue attese, egli, attingendo alle sue strutture logiche e
semantiche, proiettandole sull'universo fittizio, metabolizzando lo scarto
rispetto alla norma, è condotto ad integrare le informazioni offerte dal testo,
scoprendo o meglio inventando un senso non preesistente al processo, facendo
così "emergere" un mondo: in questo modo si può portare a conseguenze radicali
l'osservazione di Angenot per cui il lettore di fantascienza ".. deriva per
induzione dal particolare delle regole generali immaginate, che prolungano le
fantasie dell'autore e conferiscono ad esse plausibilità...; si impegna in una
ricostruzione congetturale che 'materializza' l'universo fictionale" (Angenot,
1979, p. 37).
L'effetto conoscitivo è tanto più forte quanto più l'ordito del
testo si nutre di allusioni ed implicazioni: utilizzando un principio formulato
in ambito pedagogico, per spiegare alcune leggi dell'apprendimento profondo, si
può dire che "l'intensità della risposta è inversamente proporzionale
all'intensità dello stimolo e direttamente proporzionale all'assenza di
rappresentazioni" (Minichiello, 1995, p. 162). Un esempio: quando si comincia a
leggere un classico della narrativa cyberpunk come Solstice (trad.
it. Solstizio ) di James Patrick Kelly (1985), ci si trova
d'improvviso proiettati in un mondo in cui il protagonista, Tony Cage, è
apostrofato come "artista della droga" da un cronista che, parlando, "tamburella
sulla presa cranica dietro l'orecchio, come per smuovere la memoria del suo
wetware". Lo scrittore non fornisce spiegazioni, né una rappresentazione
dell'universo in cui si svolgono i fatti: il lettore può, addentrandosi nella
foresta del testo, costruirsene un'immagine, grazie ad ipotesi ed aggiustamenti,
fino a definirla come riconoscibile: e ciò genera in sé uno sforzo di
interpretazione che dilata il confine del dominio di conoscenza.
Ben
lungi dal qualificarsi come letteratura di evasione o di facile consumo, la
fantascienza rivela dunque un potenziale cognitivo non sufficientemente preso in
considerazione: non solo e non tanto perché, ad un primo livello, le sue
finzioni si collocano in un mondo che si presuppone radicalmente "altro" dal
nostro o perché mostra panorami di evoluzione possibili, ma perché tematizza in
forme narrative il problema della razionalità e dei modi di conoscenza, la
questione del linguaggio, con tutte le ricadute gnoseologiche che comporta (la
sua struttura logica, la coerenza del sistema semantico, il rapporto tra segno e
significato, l'interpretazione e il conferimento di senso, l'ineffabilità e la
traducibilità dei codici) (20), il nodo dell'opposizione tra reale ed
artificiale, verità e simulazione nelle prospettive sollevate dai progressi
tecnologici.
Partendo da un grumo - costantemente in evoluzione - di
acquisizioni scientifiche e ragionando secondo l'ottica del "che succederebbe
se..." (Heinlein, 1966), variante del "pensare altrimenti" di Musil, la
fantascienza recupera e rende visibile, nei modi propri della società moderna,
il filo di connessione tra pensiero che ragiona e pensiero che sogna, tra il
modo empirico, tecnico e razionale del conoscere e quello simbolico ed
analogico.
Proprio utilizzando il linguaggio scientifico (il linguaggio della
ragione per eccellenza) e quindi agendo all'interno stesso del sistema, la
fantascienza - come abbiamo cercato di dimostrare, e forse al di là delle
intenzioni degli stessi scrittori - finisce per superare le opposizioni
disgiuntive tipiche del logos quale si è imposto nella modernità,
le forme rigide e imperative fondate sul potere della negazione, sull'esclusione
del terzo e della contraddizione (21); al contrario, fa emergere, per via
narrativa, la possibilità della congiunzione e dell'affermazione, svelando, nel
seno stesso della scienza, le aperture e le allusioni ad altro che essa, in ogni
caso, non cessa di presentare; con vicende al limite del verosimile, ai livelli
più alti, smaschera l'illusione di poter fornire un modello - un paradigma - di
razionalità univoca e compiuta che incaselli il reale, e la vita, in leggi di
assoluta trasparenza e inconfutabilità. Radicalizzando ipotesi e teorie,
aggiungendo "all'universo potenzialmente infinito dell'era della produzione...
la moltiplicazione all'infinito delle sue stesse possibilità" (Baudrillard,
1980, p. 53), presenta la catena degli eventi, il divenire (l'evoluzione
scientifica, biologica, cognitiva, culturale) non come processo lineare ma come
processo circolare e autoreferenziale, come uno "strano anello", per usare la
terminologia di Hofstadter (1979).
