Paola Di Natale


La valenza conoscitiva del fantastico

1. Il fantastico e l'unidualità del pensiero


"C'era e non c'era una volta": André Brink, nel Prologo del romanzo La prima vita di Adamastor, apre la narrazione - presentando "le clausole del suo contratto con il lettore" - con il riferimento a questa formula "trovata in un libro, finito chissà dove, sulla dinamica dei modelli narrativi" (Brink, 1988, pp. 3, 5) (1). Si tratta di una formula che può tornare molto utile per definire le caratteristiche portanti e le modalità di tensione interna non solo dei testi narrativi in genere, che, in quanto tali, presuppongono a monte un procedimento di fictio, di elaborazione manipolante del reale e si collocano, per questo, sempre nella dimensione dell'immaginario (2), ma soprattutto di quei testi che rientrano nella categoria - pur vaga e difficilmente circoscrivibile (3) - del "fantastico". Approfondire il significato di questa formula può aiutare a determinare un criterio, orientativo, per la delimitazione e la classificazione.
"C'era": affermazione di esistenza di una vicenda o di un evento che si pretende accaduto, anche se sovverte l'ordine e i parametri accettati di realtà, e che viene presentato al di fuori di una precisa collocazione spazio-temporale, quindi in una prospettiva volutamente sfumata e straniante; e, contemporaneamente, quasi paradossalmente, "non c'era": negazione dell'evento nella prospettiva della logica e insieme postulazione di un patto narrativo, con cui, avvertendo il lettore del carattere immaginario della narrazione, lo si invita a prestarvi comunque fede all'atto della fruizione del racconto (4). Un gioco di specchi, che apre alla percezione del lettore la categoria del possibile, allargandone le prospettive di approccio e di comprensione; un doppio e perturbante velario frapposto tra verosimile ed inverosimile, reale ed irreale, normalità e trasgressione, che tende ad annullare le opposizioni logiche, a superare le dinamiche di interpretazione puramente lineare, a favorire l'ingresso in una prospettiva "altra" senza traumi.
Se, come afferma Segre, "il narratore è... un bugiardo autorizzato, per ciò che attiene all'opposizione vero/falso" (Segre, 1979, p. 213), ciò si verifica in particolare per lo scrittore "fantastico", che si arroga per definizione, a priori, il diritto all'instaurazione di un mondo in cui le coordinate considerate "normali" sono annullate e sostituite da altre, secondo principi e paradigmi che è lui stesso a definire. In questo vortice di inesistenza, di non-essere, che diventa per un momento il contrario di sé, il lettore è invitato ad immergersi: gli si chiede "una presa di distanza, una levitazione, l'accettazione di un'altra logica che porta su altri oggetti e altri nessi da quelli dell'esperienza quotidiana (o dalle convenzioni letterarie dominanti)" (Calvino, 1970, p. 215).
Da questo punto di vista, tratto specifico e costitutivo del genere fantastico - se di genere si può parlare, dati l'enorme sviluppo e la differenziazione nel tempo degli esiti, per cui alcuni studiosi tendono a parlarne piuttosto come di un "modo narrativo" (Ceserani, 1983) - sembra essere l' infrazione e la "trasgressione" di un limite: come afferma Rosalba Campra, "la trasgressione appare... come l'isotopia che, attraversando i vari livelli del testo, permette la manifestazione del fantastico" (Campra, 1981, p. 226). Il concetto di trasgressione (5) apre convincenti prospettive soprattutto in relazione all'analisi della valenza e del potere conoscitivo del fantastico. Prendiamo in considerazione il livello delle tematiche: la Campra, proponendo una sistematizzazione e classificazione dei temi fantastici secondo categorie oppositive (concreto/astratto, animato/inanimato, io/altro, presente/passato/ futuro, qui/là), sottolinea che, a questo livello, "la natura del fantastico... consiste nel proporre, in qualche modo, uno scandalo razionale, in quanto non c'è sostituzione di un ordine con un altro, ma sovrapposizione. Da qui nasce la connotazione di pericolosità, la funzione di annientamento - o incrinamento, almeno - delle certezze del lettore" (Campra, 1981, p. 203) (6). Scandalo razionale, quindi, nell'esperienza del limite, nel varco di una frontiera, nell'irrompere di un elemento destabilizzante (7).
Ma forse c'è qualcosa di più: proprio mentre varca ed infrange il limite - tra naturale e sopra-naturale, tra tempo e spazio reali e tempo e spazio immaginati -, mentre viene condotto in un regno in cui non valgono più le normali categorie di identità o di rapporto causa-effetto, il lettore (ed il narratore insieme con lui) si trova contemporaneamente al di qua del limite, in una sospensione liminare: i territori del fantastico restano così definiti da un "punto", ideale frontiera di passaggio, luogo non misurabile che presuppone di continuo la coesistenza degli opposti, l'essere e il non essere, la coscienza e la perdita di coscienza, la coerenza e l'incoerenza, l'indicazione e l'evocazione, la realtà e la metafora.
In tal senso soprattutto, il fantastico assume una funzione non già puramente evasiva, ma costruttiva sul piano gnoseologico: investe i dogmi, scardina i limiti delle certezze, spiazza le attese del lettore, prospetta la possibilità di nuovi paradigmi ed interpretazioni del reale al di là di quelli riconosciuti dalla logica comune, insinua la componente del dubbio, travolge l'assuefazione a dare per certi i dati acquisiti, mette in forse i meccanismi stessi del conoscere. E tutto ciò, va sottolineato, per via contemporaneamente razionale ed analogica. Annota Lugnani: "Il racconto fantastico è anche, sicuramente e primariamente, una sfida e una avventura conoscitiva, ma bisogna intendersi bene. In ballo non sono tanto la relazione tra noto e ignoto e i possibili tragitti dall'ignoranza alla sapienza attraverso le lezioni, gli exempla veritieri e le rivelazioni di maestri dotti e illuminati, quanto il concetto e l'esperienza stessa del conoscere, che è dubitare molto più che sapere ed è perplessità molto più che certezza". L'esperienza fantastica si connota quindi come "uno stato di insicurezza e di vertigine intellettuale" (Lugnani, 1983b, p. 287). Ma se Lugnani insiste, in un altro saggio, sul "blocco gnoseologico", sulla paralisi del giudizio che sarebbe connessa al fantastico (Lugnani, 1983a, pp. 72-73) - un aspetto, questo, sul quale torneremo più avanti -, si può anche radicalizzare il discorso: dinanzi ad un testo caratterizzato dalla cifra del "perturbante", è l'intelligenza che ragiona su se stessa e, ripiegandosi, si pone il dilemma della sua esistenza medesima, della veridicità e accettabilità dei suoi intrinseci meccanismi di funzionamento, dell'esattezza o della fallacia della percezione, grazie al corto-circuito provocato dall'immaginario. Non tanto "stato assoluto di stallo" dovuto ad un insuperabile inceppamento del paradigma (Lugnani, 1983a, p. 72) quanto tensione dinamica verso un oltrepassamento possibile.
Dinanzi al lettore, collocato simultaneamente fuori e dentro lo specchio di Alice, in bilico tra due opposti livelli di realtà, indotto a chiedersi quale sia la verità e quale l'apparenza, quale la norma e quale l'infrazione, si spalancano campi sterminati: le praterie del possibile illuminate da due soli, in una nuova rivoluzione copernicana. E' l'intrecciarsi delle prospettive che costituisce così la specifica valenza del fantastico, in una sintesi biunivoca: da un lato, la prospettiva logico-razionale che consente, anzitutto, di fondare il patto (cioè di formulare, da parte dello scrittore, e di decodificare, da parte del lettore, il messaggio) e al cui interno ci si confronta con le ragioni dell'inverosimile; dall'altro, una prospettiva "diversa", che non si presenta solo come il riflesso speculare e rovesciato della prima - il mondo fantastico come "contro-senso del mondo quotidiano" (Maldiney, 1988, p. 211) - ma anche come una sua necessaria integrazione o al limite come un'alternativa intuibile. Essere e non-essere, essere "certamente" ed essere "probabilmente", bianco e nero che di continuo si intersecano, infiltrandosi l'uno nell'altro, rivelando "doppi" inquietanti: e il lettore nella zona d'ombra, la "zona perduta", che consente di raccordare, con sguardo obliquo, logos e mythos.
Puntando quindi su quella che Edgar Morin ha definito l' "unidualità" del pensiero - l'intreccio tra due modi, due forme, opposte e complementari, di pensiero-azione: pensiero empirico, logico, razionale da un lato e dall'altro pensiero simbolico, mitologico, magico (Morin, 1986) (8) -, il fantastico schiude le porte dell'interpretazione meta-logica del reale; e ciò attraverso un consapevole e sistematico ribaltamento e rimescolamento di codici e paradigmi, e, nello stesso tempo, mediante il ricorso ad indici e meccanismi costanti, individuabili al di là delle differenze di intreccio e di tematiche. Partiamo, per esemplificare, da quello che gli studiosi riconoscono in genere come uno degli schemi di base del racconto fantastico "classico": una prima parte è costituita dalla narrazione di un evento per così dire quotidiano, collocato sul piano della "normalità", in rapporto alla quale viene introdotto lo scarto, l'elemento incredibile, l'episodio fuori dalla norma; poi la sezione centrale, con l'evento inesplicabile in genere sottolineato da un cambiamento di segno, che Lugnani chiama "effetto soglia" (1983b, pp. 220-221); infine la conclusione, per lo più caratterizzata da un finale "ad effetto". Tre macrosequenze, quindi, che a prima vista appaiono connotate da differenti meccanismi. Ma attenzione: anche quando sulla scena irrompe l'elemento di infrazione del limite, l'oltre-reale, l'(apparentemente) impossibile, esso si presenta con dei caratteri di "riconoscibilità" immediata per il lettore: vale a dire che è costruito mediante elementi che appartengono alla normale esperienza fenomenologica, oltre che logica, anche se - e questo è un punto essenziale - diversamente combinati, stravolti e deformati, oppure trasferiti sul piano della negazione (già Caillois - 1965, p. 117 - affermava che l'universo del fantastico deve essere "perfettamente riconoscibile" perché l'impossibile che "ne costituisce l'essenza sopraggiunge all'improvviso in un mondo da cui è bandito per definizione"). Viceversa, il piano della (presunta) normalità viene caricato di cifre allusive, segnali premonitori dispersi ad arte nel tessuto narrativo, riferimenti impliciti ad un "diverso" sempre incombente nel reale, che anzi finisce per costituirne la struttura profonda, minacciosa ed incomprensibile. La visione si sdoppia, di più, si moltiplica, si sfaccetta secondo percorsi multipli, nella modificazione continua del piano prospettico: l'invisibile assume sostanza, il visibile perde gradualmente i contorni di definibilità, i piani si intrecciano per velari incrociati in dissolvenza, la rete delle intuizioni si coagula per sciogliersi subito dopo. E' vero anche - e soprattutto - per il fantastico quello che ha affermato Calvino parlando del rapporto tra filosofia e letteratura: "Di momento in momento ci aspettiamo che la filigrana segreta dell'universo stia per apparire in trasparenza: aspettativa sempre delusa, com'è giusto" (Calvino, 1967, p. 156).
La riconoscibilità dell'inverosimile e l'irriconoscibilità del verosimile: il "mostruoso" - l' impossibile, l'insolito, l'irreale - è costruito a partire da elementi familiari e consueti, diversamente combinati o evocati per negazione, sì da sortire un effetto perturbante, ma contemporaneamente esso proietta un'ombra destabilizzante sul familiare e sul consueto, al punto da renderlo irriconoscibile ed estraneo. Questa può definirsi la cifra portante nella simulazione dell'irreale: ma quale ne è il fondamento?
La scrittura simula il meraviglioso, scivola oltre il limite, "moltiplica gli spessori di una realtà inesauribile di forme e di significati", per utilizzare un'espressione di Calvino (1978, p. 323) ma sempre a partire da un nucleo di tangibilità e di concretezza: altrimenti sfuggirebbero le coordinate stesse dell'invenzione e della comprensione e non si stabilirebbero le corrispondenze - razionali ed analogiche - tra universo della scrittura, gli altri universi dell'esperienza, l'universo del possibile, l'universo della conoscenza. A questo riguardo si può dire, più in generale, che la scrittura fantastica è, come le altre forme di scrittura, un'interpretazione della realtà: anche nel dare corpo all'oltre, nel trasformare in immagine quello che è soltanto intuìto o creato dai meccanismi combinatori dell'intelligenza, si agisce necessariamente a partire dal nostro modo di vedere e di interpretare: di conseguenza, il prodotto finale dell'interpretazione tradisce, almeno indirettamente, i materiali da cui è originato e con cui è stato realizzato. Ciò non significa che i dati di partenza tratti dall'esperienza siano per così dire semplicemente "a disposizione" di un'arte combinatoria della mente: tale combinazione è appunto sempre interpretazione e richiede perciò quella che Maturana e Varela, analizzando il processo conoscitivo, chiamano "chiusura informazionale" (Maturana-Varela, 1980): i dati dell'esperienza, in questa prospettiva, non determinano l'atto interpretativo ma lo innescano soltanto. Il prodotto dell'interpretazione infatti non è causato dalla logica dell'oggetto della rappresentazione ma da quella dell'interprete, il quale lo elabora a partire dalla propria interna storia interpretativa e dalla riflessione di tale storia su se stessa (chiusura informazionale). Per questo motivo, ogni atto interpretativo, mentre rimescola e ricombina materiali preesistenti, nello stesso tempo produce novità: è cioè invenzione. Si sovrappongono qui delirio e conoscenza: ciò che noi conosciamo è sempre la proiezione sul reale dei nostri deliri e, di converso, le nostre immaginazioni emergono intrise di concretezza dal mare dell'esperienza.
La rappresentazione del fantastico e dell'incredibile si basa, come dicevamo, in prima istanza su dati ordinari e verosimili: ma intorno ad essi, a partire da essi si articola e si dipana, in modo concentrico e non sequenziale, un reticolo di immagini, fatti, avvenimenti in cui le normali distinzioni qui/là, io/altro, concreto/astratto, animato/inanimato, sono, più che annullate, superate in un circuito che non è illogico, ma teso a superare il puro razionalismo difensivo, secondo una logica differente. Per cominciare ad esemplificare, si può attingere al vastissimo materiale della zoologia fantastica. Sirene e sfingi, ippogrifi ed unicorni non esistono se non nel giardino zoologico delle mitologie: ma la condizione necessaria perchè abbiano cittadinanza nel pensiero è che siano composti di elementi e forme riconoscibili. In linea generale, la costruzione di animali fantastici è regolata da una molteplicità di procedimenti: si parte da esseri o oggetti reali per modificarli con la sottrazione di elementi - ad esempio, i nisnas o nesnas che compaiono nella Tentazione di Flaubert, che "hanno solamente un occhio, una guancia, una mano, una gamba, mezzo corpo e mezzo cuore" (Borges-Guerrero, 1957, p. 114); con l'aggiunta o la moltiplicazione di elementi - esseri con tre teste, come il Cerbero della mitologia, con quattro occhi, come i cani di Yama, dio bramanico della morte, con cento braccia come Briareo e così via -; per ingrandimento di dimensioni - dal "roc" delle Mille e una notte, uccello gigantesco, immagine dilatata dell' aquila o dell'avvoltoio, a Moby Dick-; per spostamento o capovolgimento di elementi rispetto all' ordine normale - esseri con la testa sul dorso o le braccia al posto delle gambe -; per abnorme dilatazione di un elemento singolo - emblematico il caso della mano mostruosa e semi-materializzata che con la sua presenza minacciosa terrorizza gli abitanti di una casa nel racconto The Gateway of the monster (1911, trad. it. L'anello ) di William Hope Hodgson -; per combinazione di elementi eterogenei, cioè per ibridazione. Questo è il procedimento più comune, che sovente si interseca con gli altri sopra citati: i "mostri" nascono fondamentalmente per dissociazione e combinazione di elementi di esseri reali, sono "insiemi compositi le cui parti eterogenee sono tratte da corpi appartenenti a regni diversi, animale, vegetale, minerale, umano" (Maldiney, 1988, p. 205).
Anche quando volutamente il narratore insiste sul carattere di irrealtà dell'essere fantastico, mantenendolo nello spazio dell'ambiguità e dell'evanescenza, non può fare a meno di ricorrere a forme che si possono pensare, a particolari che in qualche modo ricadono nell'ambito dell'esperienza comune. Il meccanismo, apparentemente semplice, soprattutto quando si tratta di un procedimento di ibridazione, nasconde però, come accennavamo, sovrapposizioni di senso. Esempio emblematico può essere l'Odradek di un famoso racconto di Kafka, Die Sorge des Hausvaters (1920, trad.it. Il cruccio del padre di famiglia ). Si tratta di un testo complesso e aperto a molteplici interpretazioni: non ci soffermiamo, in questa sede, sulla possibilità che Kafka alluda qui alla sua esperienza di vita e che quindi esista un'intima identità tra l'Odradek e l'autore, che in questa figura proietterebbe aspetti del proprio mondo interiore e che, a livello profondo, e dando l'impressione di parlare di tutt'altro, discuterebbe della sua scelta di essere scrittore (cfr. Baioni,1976, p. 25 e passim ). Le diverse letture, non solo di tipo biografico, ma anche sociologico (l'Odradek come figura dell'uomo-massa), storico, psicanalitico, se illuminano la zona delle motivazioni plausibili del testo kafkiano, ne rimangono tuttavia per così dire "all'esterno". Non a caso, Borges, con un gesto all'apparenza ingenuo, inserisce l'Odradek nel suo Manuale di zoologia fantastica (Borges-Guerrero, 1957, pp. 115-116), indicando in questo modo una direzione interpretativa che riteniamo possa essere scrupolosamente percorsa. Quello che ci preme è analizzare i procedimenti ed i meccanismi con cui in sede letteraria prendono corpo e vengono rappresentati gli esseri "fantastici "e soprattutto mostrare la densità di significazioni che a tutti i livelli fermentano in un testo che non fa appello a convenzioni realistiche.
Odradek inizialmente viene descritto come un essere che "sembra.. una specie di rocchetto da refe piatto, a forma di stella, e infatti par rivestito di filo: del resto potrebbero essere soltanto frammenti di filo, sfilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati fra di loro e di qualità e colore più diversi.... dal centro della stella sporge di traverso una bacchettina, a questa bacchettina se ne aggiunge poi ad angolo retto un'altra. Per mezzo di quest'ultima bacchetta da una parte, e di uno dei raggi della stella dall'altra, il tutto riesce a stare in piedi, come su due gambe" (Kafka, 1920, pp. 65-67). La precisione definitoria, l'ansia quasi scientifica con cui vengono accumulati i particolari, per dare un'impressione di verosimiglianza (tra similitudini con oggetti concreti - il rocchetto, la stella, la bacchetta - e correzioni della rappresentazione) è un'illusione prospettica: la descrizione rimbalza su se stessa, il riferimento sotteso è nient'altro che il vuoto. Proprio mentre il lettore comincia a credere di potersi costruire un'immagine mentale dell' animale - ammesso che di animale si tratti -, ecco che intervengono indizi contraddittori: la geometria dell'insieme non tiene, i segnali si moltiplicano e contemporaneamente non rimandano a nulla di raffigurabile. Nella struttura della percezione si è insinuato il virus del perturbante che fa deragliare le attese. Ma il gioco continua, in un ossessivo intersecarsi di definizioni incredibili e dichiarazioni di attendibilità: il narratore confessa che "non si può dire nulla di più preciso, perchè l'Odradek è mobilissimo e non si lascia prendere". Tante volte, incontrandolo sulle scale, "viene voglia di rivolgergli la parola" (ma lo si fa? Parrebbe di sì, a giudicare dallo scambio di battute che viene riportato, ma i segnali linguistici insinuano il dubbio che si tratti di un' allucinazione); "naturalmente" (e l'avverbio allude ad un'esperienza universale e consueta, ad una situazione paradossalmente ovvia) non gli si fanno domande difficili, anzi lo si tratta come un bambino: "e la sua minuscola consistenza ci spinge da sola a farlo" annota il narratore, aggiungendo un altro particolare possibile all'impossibile descrizione. L'Odradek parla con parole umane, rivela il suo nome e ride: ma - di nuovo la rettifica che confonde e sconcerta - "è una risata come la può emettere solo un essere privo di polmoni. E' un suono simile al frusciare di foglie cadute" (ivi, p. 67).