Marshall McLuhan ha affermato che, nella
civiltà occidentale moderna, si è perduta la capacità di cogliere
simultaneamente, all'interno delle situazioni culturali, la figura
(cioè l'area di attenzione) e lo sfondo (l'area molto più vasta di
disattenzione, il contesto nascosto); e ciò a causa del prevalere dell'emisfero
cerebrale sinistro - quello che presiede alle attività che comportano metodo,
analisi, controllo e che organizza lo "spazio visivo" - sul destro - quello
deputato alle attività immaginative, inventive, associative e che organizza lo
"spazio acustico" (McLuhan-Powers,1989, pp. 21 sgg). Utilizziamo
quest'affermazione come spunto per la nostra argomentazione conclusiva: nella
società contemporanea, dominata, a tutti i livelli, dal progredire della
conoscenza scientifica e dalle relative applicazioni tecnologiche, in primo
piano, come figura, è la razionalità lineare e sequenziale, che si
ha la presunzione di amputare dal suo sfondo : l'esperienza della
percezione, del simbolico e dell'analogico, con cui la figura stessa è invece in
continua interazione. La scienza, in quest'ottica, finisce per presentarsi come
la messa tra parentesi della radice non razionale della ragione, che viene
espunta dal sistema perchè considerata, tutto sommato, primitiva, oscura,
pericolosa. Ora, a meno di non voler considerare la scienza semplicemente come
effetto di un processo computazionale e meccanico, e l'oggetto razionale come
automa indipendente, si tratta di invertire la focalizzazione e di ammettere
che, senza creazione ed invenzione, non si dà scienza e che questa trae alimento
da ciò che è "alle spalle" della razionalità analitica e lineare; ciò se si
vuole riconoscere che, come afferma Giorgio Colli, "ciò che la ragione esprime,
non è la ragione" (Colli, 1978, p. 183) e che "la natura del logos è di portare
a compimento la sua negazione radicale, mostrando in ciò la sua origine
altra" (Minichiello, 1984, p. 89). La figura che si offre nel
panorama moderno è invece quella di una ragione monca e denudata, separata
arbitrariamente dalla cornice che le è necessaria.
La fantascienza ci sembra
che riconnetta, proprio grazie allo straniamento della fiction, la polarità
figura-sfondo. "Per ogni assioma narrativo della fantascienza, anche il più
tradizionale, umano, 'aristotelico' o 'positivista'- afferma Giovannoli -, c'è
sempre una linea di fuga" (Giovannoli, 1982, p. 42): non però da un punto ad un
altro, da uno più in basso ad uno più in alto o più lontano in una gerarchia, e
neppure verso un approdo spostato all'infinito (utopia o profezia) bensì in
direzione di un dietro, di uno sfondo che coincide specularmente con il davanti,
la figura, lo stadio di partenza, e ne illumina, con la potenza della metafora,
il significato.
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NOTE
1) La vicenda del romanzo prende le mosse da un interrogativo e da un
'esperimento mentale': dinanzi alla versione della storia di Adamastor
presentata da Luís Vaz de Camões nel poema Os Lusíadas - il gigante
deforme sorprende la ninfa Teti al bagno e per questo viene inchiodato da Zeus
alla frastagliata Penisola del Capo -, Brink si chiede se dietro di essa si
celi, non scritto, 'un primigenio Urtext ' e presenta un'ipotesi:
'... supponiamo che ci fosse un Adamastor, un modello primo per il Gigante al
centro della favola di Camões; e supponiamo che tale creatura originaria... sia
sopravvissuta nei secoli, in una serie di metamorfosi varie e continue, per
sorvegliare all'infinito il Capo di Buona Speranza: come ricorderebbe lui, dalla
prospettiva del tardo XX secolo, quell'esperienza primordiale? Questo è il balzo
immaginativo che mi propongo, invitando il lettore a spiccare il volo insieme
con me' (Brink, 1988, pp. 10-11).
2) Cfr. Segre 1979, pp. 208 sgg.
3) Per il dibattito critico sulla definizione e i criteri di classificazione,
cfr. la bibliografia curata da Scarsella 1984, pp. 277 sgg. (in particolare pp.
292-304) e 1988, pp. 231 sgg. Recenti puntualizzazioni in Albertazzi 1993, pp. 3
sgg.