E' sufficiente una rapida campionatura del materiale linguistico per individuare la struttura dei procedimenti simultanei di costruzione e de-costruzione della rappresentazione: da un lato, la frequenza di verbi come "sembra" e "appare", (sieht, scheint, erscheint ) in serie con locuzioni del tipo "si sarebbe tentati di credere" (Man ware versucht zu glauben), "almeno non si ha alcun indizio in questo senso" (wenigstens findet sich kein Anzeichen dafur) ; dall'altro, l'iterazione dell'avverbio "naturalmente" (naturlich) che rovescia l'irreale della percezione dubbiosa di sé; infine, l'anafora incrociata di sintagmi come "a volte" (manchmal) e "non sempre" (nicht immer) che, mentre alludono ad un evento che si ripete, ne sfumano fino all'estremo limite la dimensione temporale. Per non parlare della discussione, in apertura di racconto, sull'etimologia incerta della parola "Odradek" con il commento successivo, che spiazza e sconcerta per la duplicità del riferimento: "Naturalmente nessuno si darebbe la pena di studiare la questione, se non esistesse davvero un essere che si chiama Odradek" (ivi, p.64). Indicazione ed evocazione si compensano e compenetrano in uno scambio che apre le porte del visionario: nel duplice senso, richiamato da Todorov, per cui la visionarietà è intesa sia come grado superiore del vedere sia come falsa visione e negazione del vedere stesso (Todorov, 1970, p. 127).
Esempi di questo tipo, sia pure non costruiti con la magistrale sapienza di Kafka, si rintracciano in moltissimi testi fantastici: un cenno merita almeno, in questa sede, il racconto Il colombre di Dino Buzzati (1961). Nella vita di Stefano Roi, il protagonista, che manifesta fin dall'adolescenza una forte vocazione alla vita marinara, compare d'improvviso un mostro, dalla cui incombente presenza egli sarà perseguitato per tutta la vita: salvo a scoprire, in punto di morte, che il terribile animale lo ha inseguito per incarico del re del mare, allo scopo di consegnargli una perla magica, capace di dare, a chi la possegga, "fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo". Certo, la vicenda è chiaramente allusiva e simbolica - lo stesso Buzzati definisce il racconto "un'allegoria del solito tema dell'uomo che si è completamente sbagliato nella vita" (Panafieu, 1973, p.154) - e il colombre è una personificazione trasparente; la rappresentazione cioè rimanda ad un significato che attiene alla psicologia del profondo e che non è difficile rinvenire sotto la piega fiabesca. La presenza di un simbolismo evidente o addirittura di un sovrasenso allegorico, secondo alcuni, a cominciare da Todorov (1970, p. 47) (9), inficia o limita considerevolmente la natura fantastica di un testo. Ma non è questa la sede per approfondire la questione o per soffermarsi sullo specifico del fantastico buzzatiano; ci preme soltanto sottolineare i procedimenti con cui la cifra dell'oltre-reale e dell'inverosimile si presenta sulla scena e gli elementi che ne consentono un'interpretazione "doppia" cioè non lineare o monodimensionale, favorendo l'apertura conoscitiva.
Inizialmente, agli occhi del ragazzo al suo primo giorno di mare, il mostro appare come "una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave" (Buzzati, 1961, p.650). E' il padre a spiegargli che si tratta di un colombre, "il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo" (ivi, p.651); esso, secondo la convinzione diffusa - e che Stefano scoprirà alla fine non veritiera-, sceglie per motivi incomprensibili la sua vittima e la insegue fino a che non riesce a divorarla. Un essere in cui si fondono tratti 'riconoscibili' con caratteristiche fantastiche: "è uno squalo tremendo e misterioso, più astuto dell'uomo", con "muso da bisonte", "bocca che continuamente si apre e si chiude", "denti terribili" (ivi): nella descrizione, come si vede, sono accortamente fusi elementi che consentono al lettore di costruirsi un'immagine mentale precisa del mostro marino, ricondotto ad uno squalo, ed elementi che ne sfumano la connotazione realistica. Il procedimento di de-costruzione arriva al limite quando il padre rivela a Stefano che "nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue" (ivi). Il pesce "sinistro" non ha dunque consistenza fuori della "visionarietà" concessa alle vittime predestinate: visionarietà che si presenta insieme come una dannazione ed un privilegio. Ma il visionario, cui è attribuita la capacità di superare il solido muro della consistenza, non è in grado di decifrare i segni ed i messaggi che provengono dall'oltre-reale: vede, percepisce, ma non capisce perché è offuscato dalle convinzioni diffuse, dalle superstizioni (in questo caso simboleggiate dalla leggenda che i marinai hanno costruito intorno al colombre): una visionarietà mancata, dunque, per difetto di coraggio e di autonomia.
Le attese consapevoli del protagonista, e con lui del lettore, risultano spiazzate: sulla linea del meraviglioso le polarità si invertono, i significati slittano a seconda dell'angolo visuale, i segni apparentemente univoci consentono un'interpretazione ambivalente; nell'opaca densità del reale si aprono degli squarci che offrono una via d'uscita dalla limitatezza di ogni rappresentazione e di ogni giudizio. Qui veramente, e ben al di là del sovrasenso allegorico e dell'intonazione didascalica, sta la valenza conoscitiva di un testo come questo: nel suggerire inquietanti possibilità di transcodificazione dei dati esperienziali secondo prospettive che si aprono l'una dentro l'altra e non l'una in successione all'altra; nel configurare la necessità di ricostruire una leggibilità del mondo secondo un diagramma non lineare; nel chiudere sia pur provvisoriamente il circuito tra pensiero semantico, che distingue logicamente, e pensiero simbolico, che congiunge ed unifica, tra razionalità ed analogia; nel ricomporre la polarità di quello che Edgar Morin ha definito "doppio pensiero" (Morin, 1986, pp. 172 sgg.).
La rappresentazione letteraria di mostri ed esseri fantastici - considerata qui a titolo esemplificativo come indice dei procedimenti e dei meccanismi tipici del genere - si presenta dunque in prima istanza come costruita sulla dialettica interna, significativa sul piano gnoseologico, di dati reali, dati verosimili, dati di immaginazione e di intuizione, procedimenti di interpretazione. La commistione di elementi, nell'oscillazione tra presunzione di verità e presunzione di apparenza, varia ovviamente, a seconda dei testi e degli autori, da un massimo ad un minimo di riconoscibilità. A titolo di suggestione, e per approfondire le linee del discorso, ci limitiamo a prendere in considerazione alcuni casi tipici nell'ambito della letteratura fantastica del moderno. Cominciamo con la orribile mitologia cosmica di Lovecraft. Ad esempio, i pesci-rana de The Shadow Over Innsmouth (La maschera di Innsmouth) : " Erano di colore verdastro e avevano il ventre bianco. La loro pelle sembrava lucente e liscia, ma la loro schiena era coperta di squame. Il corpo vagamente antropoide terminava con una testa di pesce dagli occhi sporgenti, sempre aperti. Sui lati del collo, sotto le orecchie, si aprivano delle branchie palpitanti, e le loro lunghe zampe erano palmate. Avanzavano a salti irregolari, ora su due zampe ora su quattro" (Lovecraft, 1931, p.238). Qui, a differenza di quanto accade in molti altri racconti di Lovecraft, in cui l'essere 'alieno' viene evocato per negazione o grazie al potere allusivo di determinati particolari - il fetore - o di parole come "cosa", "gelatina", "melma", l'ambiguità è quasi nulla. All'allusività si sostituisce la forza straniante della precisione, il lettore non è chiamato a fare supposizioni e a compiere inferenze sulla figura degli esseri mostruosi, giacché nessun particolare è taciuto: le creature teratomorfe di questo obbrobbrioso panteon, che costituiscono la personificazione dell'abominio, degli indicibili abissi di orrore di un universo concepito come sede di forze cieche, sono visualizzate e descritte col massimo del particolare; siamo faccia a faccia col terrore, che si fisicizza e si materializza quanto più sembra indefinito. La figurazione "gotica" del mostro - divinità rovesciata, malvagia per definizione, eterna perchè fatta "d'una materia così corrotta e degenerata che ogni degenerazione ulteriore è impossibile" (Fruttero-Lucentini, 1994, p. VIII) - è costruita per accumulazione parossistica di tratti, per ridondanza.
Per converso, si può dare il procedimento opposto, in cui la percezione e la descrizione dell'orrido e del mostruoso avviene per negazione ed annullamento: negazione ed annullamento di caratteristiche, che costituisce un caso particolare nella categoria della riconoscibilità. Esempio emblematico, Le Horlà di Guy de Maupassant (1887). L'essere mostruoso che minaccia il protagonista-narratore, che lo insegue e lo ossessiona, fino a spingerlo ad incendiare la propria casa per liberarsi dal "nemico", è invisibile, non localizzabile e non nominabile: un essere "che non può definirsi se non come la non-identità, ad un tempo presente e assente, dentro e fuori, 'hors-là' (fuori di là)" (Milner, 1982, p. 120). Il nome che gli dà il narratore " deriva dall'impossibilità di nominarlo nel linguaggio degli uomini, di situarlo (fuori o là) nello spazio che crea le distanze e conferma le identità" (ivi, p. 125). Il mostro non si rivela alla percezione diretta, si sottrae a qualsiasi possibilità di essere visto ma è presente: c'è e non c'è simultaneamente, contro ogni regola di logica, anzi è un vuoto, "un niente ubiquo" (ivi, p. 120) che riesce a manifestarsi proprio per la sua cifra negativa: è, insomma, un mostro potenziale, la mostruosità quasi in essenza ed in astratto. Come è stato rilevato di frequente, con ogni probabilità si ha qui a che fare con uno straordinario caso di patologia mentale, per il quale Maupassant utilizzò anche la propria esperienza di malato: tuttavia, al di là della matrice autobiografica, al di là anche dell'ambiguità che caratterizza in modo magistrale il racconto (attraverso l'alternanza tra elementi finalizzati a presentare il narratore come inattendibile ed elementi atti a provare in modo indiscutibile l'esistenza dell'essere mostruoso), il testo è sostenuto da una lucida premessa concettuale: in discussione è l'assenza di fondamento della razionalità e del modo con cui ci si pone in rapporto con il reale. In maniera esplicita e con affermazioni disseminate ad arte lungo il racconto, si dibatte della limitatezza della percezione, che disvela solo parte della realtà, si insinua il dubbio circa la facoltà dell'uomo di demarcare con sicurezza il confine tra ciò che ha spessore e ciò che non ne ha, tra ciò che ha un contenuto oggettivo e ciò che ha solo un contenuto immaginativo: l'esperienza sensibile è incompleta, imperfetta e fallace, alle sicurezze positive e scientifiche subentra l'orrore dell'impossibilità di tener fede agli schemi di riferimento consueti, che si credevano oggettivi ed immutabili. E ciò a partire dai dati stessi delle vicende del quotidiano:

" Seguitavo a pensare: il mio occhio è così debole ed imperfetto che non riesce nemmeno a distinguere i corpi duri se sono trasparenti come il vetro! Basta che un vetro limpido, senza l'amalgama che lo rende specchio, si trovi davanti a me: non riuscirò a vederlo e mi ci getterò contro come l'uccello penetrato in una camera va a battere contro i vetri della finestra. Mille e mille altre cose l' ingannano, lo disviano. Non c'è da stupirsi che non riesca a scorgere un corpo nuovo che possa essere traversato dalla luce" (Maupassant, 1887, pp. 461-462).

Al vuoto che penetra in ogni dove e si insinua come una sottile minaccia nel pieno tranquillizzante della casa e della stessa dimora interiore, si attribuiscono tuttavia, paradossalmente, delle azioni: il mostro beve, ma non sangue - il che lo collocherebbe nella categoria dei vampiri e ne fornirebbe quanto meno un'immagine già in qualche modo codificata - bensì acqua o latte. Non solo, può toccare le cose, prenderle e mutarle di posto: coglie ad esempio una rosa con mani invisibili:

"....vidi, chiarissimamente, vicino a me, il gambo d'una di queste rose piegarsi come se una mano invisibile l'avesse torta e poi spezzarsi come se la medesima mano l'avesse colta. La rosa si innalzò seguendo la curva che avrebbe descritto un braccio portandola verso una bocca, e restò sospesa nell'aria limpida, da sé, immobile, spaventevole macchia rossa a tre passi dai miei occhi!" (ivi, pp. 454-455).

Si tratta di un passaggio centrale: infatti, nell'episodio viene messa in discussione non solo e non tanto la verità della percezione, quanto la sua completezza: l'oggetto del vedere è in questo caso l'azione, che il narratore segue nel suo compiersi senza riuscire a coglierne la sorgente: l'effetto si dà senza la causa, il limite è varcato, il sistema di controllo cognitivo (osservazione, valutazione, inferenza, decisione) è destrutturato nella sua logica consuetudinaria. Il risultato è anzitutto quello di uno spiazzamento gnoseologico ma il testo suggerisce cifre interpretative più profonde. Dal punto di vista del narratore, e ancor più del lettore, le azioni, concepite come indizi, generano un sistema di attese, che conducono ad ipotesi sulla struttura corporea dell'essere: se il mostro beve, allora avrà un organo che somiglia ad una bocca; se tocca gli oggetti, si può supporre che sia dotato di qualcosa che somiglia ad una mano: congetture non confermate dall'esperienza, da cui deriva tuttavia un'immagine mentale del mostro, ma - questo è il punto - frantumata e disgregata. L'Horlà non si costituisce come una figura unitaria e riconoscibile nella sua totalità, ma come un insieme sconnesso di parti che si stringono attorno ad un vuoto; e alla scomposizione dell'unità del soggetto-invasore risponde la frantumazione e dispersione del soggetto psicologico.
La conclusione dell'episodio che stiamo analizzando introduce un ulteriore motivo perturbante: il protagonista cerca di afferrare la rosa che si libra, sospesa, davanti ai suoi occhi, ma le sue mani afferrano solo aria:

" Fuori di me, mi gettai su di essa per afferrarla. Non presi nulla: era scomparsa.... Ma si trattava davvero d'un' allucinazione? Mi voltai per cercare lo stelo e subito lo ritrovai sul rosaio, spezzato di fresco, fra le altre due rose attaccate al ramo" (ivi, p. 455).

Il vuoto agisce nullificando, trascinando gli oggetti della percezione nella sua irrealtà, cancellando le trame stesse dei segni dotati di senso. Il processo giunge al culmine nella scena dello specchio, vero punto focale del racconto: il protagonista avverte la presenza nemica alle spalle e, quando si volta di scatto, con le mani tese, per affrontarla, si accorge con terrore che lo specchio non rimanda più la sua immagine:

" C'era luce come in pieno giorno, eppure non mi vidi, nello specchio!... Era vuoto, limpido, profondo, pieno di luce! Ma la mia immagine non c'era! Ed io ci stavo di faccia, vedevo il gran vetro nitido, da cima a fondo; lo fissavo con gli occhi sbarrati, e non osavo né fare un passo né muovermi, certo che ci fosse lui, che mi sarebbe ancora sfuggito, mentre il suo corpo impercettibile aveva assorbito la mia immagine" (ivi, p. 463).

L'Horlà, essere privo di consistenza, divora l'immagine riflessa nello specchio, grazie alla quale l'individuo dovrebbe prendere possesso della propria identità: come afferma Milner (1982, p. 23) "ciò che viene messo in causa... è il rapporto dell'uomo con la propria immagine, e la possibilità che egli ha di riconoscervisi come soggetto indipendente ed autonomo". Il protagonista-narratore "vede... l'assenza del proprio riflesso, come dire che l'Horlà è lui stesso, ma lui stesso assente, cancellato dal mondo dei vivi" (ivi, p. 126); di più, vede qualcosa che è proiezione negativa di sé. E' una chiave di lettura importante, questa, per identificare i meccanismi con cui la riconoscibilità si afferma quale fondamento del fantastico nella sua valenza cognitiva: come abbiamo dimostrato, all'interno della narrazione fantastica personaggi ed eventi si costruiscono nell'intersezione tra dati reali, dati verosimili e dati immaginativi, con conseguenti variazioni e slittamenti di senso. Ma da dove deriva tale riconoscibilità, non banale ma perturbante? Proprio dalla dialettica tra coscienza di sé e coscienza di sé negata: dialettica che in modo esemplare si ritrova ne Le Horlà.
Gli esseri mostruosi, di cui sono popolati il mito e la letteratura fantastica - sia pur con differenze notevolissime di significazione e spessore tra i due ambiti - traducono dunque in maniera paradigmatica la tensione dialettica tra partecipazione e distanziamento, tra il visibile e il possibile, tra ciò che è considerato normale e ciò che viene percepito come alieno; ipostatizzano, nella forma dell'ibridazione, il conflitto tra l'umano e l'extra-umano, tra la verità, approssimativa e di continuo suscettibile di aggiustamenti, quale si disvela all'esperienza, e l'interpretazione, necessariamente allusiva ed ambigua. Che incarnino il prodigioso proiettato nell'outspace, la variabile di alterità percepita in uno spazio esterno al soggetto, oppure il mistero degli orizzonti interiori dell'inconscio, la deformità assorbita nel soggetto, essi manifestano in modo macroscopico la saldatura tra le dimensioni dell'esistere e del conoscere.
Con i suoi mostri, la letteratura fantastica del moderno si collega alla cultura antica, in cui il teras è il segno dell'enigma e del prodigioso per eccellenza, che il sapiente è chiamato ad interpretare e a decifrare: esso "segnala l'infrazione di un ordine, l'apertura di uno iato nell'ordine del sapere" (Bologna,1980, p. 557): per questo, "non si dà teratologia, nella cultura antica, che non abbia per qualche verso rapporto con la conoscenza delle cose oscure, che non sia anzitutto scienza dell'ermeneutica" (ivi, p. 558). E' vero che sovente, nell'arte moderna, i significati risultano banalizzati; è vero che, come rilevano alcuni studiosi, le rappresentazioni di esseri "anormali" - specialmente nella fantascienza- alludono soprattutto ad una proiezione esterna di scissioni interiori, di cui è possibile controllare così la virulenza (Jacobelli, 1970, p. 61); tuttavia, al fondo, il mostruoso continua ad essere indicatore di un'eccedenza semantica, portatore di una significazione che scatena il dramma ermeneutico, segno che allude metaforicamente ad una conoscenza "altra": del reale, vero labirinto inestricabile in cui l'inverosimile si nasconde nelle pieghe del quotidiano - rassicurante e perciò fallace -, e di se stessi.


2. Effetti di sospensione nelle categorie conoscitive


Superando i confini dell'oggettività matematizzante, la macchina narrativa del fantastico taglia la realtà come una lama; si spinge negli universi brulicanti e stratificati del possibile insinuando dubbi sulle certezze dell'evidenza e sulla correttezza dei paradigmi interpretativi; crea dei vuoti là dove sussisteva la tranquilla compattezza dei pieni. Lucio Lugnani afferma che "il racconto fantastico funziona in tanto in quanto il lettore implicito viene alla fine lasciato solo, nel silenzio e nell'irresolutezza, a fissare una irresolubilità che intacca i codici e le certezze paradigmatiche" (Lugnani, 1983a, p.71). Lo studioso arriva alla conclusione che "all'origine dell'atto di narrazione fantastico e al fondo dell'atto di lettura fantastico c'è il blocco gnoseologico che deriva da questa inesplicabilità" e parla perciò di "dubbio gnoseologico assoluto" (ivi, p.72) o di "paralisi del giudizio" (Lugnani, 1983b, p.266); noi, sulla base di una suggestione di Goggi (1983) (10), preferiamo avanzare l'ipotesi che l'effetto sia quello di una sospensione, veicolata dal turbamento: si sospende la fiducia negli schemi compiuti dell'architettura razionale, che pure continuano ad agire nel profondo; si sospende, in virtù di uno scatto in avanti della conoscenza, il consenso, normalmente dato per scontato, alla demarcazione sì/no, vero/falso; alla fissità dei fatti come sono o come appaiono si sovrappone il movimento vorticoso degli eventi che potrebbero essere; la lineare disposizione dei fenomeni subisce una significativa curvatura verso il profondo, aggrovigliandosi su se stessa a spirale. Davanti all'inesplicabile il lettore "è indotto a dubitare della validità e adeguatezza del paradigma di realtà come codice culturale e assiologico e come meccanismo di conoscenza e interpretazione del mondo" e perciò sperimenta "lo smarrimento di chi è finito in un vicolo cieco e non può tornare sui propri passi" (Lugnani, 1983a, pp.72-73), è vero, ma al tempo stesso lo smarrimento e il disorientamento allargano la prospettiva conoscitiva e proiettano verso un superamento dell'impasse con l'elaborazione di nuove categorie. Insomma, il fantastico "sospende" la fiducia non tanto nel reale quanto nel verosimile, poiché mette in discussione non i fatti ma le categorie con cui i fatti vengono interpretati; la sua valenza cognitiva sta proprio nel produrre categorie nuove che interpretano gli eventi e quindi producono nuova realtà.
Il fantastico attiva così un movimento dinamico, onde di intermittenza che creano un nuovo sistema: superata la soglia della verosimiglianza, lacerato il velo della possibilità, non si può che tentare - vanamente - di ri-verificare il senso della vicenda narrata, come con un velocissimo riavvolgersi del nastro. Poiché il procedimento indiziario non sortisce effetto di quadratura, alla luce di "regole" codificate, si produce l'accettazione dello scarto, che a sua volta genera un nuovo equilibrio: nello sdoppiamento cambia l'orizzonte di attesa, si compie il circolo dell'autoreferenzialità.
Il concetto di sospensione, in tal senso, è utile a rimarcare la valenza positiva e costruttiva dello sconvolgimento provocato dal fantastico all'interno dell'architettura razionale consuetudinaria. Esso non solo lacera ma "apre" anche le vie della ragione, che non sono visibili fino a che la sua struttura appare rigida e immobile come il cristallo; il fantastico rompe cioè le simmetrie che costituiscono l'intelaiatura logica della razionalità. E' evidente che l'ordine simmetrico di per sé non è modificabile, come non è modificabile la struttura del cristallo; d'altra parte invece la ragione possiede un suo dinamismo, si modifica, arricchisce i propri contenuti e rende più complessa la propria forma; essa cioè cambia nel tempo. Come è possibile ciò ? Il dinamismo della ragione non può essere giustificato con il suo ordine statico, il quale anzi rende invisibili le sue stesse possibilità; occorre allora ipotizzare che nel cuore della stessa ragione vi sia una potenzialità di "essere altrimenti" (11), che si può dire affondi le proprie radici nella funzione di sospensione dell'ordine razionale costituito: funzione realizzata appunto dal fantastico. Del resto, come osserva Ceserani, gli autori del fantastico hanno anticipato vagamente nelle loro dichiarazioni sul genere ed esplorato pienamente nei loro racconti "la concezione della vita interiore dell'uomo come stratificata verticalmente e il riconoscimento dell'esistenza simultanea, legittima e inquietante di esperienze e discorsi contrapposti e contraddittori" (Ceserani, 1983, p. 14).
Un'ulteriore precisazione: lo stato di sospensione che ci sembra caratteristico del fantastico si pone su di un piano diverso rispetto al concetto di hésitation proposto da Todorov. Come è noto, lo studioso sostiene che elemento fondante del fantastico è l'esitazione tra due diverse spiegazioni, costruita dall' autore attraverso l'intreccio: "In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l'avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un'illusione dei sensi, di un prodotto dell'immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l'avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote... Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza... Il fantastico è l'esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale" (Todorov, 1970, p. 26). Sulla base di tale definizione, Todorov costruisce una tassonomia dei generi, segnando una distinzione tra "fantastico" da un lato, "strano" (che si basa su di una spiegazione razionale degli eventi) e "meraviglioso" (il racconto del sovrannaturale accettato) dall'altro. Ora, è chiaro che il concetto di "esitazione", anche a volerlo intendere nel suo significato più ampio, non coincide con quello di "sospensione" da noi proposto: è vero che molte opere coltivano, addirittura tematizzano l'esitazione tra un'interpretazione patologica dei fatti e l'ipotesi di una sovversione dell'ordine naturale, tra l'attribuzione della vicenda "scandalosa" ad un sogno o ad un'allucinazione e la postulazione di un evento straordinario; e ciò avviene soprattutto quando la narrazione è condotta in prima persona, con l'identificazione tra io-narrante e protagonista, meccanismo "che ha il fatidico dono di contaminare di dubbio l'esistenza stessa dell'evento" (Campra, 1981, p. 212). Chiave del fantastico non ci sembra però l'atteggiamento psicologico soggettivo del dubbio sul "come" si sono svolti i fatti, dell'incredulità, cioè della "esitazione" o incertezza tra due strade contraddittorie tra loro (e tantomeno tra una spiegazione naturale ed una sovrannaturale degli avvenimenti narrati) che si presentano improvvisamente alla coscienza (di un personaggio del racconto e/o del lettore), quanto piuttosto l'arco che congiunge strutturalmente e oggettivamente queste due strade: l'una che va in direzione del 'dato', l'altra che va in direzione dell'inverosimile, dell'inspiegabile, dell'indecifrabile. Di conseguenza, la sospensione che caratterizza la dimensione del fantastico si presenta come una relazione di tipo epistemologico tra due modalità diverse della conoscenza; è il terreno sul quale si realizza un dinamismo di significati che in altre dimensioni è presente ma non costitutivo. Considerare il fantastico come arco che congiunge il reale, o meglio l'effettuale, con l'incredibile significa semplicemente dire che è al suo livello che tale rapporto rimane stabilmente e strutturalmente caratterizzato.
Se il fantastico parte dal reale e se ne nutre, dunque, finisce per rimescolare in tavola le carte della percezione; "...fa giocare la natura delle cose e risveglia la fertilità dell'ambiguo" (Resnik, 1988, p. 80). E' movimento vivo che, attraverso la sospensione, dinamicizza la ragione e fa approdare ad una dimensione dalla quale è possibile "vedere con nuovi occhi" (Musil, 1976, p.735). In altri termini, la ragione viene strappata a se stessa e trascinata lontano, deraglia dai binari consueti, vede rompersi le simmetrie; ma dal "disordine" logico - la sospensione - si genera un nuovo equilibrio a livello superiore: dopo aver danzato sull'abisso, la ragione ritorna a se stessa e ri-fonda il reale nella direzione della complessità. Dall'esperienza del "limite", caratteristica del fantastico, non deriva una sconfitta conoscitiva, al contrario: la presa di coscienza del fatto che non si dà un'esauriente, ordinata, totalizzante sistemazione dell'essere in termini logici genera per converso un'immagine vertiginosamente seducente del reale: inesauribile e dilatabile all'infinito, aperto su mondi possibili, esso costituisce una sfida "creativa" cui accingersi con nuovi strumenti e, vorremmo dire, nuova razionalità: una razionalità che non può servirsi solo di valori assiomatici, modalità oggettive, rapporti necessitanti e verificabili, procedure lineari, ma anche di evocazioni, raccordi unificanti, coaguli analogici.
Finzione al quadrato, "apoteosi della bugia" (Albertazzi, 1993, p.56), il fantastico "ricade" così quasi paradossalmente nel reale; impastando elementi in varia guisa riconoscibili, modificandoli e sovvertendone l'ordine tramite l'allusività e l'illusione, proietta l'immagine che ci siamo fatta del mondo - che lo scrittore e il lettore hanno del mondo - in una sfilata di specchi: non gioco ottico, ma visione centuplicata e allargata, che si oppone a quella sorta di Medusa pietrificatrice che è la realtà quale la percepiamo con gli strumenti del logos . Lungi perciò dal postulare semplicisticamente una fuga o un'evasione nei meravigliosi mondi dell'immaginario, esso fornisce una chiave per prendere le distanze da quelle che Calvino ha definito "le sabbie mobili dell'oggettività" (Calvino, 1960, p. 44); introduce una spinta contraria, dalla quale può prendere origine lo scatto critico, il barlume di una coscienza che simultaneamente aderisce alle pieghe del mondo e lo comprende dall'interno da un lato e dall'altro si proietta al di fuori, ragionando su di esso. Ciò perché il fantastico è per eccellenza campo generatore di tensioni: tra partecipazione e distanziamento, identificazione e rigetto, su cui la sospensione getta un ponte percorribile ad ogni momento nelle due direzioni.