4) Sulla narrazione fantastica come 'connubio trasgressivo' tra due tipi di
fictio, la realistica e la meravigliosa, cfr. Scarano 1983.
5) Per una trattazione dello stesso ordine di problemi, parzialmente
consonante con la prospettiva della Campra, cfr. la fine analisi di Lugnani
(1983 b), pp. 177-288, e soprattutto le pp. 191-193.
6) Cfr. anche Campra 1982, p. 186: '.. la legge del genere è l'infrazione.
L'infrazione messa in primo piano nel fantastico è uno scandalo della ragione:
questa constata l'esistenza di due ordini inconciliabili e successivamente si
vede obbligata... a constatarne la sovrapposizione'.
7) Per un diverso approccio alla questione, cfr. Benedetti 1983.
8) Per un'analisi della tesi di Morin, cfr. Minichiello 1994, pp. 12
sgg.
9) Cfr. anche Beutler 1979, p. 27: 'Se tutto ciò che è percepito come
immaginario è confermato tale, o come la traduzione simbolica di una realtà
offerta ai sensi o rivelata, non c'è posto per il fantastico. Se tutto ciò che
contravviene alle leggi della percezione riceve una spiegazione razionale, non
c'è più posto per il fantastico'.
10) 'L'esperienza dell'assurdo si configura come riposante sull'ambiguità,
sull'intrecciarsi e neutralizzarsi di linee di senso contraddittorie. Dal punto
di vista conoscitivo l'esperienza dell'assurdo è aperta, sospesa. Ebbene la
stessa sospensione sembra invitare e sospingere al suo superamento:
contraddittorietà impostasi, ma non accettata (nel senso che l'imporsi della
contraddizione si accompagna comunque ad una resistenza ad accettarla: posizione
quindi che sta tra rottura di uno schema, di un paradigma di realtà, e
superamento non ancora raggiunto di tale realtà), l'assurdo tende a risolversi'
(Goggi 1983, p. 90).
11) L'espressione richiama il 'pensare altrimenti' (anders
denken ) di R. Musil, 1976, p. 950. Cfr. in proposito Gabetta 1981, pp.
109 sgg.
12) Sull'argomento, cfr. Jacobelli 1970, e Beutler 1979, p. 576.
13) Per una discussione sull'argomento, in una prospettiva di ri-definizione
critica della science fiction come 'paraletteratura', cfr. Angenot 1980.
14) Sul rapporto tra fantascienza e letteratura fantastica, cfr. Zgorzelsky,
1980.
15) Cfr. ad esempio Albertazzi, 1993, pp. 12-14. Partendo dall'assunto che '
il fantastico ha le sue radici in questo mondo, dove la comparsa di un elemento
inspiegabile o incongruo porta una confusione o uno sbalordimento sconosciuti
nell'universo delle fate e dei maghi', la studiosa esclude dal fantastico
propriamente detto la fantasy, l'utopia e la fantascienza ' che spinge
all'estremo i poteri e le conquiste della scienza, fino a oltrepassare il limite
della verosimiglianza' (ivi, p.14). Questo perchè nei romanzi e racconti
fantascientifici manca l'elemento dello stupore, dell'inquietudine e del dubbio,
'quello sgomento senza risposta che solo il fantastico è in grado di provocare'
(ibidem ).
16) Cfr. in proposito Campra, 1981, pp. 207-208.
17) Sull'argomento e sulle varianti narrative del paradosso nella letteratura
fantascientifica, cfr. Giovannoli, 1982, pp. 49 sgg.
18) Una finissima analisi del racconto in Lugnani, 1983b, pp.
249-270.
19) Sull'assenza di paradigma nella fantascienza, cfr. anche Campra 1982, p.
190: '... può... succedere che i fatti narrati non rinviino a un paradigma
identificabile, creando uno squilibrio significativo. Questo squilibrio si può
aggiustare mediante una motivazione sintagmatica, che espliciti, nel corso della
storia stessa, la regola a cui rispondono gli avvenimenti in quell'universo
dato. La fantascienza è un esempio di motivazione sintagmatica: i fatti non
rientrano in un paradigma conosciuto, ma questo viene stabilito ex
novo, come regola di un mondo sconosciuto al lettore sia nello spazio
(altri sistemi galattici) sia nel tempo (il futuro)'.
20) Sul tema del linguaggio e della comunicazione nella narrativa
fantascientifica, cfr. Giovannoli, 1982, pp. 37- 43.
21) Per la critica della logica classica da questo punto di vista, cfr. Morin
1991, pp. 186 sgg.