3. La fantascienza: verso la ricomposizione della polarità figura-sfondo


La fantascienza può essere considerata come un genere letterario, per giunta minore, che svolge semplicemente la funzione di proiettare all'esterno angoscianti conflitti interiori, tipici di una società antagonistica e complessa (12)? Può quindi essere ricondotta ad una sorta di "disincantamento" del fantastico, che non sarebbe più una via verso il mistero, verso l'alterità ma, per dirla con Foucault, una maniacale ripetizione dell'Identico (Foucault, 1966, p. 353) e cioè un insieme di pure espressioni simboliche della banalità quotidiana? Ad esempio, si può dire che i mostri spaziali siano la rappresentazione del "nemico" in epoca di guerra fredda o che le allucinazioni di un autore come Dick siano la raffigurazione di una situazione "schizofrenica"? E' quanto sostengono molti studiosi e si tratta solo di uno dei modi in cui la questione della science fiction viene affrontata in sede critica.
Confinata nella paraletteratura (13) o rubricata come esempio di "letteratura dell'epoca post-industriale", ridotta a forma ibrida, che solo per ipostasi contenutistica può essere collocata nel novero dei generi, comunque separata e distinta dalle manifestazioni artistiche "alte", la fantascienza sconta a livello di esegesi uno strano destino: da un lato si riconosce che utilizza, manipola, fonde i meccanismi tipici del fantastico, aggiornandone le tematiche e proponendo una decisa curvatura verso le innovazioni scientifico-tecnologiche, sì da presentare dei confini abbastanza ben demarcabili (14); dall'altro dal fantastico viene sovente esclusa, per differenti motivazioni (15) e considerata come una forma artistica a funzione fondamentalmente evasiva e ludica. A nostro parere, tuttavia, la fantascienza non può essere considerata come una banalizzazione del mito in chiave psicologica, nè come genere neutro dal punto di vista della valenza cognitiva: al contrario, essa si presenta, a ben guardare, come una delle strade oggi percorribili verso il mistero, giacché, attraverso le sue costruzioni, genera un lavoro ermeneutico in direzione di ciò che è "altro".
In via preliminare, occorre cogliere le categorie unificanti del genere fantascientifico, analogamente a ciò che è stato fatto per il mito, la favola e così via. Le categorie dominanti ci sembrano due: da un lato quella del "non-umano", dall'altro quella della "macchina": si potrebbe addirittura fare una storia della fantascienza attraverso l'analisi dei tipi di macchine che, di tempo in tempo, hanno costituito il perno della narrazione e ne hanno determinato i meccanismi e dire, ad esempio, che ad una fantascienza centrata sulla figura della macchina/nave spaziale è succeduta una fantascienza centrata sulla figura della macchina/ robot umanoide, per giungere infine ad una fantascienza centrata sulla macchina /congegno elettronico. Parallelamente, si potrebbe seguire questo percorso analizzando i tipi di antagonisti (doppi) delle corrispettive macchine: si andrebbe così a verificare che alla stagione dei mostri alieni (in corrispondenza della macchina/ nave spaziale) è seguita la stagione degli androidi minacciosi (in corrispondenza della macchina/robot) e poi quella della intelligenza reificata (in corrispondenza della macchina/ congegno elettronico).
Questo processo sarebbe sufficiente a mostrare che la fantascienza ha come sua essenza la scoperta dell'ambiguità dell'artificiale : la macchina non è presentata e considerata tanto come un mezzo di cui l'uomo possa servirsi ma soprattutto come un elemento che lo trasforma dall'interno. Da un lato perciò le macchine sono proiezioni di desideri inconsci, dall'altro rappresentano la ormai incombente fatalità di una ibridazione e confusione tra artificiale e naturale, tra mezzo e fine, tra conoscibile e inconoscibile. Tanto per fare qualche esempio, il tema dell'imprecisabilità dell'identità, tipico di Philip Dick, costituisce in modo emblematico la spia di un'epoca in cui l'artificiale riproduce il reale e quest'ultimo a sua volta imita quello, in un processo di simulazione che cancella la certezza di modelli e paradigmi interpretativi. Al centro della vicenda del romanzo di Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968, trad. it. Il cacciatore di androidi ) - da cui è stato tratto il cult-movie Blade Runner - compaiono esseri artificiali che coltivano il sogno di vivere una vita umana: sogno irrealizzabile non per motivi materiali ma per ragioni più profonde: non hanno infatti una memoria personale ma i loro ricordi sono quelli di persone realmente vissute, presi per così dire in prestito. In tal senso il romanzo si può leggere come un'inchiesta sulla natura della soggettività: lo stesso protagonista, Deckard, che si serve di una macchina per riconoscere i ricordi autentici da quelli innestati, in modo da scoprire i pericolosi androidi, alla fine rimane in dubbio sulla propria identità: non sa - e non ha modo di scoprirlo - se è un essere umano oppure un androide egli stesso.
Una variazione del motivo si può individuare in un racconto dello stesso Dick, Impostor (1953, trad. it. Impostore) . In causa è anche qui l'identità del protagonista, Spence Olham, che viene accusato di essere in realtà un robot: a quanto rivelano i funzionari del controspionaggio, gli invasori extraspaziali avrebbero ucciso l'umano di nome Olham e l'avrebbero sostituito con una macchina che lo riproduce in tutto e per tutto, fin nella coscienza e nei ricordi, inviata sulla terra col compito di far esplodere una bomba devastatrice. Nel racconto l'oscillazione circa la realtà dei fatti è costruita in modo magistrale grazie all'impiego insistito della focalizzazione interna: gli eventi sono presentati nell'ottica di Olham, convinto di essere vittima di un terribile equivoco o di un complotto, indubitabilmente sicuro della propria identità, pronto ad improvvisarsi investigatore pur di provare la propria verità; solo nell'explicit egli - protagonista inattendibile - scopre di non essere quello che credeva: e la scoperta coincide con l'esplosione della fatidica bomba. Il tema dell'usurpazione dell'io, tipico di tanta letteratura fantastica (16), viene qui mediato, con una fortissima ricaduta sul piano dell'apertura cognitiva, dal motivo del robot umanoide. L'incubo kafkiano si risolve nell'affermazione di un ordine di cui il soggetto stesso implicato nei fatti non ha coscienza, non perché la sua percezione sia distorta, ma perché non è un soggetto, non possiede capacità di percezione e coscienza propria, essendo in realtà una macchina; l'artificiale mima l'umano creando un effetto di verosimiglianza doppia, in un gioco in cui il lettore stesso è coinvolto fino alla fine, continuamente spiazzato nella ricerca della verità possibile, mentre il velo del dubbio si estende finanche sul piano extratestuale. In un altro romanzo di Dick, The Man in the High Castle (1962, trad. it. La svastica sul sole ), si immagina che gli Americani vivano in una dimensione in cui Hitler e il Giappone hanno vinto la seconda guerra mondiale: nelle Montagne Rocciose tuttavia c'è un uomo che sembra avere le prove del contrario: ha scritto un romanzo in cui si postula che, in realtà, la guerra è stata vinta dagli Alleati. Così, in un'epoca in cui la convinzione comune è che Hitler e il Giappone siano stati sconfitti, è possibile che ci sia qualcuno che abbia le prove che essi invece abbiano vinto. Il gioco di specchi e di illusioni può continuare all'infinito.
Il tema comune ai testi che abbiamo citato è la confusione tra realtà ed apparenza, per effetto del potere, proprio dell'età della tecnica, di duplicare con l'artificiale il naturale e di dare luogo ad una forma di vita ibrida e ancora incomprensibile, che appare come presenza minacciosa nell'esistenza dell'uomo: categorie che sembravano ovvie ed indiscutibili vengono confuse, rovesciate, distorte. In questo senso, la fantascienza è strada immaginativa verso l'enigma (come afferma Caillois, 1966, p. 52: "la scienza, che ha cessato di rappresentare una protezione contro l'inimmaginabile, appare sempre più come una vertigine che vi precipita"). Essa in sostanza mette allo scoperto la valenza conoscitiva dello "strumento" - la macchina - il quale è sempre l'apertura di un nuovo spazio interpretativo: non serve soltanto ad ottenere uno scopo, che preesiste nella mente del soggetto, non è solamente il docile mezzo progettato per raggiungere un fine ma, esorbitando dalla sua stessa natura, mette in moto, attraverso la meraviglia, un procedimento di interpretazione, apre a possibilità inattese, rivela il turbinare dell'imprevisto e dell'imprevedibile dietro il conosciuto. Così come la macchina / nave spaziale disvela la dimensione paradossale del rapporto tra spazio e tempo, l'automa manifesta la potenzialità del nesso meccanismo/biologia, mentre la macchina elettronica (computer, cyberspazio, autostrade elettroniche e così via) la problematicità della connessione tra intelligenza e individualità soggettiva.
La nave spaziale ricrea e rifonda, in prospettiva aggiornata, la dimensione tradizionale e il topos del viaggio, con tutte le sue valenze e potenzialità narrative: il viaggio verso mondi sconosciuti, l'incontro con l'alieno, le strutture di una geografia che non è quella terrestre ma quella di uno spazio-tempo puramente geometrico, la trasformazione della psicologia e della stessa struttura fisica dei personaggi, fino alla codificazione del viaggio interstellare nel concetto di "iperspazio" e alla sua trasfigurazione in una sorta di attraversamento dello spazio e del tempo. I paradossi della teoria della relatività sono utilizzati per decentrare completamente il punto di vista del soggetto, il quale, spostandosi fisicamente, si sposta anche nel tempo, mettendo continuamente in gioco le proprie coordinate di riferimento. In un romanzo di Ron Hubbard, Return to tomorrow, del 1950 (trad. it. Ritorno al domani ) si affronta ad esempio il tema dei viaggiatori nello spazio-tempo i quali, per effetto del cosiddetto "paradosso dei gemelli", (17) ogni volta che tornano sulla terra la trovano completamente trasformata per il trascorrere delle epoche (corrispondenti a pochi dei loro anni soggettivi), così che sono costretti a rinchiudersi in una sorta di consorteria il cui mondo-ambiente non è più in nessun luogo fisico. Si può dire che il viaggio spaziale finisce con l'annullare gli stessi termini del viaggio - la partenza e il ritorno - in una sorta di fuga all'infinito che del resto è rappresentata emblematicamente in un'opera di Heinlein (Orphan of the Sky, 1963, trad. it. Universo) . Rispetto alle metafore tradizionali, il viaggio non ha inizio nè fine: costituisce in sé una specie di mondo, come una sorta di universo chiuso è l'astronave, grazie alla quale si supera la frontiera del sistema solare, spazio interno, conosciuto e rassicurante rispetto all'outer space .
L'elemento più ricorrente del viaggio è l'incontro con l'alieno: la dimensione che viene da esso negata è quella che si può definire della "normalità". L'alieno o è creatura meravigliosamente benevola (vedi Incontri ravvicinati del terzo tipo ) o è puro distillato di ferocia (Alien) o anche, nei filoni più critici e satirici della fantascienza, è la quintessenza dell'intelligenza e/o della stupidità (così, ad esempio, è rappresentato in molti romanzi di di Robert Sheckley). In questo senso, si può dire che la caratteristica strutturale dell'alieno sia l'iperbole. Esso è "realtà" al sommo grado e all'eccesso, e perciò può provocare orrore o desiderio di comunione. Da tale punto di vista, il libro che riassume tutte le potenzialità dell'essere alieno, toccando i vari vertici dell'eccesso e fondendoli in un sentimento distanziante di nostalgia, è senza dubbio Martian Chronicles (trad.it. Cronache marziane ) di Ray Bradbury: qui traluce l'idea di esperienze estreme, perdute per sempre, di cui nella banalità quotidiana rimane soltanto qualche simulacro.
L'automa apre la dialettica copia/originale. Come ha mostrato Baudrillard, l'elemento che caratterizza ciò che egli chiama "iperrealismo" è la simulazione, l' indistinguibilità dell'originale dalla copia, la quale finisce con l'essere più reale del reale stesso, perché contiene, oltre alle caratteristiche proprie del reale, quelle della indistruttibilità e della riproducibilità all'infinito (Baudrillard, 1980). Ad un livello molto semplice, tale dialettica genera il meccanismo narrativo centrato sul rapporto tra l'uomo e il suo alter ego artificiale; ad un livello più avanzato, essa dà vita al nodo conoscitivo che aggroviglia le categorie dell'essere e dell'identità. Nella prima tipologia, troviamo tutto il filone della robotica fantascientifica ispirata ai modelli asimoviani, modelli costruiti sull' ipotesi che "i robot abbiano un'anima". Nella seconda tipologia, invece, si possono far rientrare i complicati meccanismi narrativi di Philip Dick e di pochi altri (come Dish, Zelazny, Delany) fondati sull'angoscia di tipo metafisico che genera la impossibilità del riconoscimento della propria identità. In We can build you. A Lincoln Simulacre del 1972 (trad. it. Abramo Lincoln androide ) il gioco è portato da Dick alle sue estreme conseguenze: il protagonista, un androide adibito a ricostruzioni storiche di tipo didattico (in una società in cui è possibile riprodurre artificialmente il passato per consentirne una fruizione diretta), diventa il presidente americano perché di fatto non c'è alla fine niente che possa distinguerlo dal personaggio reale. Il problema presentato da Dick è quello di un cogito di tipo cartesiano diventato impossibile: lo strumento-macchina rivela l'enorme vuoto silenzioso che è al riparo delle pareti del capo.
Si tratta, come afferma Renato Giovannoli, di "un'operazione sulla struttura logica del linguaggio", che annulla il principio stesso di non contraddizione (Giovannoli, 1982, pp. 31-32): secondo le leggi fissate nel quadrato logico di Aristotele e nel quadrato di veridizione di Greimas (che del primo offre una versione in chiave semiotica), non si può essere e contemporaneamente non essere ma si può essere e non apparire (il segreto) oppure apparire e non essere (la menzogna). "Ciò che trasforma in cerchi questi quadrati... e elimina le disgiunzioni esclusive, è la nozione di apparenza, che esplorata fino in fondo ingloba quella di essere" (ivi, p.33). Se, come nel caso del romanzo di Dick che abbiamo citato, o in The robot who looked like me (trad. it. Il robot che sembrava me ) di Sheckley, la copia perfetta è indistinguibile dall'originale, allora "l'essere sarebbe.. definito da un grado molto alto di finzione, collocato sullo stesso continuum dell'apparenza, senza una briciola di consistenza ontologica in più. Ma se l'essere non è che apparenza, e l'apparenza può celare il non essere (esser menzogna), ecco la disgiunzione farsi inclusiva e il ciclo dei divenire prender forma" (Giovannoli, 1982, p. 35).
La dimensione elettronica che, soprattutto a partire dal romanzo Neuromancer (trad. it. Neuromante) di William Gibson, si presenta come macrotema caratterizzante la fantascienza degli ultimi anni, segna una sorta di regressione vertiginosa dalla infinità dello spazio esterno alla pseudo-infinità del cyberspazio. E' interessante confrontare in parallelo la nozione di spazio collegata al mondo della macchina / astronave con la nozione di spazio correlata alla dimensione elettronica. L'iperspazio - che è una categoria letteraria universalmente riconosciuta dagli scrittori di fantascienza- è stato l'espediente che ha consentito di superare i limiti della teoria della relatività ristretta, di rendere immaginabili viaggi ad una velocità superiore a quella della luce, di porre le basi per una espansione indefinita della conoscibilità dell'universo fisico (con tutte le convenzioni logicamente deducibili da tale ipotesi primaria). Il cyberspazio, al contrario, non collega mondi o parti di universo ma informazioni: ha un rapporto diretto con la mente dell'uomo ed infatti all' "astrogatore" (navigatore degli astri) si sostituisce il cybernauta, il quale non soltanto viaggia in uno spazio di informazioni immateriali ma diventa egli stesso un pacchetto di informazioni che può essere utilizzato da altri analoghi pacchetti. Il punto che viene messo in luce è la dimensione assolutamente impersonale dell'intelligenza: questa finisce con l'essere un aggregato coerente di pensieri di cui però si è perso l'autore, un aggregato che cresce indefinitamente su se stesso. L'avventura rischia di trasformarsi in incubo: la conoscenza stessa non sa più riconoscersi, perde la sua aura. In un famoso racconto di Borges, La casa di Asterione (1952) il Minotauro, metafora dell'enigma, aspetta il suo salvatore, il redentore (cioè colui che è destinato a sciogliere il nodo del mistero, e della solitudine) e, quando Teseo arriva, non fa nulla per difendersi dalla spada che lo uccide: dal canto suo l'eroe non può far altro che distruggere ed abolire il groviglio del mistero, proprio perché lo svela, credendo di riparare una lacerazione, una smagliatura nel tessuto compatto della ragione. Nello stesso modo, la conoscenza attuale, nel momento in cui si trasforma in informazione che si autoreplica, finisce con lo svelare l'enigma e viene uccisa dall'algoritmo.

Complessivamente, alla base della produzione fantascientifica si può dire vi sia una dialettica speculativa: "un confronto tra un sistema normativo stabilito - una visione del mondo chiusa di tipo tolemaico - e un punto di vista o uno sguardo che implica una nuova serie di norme; in termini di teoria della letteratura, questo fenomeno è conosciuto come l'attitudine di straniamento" (Suvin, 1972, p. 44). Darko Suvin, partendo da queste premesse, definisce la fantascienza - che "vede le norme di qualsiasi età, includendo enfaticamente anche la sua, come eccezionali, mutevoli, e sottoponibili dunque a uno sguardo conoscitivo " - come letteratura di straniamento conoscitivo, come genere letterario "le cui condizioni necessarie e sufficienti sono la presenza e l'interazione di straniamento e conoscenza" (ivi, p. 45). Si tratta di un'intuizione assai interessante, e feconda, anche se Suvin sembra limitare la portata conoscitiva della fantascienza quando afferma che "essa mette in discussione fondamentalmente l'uso e l'effetto della conoscenza politica, psicologica, antropologica (scienze naturali, scienze umane e filosofia della scienza ), e la realizzazione o fallimento di nuove realtà come risultato di essa " (ivi, p. 47). Si tratta allora di operare una leggera forzatura dell'approccio di Suvin, una forzatura che tende ad evidenziarne una possibile, radicale direzione di senso: senza escludere gli aspetti sottolineati esplicitamente dallo studioso, si può sostenere che, tramite lo sguardo straniato, la fantascienza mette in discussione, più nel profondo, il modo della conoscenza, le prospettive della logica classica, fabbricando - inventando - mondi sulla base di una dinamica di trasgressione del limite che ingloba e supera la logica standard. Si parte da un'idea, da un assioma e lo si sviluppa in una delle direzioni possibili, secondo un asse "positivo", utopistico, oppure "critico", distopico, ma sempre aprendo ad un "oltre" conoscitivo.
Esaminiamo un aspetto particolare della questione, cioè le modalità di organizzazione e di strutturazione dell'impianto narrativo. Come abbiamo già accennato, molti racconti fantastici (soprattutto quelli 'classici', di cui Vera di Villiers de l'Isle Adam può essere considerato un esempio illuminante (18), e quelli più moderni che ne utilizzano i procedimenti) presentano uno schema di evoluzione degli avvenimenti che, con tutti gli slittamenti e le intersezioni che si è cercato di mettere in chiaro, può definirsi lineare: da una situazione di equilibrio - in cui protagonista o io-narrante, e con lui il lettore, vedono rispettate le condizioni di realtà comunemente accettate - si passa ad una situazione di trasgressione, in cui, per l'improvviso apparire di un elemento perturbante, vengono infrante le categorie di senso: dal verosimile all'inverosimile, con la conseguente creazione di una terza dimensione. Nelle opere della science fiction l'elemento "possibile", il dato in cui si sintetizzano vertiginosamente l'approdo effettivo di una branca della scienza o della tecnica e l'elaborazione fantastica, è dato per scontato già all'inizio della narrazione vera e propria: costituisce una pre-condizione, una pre-supposizione, sulla base della quale si sviluppano gli avvenimenti. Lo "scandalo razionale", provocato dalla distanza tra mondo empirico ed universo fittizio, è un punto di partenza, non di arrivo; per questo, lo scioglimento della vicenda narrata non coincide con l'instaurazione di un nuovo ordine, radicalmente differente rispetto a quello iniziale, ma si presenta come variazione ricorsiva, all'interno di un medesimo paradigma di senso: un paradigma "fantasma" o "assente" per usare l'espressione di Marc Angenot (1979) (19).
Si tratta di una logica circolare, che in via di principio genera un forte distanziamento critico. Parallelamente, gli indizi del testo, e in particolare le sue strutture semantiche - a cominciare da neologismi e parole immaginarie, come ha dimostrato Angenot - inducono il lettore a costruirsi, per via di ipotesi continuamente da scartare e riformulare, per via cioè di aggiustamenti progressivi dell'angolo visuale, un'idea del mondo fictionale all'interno del quale hanno luogo gli eventi narrati. Il testo implica, senza mostrarlo ostensivamente, l'esistenza di un paradigma in sé coerente, che non corrisponde a quello empirico e che però si può ricostruire per inferenza, riorganizzando gli input in un ordine diverso rispetto a quello consuetudinario e chiudendo il circuito del disorientamento.
La necessità della cooperazione del lettore è ancora più evidente rispetto ad altri generi narrativi: davanti ad un sistema che programmaticamente sconfessa le sue previsioni e le sue attese, egli, attingendo alle sue strutture logiche e semantiche, proiettandole sull'universo fittizio, metabolizzando lo scarto rispetto alla norma, è condotto ad integrare le informazioni offerte dal testo, scoprendo o meglio inventando un senso non preesistente al processo, facendo così "emergere" un mondo: in questo modo si può portare a conseguenze radicali l'osservazione di Angenot per cui il lettore di fantascienza ".. deriva per induzione dal particolare delle regole generali immaginate, che prolungano le fantasie dell'autore e conferiscono ad esse plausibilità...; si impegna in una ricostruzione congetturale che 'materializza' l'universo fictionale" (Angenot, 1979, p. 37).
L'effetto conoscitivo è tanto più forte quanto più l'ordito del testo si nutre di allusioni ed implicazioni: utilizzando un principio formulato in ambito pedagogico, per spiegare alcune leggi dell'apprendimento profondo, si può dire che "l'intensità della risposta è inversamente proporzionale all'intensità dello stimolo e direttamente proporzionale all'assenza di rappresentazioni" (Minichiello, 1995, p. 162). Un esempio: quando si comincia a leggere un classico della narrativa cyberpunk come Solstice (trad. it. Solstizio ) di James Patrick Kelly (1985), ci si trova d'improvviso proiettati in un mondo in cui il protagonista, Tony Cage, è apostrofato come "artista della droga" da un cronista che, parlando, "tamburella sulla presa cranica dietro l'orecchio, come per smuovere la memoria del suo wetware". Lo scrittore non fornisce spiegazioni, né una rappresentazione dell'universo in cui si svolgono i fatti: il lettore può, addentrandosi nella foresta del testo, costruirsene un'immagine, grazie ad ipotesi ed aggiustamenti, fino a definirla come riconoscibile: e ciò genera in sé uno sforzo di interpretazione che dilata il confine del dominio di conoscenza.

Ben lungi dal qualificarsi come letteratura di evasione o di facile consumo, la fantascienza rivela dunque un potenziale cognitivo non sufficientemente preso in considerazione: non solo e non tanto perché, ad un primo livello, le sue finzioni si collocano in un mondo che si presuppone radicalmente "altro" dal nostro o perché mostra panorami di evoluzione possibili, ma perché tematizza in forme narrative il problema della razionalità e dei modi di conoscenza, la questione del linguaggio, con tutte le ricadute gnoseologiche che comporta (la sua struttura logica, la coerenza del sistema semantico, il rapporto tra segno e significato, l'interpretazione e il conferimento di senso, l'ineffabilità e la traducibilità dei codici) (20), il nodo dell'opposizione tra reale ed artificiale, verità e simulazione nelle prospettive sollevate dai progressi tecnologici.
Partendo da un grumo - costantemente in evoluzione - di acquisizioni scientifiche e ragionando secondo l'ottica del "che succederebbe se..." (Heinlein, 1966), variante del "pensare altrimenti" di Musil, la fantascienza recupera e rende visibile, nei modi propri della società moderna, il filo di connessione tra pensiero che ragiona e pensiero che sogna, tra il modo empirico, tecnico e razionale del conoscere e quello simbolico ed analogico.
Proprio utilizzando il linguaggio scientifico (il linguaggio della ragione per eccellenza) e quindi agendo all'interno stesso del sistema, la fantascienza - come abbiamo cercato di dimostrare, e forse al di là delle intenzioni degli stessi scrittori - finisce per superare le opposizioni disgiuntive tipiche del logos quale si è imposto nella modernità, le forme rigide e imperative fondate sul potere della negazione, sull'esclusione del terzo e della contraddizione (21); al contrario, fa emergere, per via narrativa, la possibilità della congiunzione e dell'affermazione, svelando, nel seno stesso della scienza, le aperture e le allusioni ad altro che essa, in ogni caso, non cessa di presentare; con vicende al limite del verosimile, ai livelli più alti, smaschera l'illusione di poter fornire un modello - un paradigma - di razionalità univoca e compiuta che incaselli il reale, e la vita, in leggi di assoluta trasparenza e inconfutabilità. Radicalizzando ipotesi e teorie, aggiungendo "all'universo potenzialmente infinito dell'era della produzione... la moltiplicazione all'infinito delle sue stesse possibilità" (Baudrillard, 1980, p. 53), presenta la catena degli eventi, il divenire (l'evoluzione scientifica, biologica, cognitiva, culturale) non come processo lineare ma come processo circolare e autoreferenziale, come uno "strano anello", per usare la terminologia di Hofstadter (1979).
Marshall McLuhan ha affermato che, nella civiltà occidentale moderna, si è perduta la capacità di cogliere simultaneamente, all'interno delle situazioni culturali, la figura (cioè l'area di attenzione) e lo sfondo (l'area molto più vasta di disattenzione, il contesto nascosto); e ciò a causa del prevalere dell'emisfero cerebrale sinistro - quello che presiede alle attività che comportano metodo, analisi, controllo e che organizza lo "spazio visivo" - sul destro - quello deputato alle attività immaginative, inventive, associative e che organizza lo "spazio acustico" (McLuhan-Powers,1989, pp. 21 sgg). Utilizziamo quest'affermazione come spunto per la nostra argomentazione conclusiva: nella società contemporanea, dominata, a tutti i livelli, dal progredire della conoscenza scientifica e dalle relative applicazioni tecnologiche, in primo piano, come figura, è la razionalità lineare e sequenziale, che si ha la presunzione di amputare dal suo sfondo : l'esperienza della percezione, del simbolico e dell'analogico, con cui la figura stessa è invece in continua interazione. La scienza, in quest'ottica, finisce per presentarsi come la messa tra parentesi della radice non razionale della ragione, che viene espunta dal sistema perchè considerata, tutto sommato, primitiva, oscura, pericolosa. Ora, a meno di non voler considerare la scienza semplicemente come effetto di un processo computazionale e meccanico, e l'oggetto razionale come automa indipendente, si tratta di invertire la focalizzazione e di ammettere che, senza creazione ed invenzione, non si dà scienza e che questa trae alimento da ciò che è "alle spalle" della razionalità analitica e lineare; ciò se si vuole riconoscere che, come afferma Giorgio Colli, "ciò che la ragione esprime, non è la ragione" (Colli, 1978, p. 183) e che "la natura del logos è di portare a compimento la sua negazione radicale, mostrando in ciò la sua origine altra" (Minichiello, 1984, p. 89). La figura che si offre nel panorama moderno è invece quella di una ragione monca e denudata, separata arbitrariamente dalla cornice che le è necessaria.
La fantascienza ci sembra che riconnetta, proprio grazie allo straniamento della fiction, la polarità figura-sfondo. "Per ogni assioma narrativo della fantascienza, anche il più tradizionale, umano, 'aristotelico' o 'positivista'- afferma Giovannoli -, c'è sempre una linea di fuga" (Giovannoli, 1982, p. 42): non però da un punto ad un altro, da uno più in basso ad uno più in alto o più lontano in una gerarchia, e neppure verso un approdo spostato all'infinito (utopia o profezia) bensì in direzione di un dietro, di uno sfondo che coincide specularmente con il davanti, la figura, lo stadio di partenza, e ne illumina, con la potenza della metafora, il significato.


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NOTE

1) La vicenda del romanzo prende le mosse da un interrogativo e da un 'esperimento mentale': dinanzi alla versione della storia di Adamastor presentata da Luís Vaz de Camões nel poema Os Lusíadas - il gigante deforme sorprende la ninfa Teti al bagno e per questo viene inchiodato da Zeus alla frastagliata Penisola del Capo -, Brink si chiede se dietro di essa si celi, non scritto, 'un primigenio Urtext ' e presenta un'ipotesi: '... supponiamo che ci fosse un Adamastor, un modello primo per il Gigante al centro della favola di Camões; e supponiamo che tale creatura originaria... sia sopravvissuta nei secoli, in una serie di metamorfosi varie e continue, per sorvegliare all'infinito il Capo di Buona Speranza: come ricorderebbe lui, dalla prospettiva del tardo XX secolo, quell'esperienza primordiale? Questo è il balzo immaginativo che mi propongo, invitando il lettore a spiccare il volo insieme con me' (Brink, 1988, pp. 10-11).

2) Cfr. Segre 1979, pp. 208 sgg.

3) Per il dibattito critico sulla definizione e i criteri di classificazione, cfr. la bibliografia curata da Scarsella 1984, pp. 277 sgg. (in particolare pp. 292-304) e 1988, pp. 231 sgg. Recenti puntualizzazioni in Albertazzi 1993, pp. 3 sgg.

4) Sulla narrazione fantastica come 'connubio trasgressivo' tra due tipi di fictio, la realistica e la meravigliosa, cfr. Scarano 1983.

5) Per una trattazione dello stesso ordine di problemi, parzialmente consonante con la prospettiva della Campra, cfr. la fine analisi di Lugnani (1983 b), pp. 177-288, e soprattutto le pp. 191-193.

6) Cfr. anche Campra 1982, p. 186: '.. la legge del genere è l'infrazione. L'infrazione messa in primo piano nel fantastico è uno scandalo della ragione: questa constata l'esistenza di due ordini inconciliabili e successivamente si vede obbligata... a constatarne la sovrapposizione'.

7) Per un diverso approccio alla questione, cfr. Benedetti 1983.

8) Per un'analisi della tesi di Morin, cfr. Minichiello 1994, pp. 12 sgg.

9) Cfr. anche Beutler 1979, p. 27: 'Se tutto ciò che è percepito come immaginario è confermato tale, o come la traduzione simbolica di una realtà offerta ai sensi o rivelata, non c'è posto per il fantastico. Se tutto ciò che contravviene alle leggi della percezione riceve una spiegazione razionale, non c'è più posto per il fantastico'.

10) 'L'esperienza dell'assurdo si configura come riposante sull'ambiguità, sull'intrecciarsi e neutralizzarsi di linee di senso contraddittorie. Dal punto di vista conoscitivo l'esperienza dell'assurdo è aperta, sospesa. Ebbene la stessa sospensione sembra invitare e sospingere al suo superamento: contraddittorietà impostasi, ma non accettata (nel senso che l'imporsi della contraddizione si accompagna comunque ad una resistenza ad accettarla: posizione quindi che sta tra rottura di uno schema, di un paradigma di realtà, e superamento non ancora raggiunto di tale realtà), l'assurdo tende a risolversi' (Goggi 1983, p. 90).

11) L'espressione richiama il 'pensare altrimenti' (anders denken ) di R. Musil, 1976, p. 950. Cfr. in proposito Gabetta 1981, pp. 109 sgg.

12) Sull'argomento, cfr. Jacobelli 1970, e Beutler 1979, p. 576.

13) Per una discussione sull'argomento, in una prospettiva di ri-definizione critica della science fiction come 'paraletteratura', cfr. Angenot 1980.

14) Sul rapporto tra fantascienza e letteratura fantastica, cfr. Zgorzelsky, 1980.

15) Cfr. ad esempio Albertazzi, 1993, pp. 12-14. Partendo dall'assunto che ' il fantastico ha le sue radici in questo mondo, dove la comparsa di un elemento inspiegabile o incongruo porta una confusione o uno sbalordimento sconosciuti nell'universo delle fate e dei maghi', la studiosa esclude dal fantastico propriamente detto la fantasy, l'utopia e la fantascienza ' che spinge all'estremo i poteri e le conquiste della scienza, fino a oltrepassare il limite della verosimiglianza' (ivi, p.14). Questo perchè nei romanzi e racconti fantascientifici manca l'elemento dello stupore, dell'inquietudine e del dubbio, 'quello sgomento senza risposta che solo il fantastico è in grado di provocare' (ibidem ).

16) Cfr. in proposito Campra, 1981, pp. 207-208.

17) Sull'argomento e sulle varianti narrative del paradosso nella letteratura fantascientifica, cfr. Giovannoli, 1982, pp. 49 sgg.

18) Una finissima analisi del racconto in Lugnani, 1983b, pp. 249-270.

19) Sull'assenza di paradigma nella fantascienza, cfr. anche Campra 1982, p. 190: '... può... succedere che i fatti narrati non rinviino a un paradigma identificabile, creando uno squilibrio significativo. Questo squilibrio si può aggiustare mediante una motivazione sintagmatica, che espliciti, nel corso della storia stessa, la regola a cui rispondono gli avvenimenti in quell'universo dato. La fantascienza è un esempio di motivazione sintagmatica: i fatti non rientrano in un paradigma conosciuto, ma questo viene stabilito ex novo, come regola di un mondo sconosciuto al lettore sia nello spazio (altri sistemi galattici) sia nel tempo (il futuro)'.

20) Sul tema del linguaggio e della comunicazione nella narrativa fantascientifica, cfr. Giovannoli, 1982, pp. 37- 43.

21) Per la critica della logica classica da questo punto di vista, cfr. Morin 1991, pp. 186 sgg.