Mario Capunzo
Emanuele
Gin
Darsi la morte con le
stellette.
Il suicidio nelle forze armate
1. Della morte e del morire
Una analisi dell'atteggiarsi dell'uomo nei confronti della morte e, più
nello specifico, del comportamento suicidiario, riferita al contesto della
società post-moderna, rischia di finire con il trasformarsi nella analisi di una
contraddizione.
Se, infatti, non è possibile sostenere l'affermazione di uno
scotoma completo del tema generale della morte e del morire da parte della
cultura contemporanea, pure non si può non riconoscere la difficoltà di ciascuno
nel trattare sia pure in forma non sistematica del problema della morte e
particolarmente del tema del suicidio. La cultura contemporanea ha certamente
compiute riflessioni intorno alla morte, di derivazione filosofica, com'è il
caso del filone fenomenologico-antropoanalitico-esistenzialistico, o
etnografico-antropologico oppure di marca schiettamente sociologica inaugurato
da Durkheim.
Tuttavia, non si può non riconoscere il tentativo sistematico
operato dalla nostra società di una rimozione a più livelli dell'idea di morte.
Da un lato, ad esempio, la cultura del "fitness", o meglio con le parole di
Ernst (1992) del "feticismo della salute", sembra cogliere il livello più
superficiale di questa rimozione, quello dell'immagine. Qui la morte viene
espunta attraverso l'esibizione della vita nella pienezza dell'energia, della
plasticità, della bellezza del corpo che nella rassicurante pregnanza del vigore
respingono oltre i confini dell'orizzonte psicologico di ciascuno la sofferenza,
il disagio, la morte appunto.
Segnale dell'altro livello di espunzione sembra
potersi riconoscere nella rarità degli studi scientifici sul tema della morte
che sono reperibili in letteratura fino alla metà degli anni '60. Tuttavia, da
questo periodo in poi, anche forse sull'onda dell'oramai classico "On death and
dying" di E. Kubler-Ross, si è assistito ad un moltiplicarsi dei lavori sulla
morte, come sottolineano Robustelli e Pagani (1983) e la freddezza dello stesso
mondo accademico su questo tema è andata via via sciogliendosi. Viene fondato un
movimento "per la consapevolezza della morte" al quale aderiscono nomi
prestigiosi come quelli di Kastenbaum, Costa, e nel 1970 viene inaugurata una
rivista, "Omega", a cura di R.A. Kalish dell'Università di California, che pone
al centro dei suoi interessi appunto la morte, il suicidio, il lutto.
Questi
eventi, che rompono il "silenzio sulla morte" (Goleman, 1983), hanno anche la
funzione, nella analisi che Robustelli e Pagani di essi compiono, di mettere in
tutta luce una contraddizione, che pare tipica di una società che, fondando
sulle promesse positivistiche del diciannovesimo secolo, ha reperito nelle
coordinate del benessere e del consumismo mercantile i soli parametri sui quali
misurare il proprio sviluppo. "Nel momento in cui la classe dominante
sostituisce al mito del paradiso celeste il mito del paradiso terrestre la
strumentalizzazione del pensiero della morte non è più possibile. Se il tramite
per il paradiso non è più costituito dalla rassegnazione ma dall'automobile,
dagli elettrodomestici, dai vestiti all'ultima moda ecc. è bene non sbandierare
troppo il memento mori . Chi consumerebbe forsennatamente tante
cose inutili se pensasse continuamente che deve morire?" (Goleman, 1983, p.
28).
Senonché, questa analisi, che appare per la gran parte corretta, è
svolta con un taglio psicosociologico che contrae evidenti debiti anche su un
piano ideologico e sembra privarsi, appunto per questa sua fissità, della
possibilità di cogliere quanto di radicale accade nell'atteggiarsi dell'uomo
moderno nei confronti del senso del limite assoluto rappresentato dall'idea
della morte.
Qui, sembra utile recuperare in tutta la sua pregnanza la
nozione di "crisi della presenza" estendendone il significato dalla minaccia
alla esistenza in quanto tale, che appartiene al ragionamento di De Martino che
lo svolge nel dar conto della funzione del sacro e della superstizione presso le
comunità rurali, per tentare di esplorarne una valenza più complessiva, riferita
alla condizione dell'uomo -in quanto tale- che assume consapevolezza delle
coordinate ineluttabili della sua esistenza.
D'altro canto, se nelle comunità
rurali la precarietà dell'esistenza viene fronteggiata mediante l'attivazione di
comportamenti ritualizzati che, sull'onda della trasmissione orale, percorrono
trasversalmente tutte le culture contadine e attivano salvaguardie psicologiche
in grado, in qualche misura, di esorcizzare la fine e con essa il pericolo
dell'esistenza, non è meno vero che, lungi dall'essere dissolta nelle cosiddette
civiltà urbane, l'angoscia della morte e con essa tutto il patrimonio di minacce
alla vita, aleggia ancora nell'inconscio collettivo, come Apolito (1980) nella
sua lucida analisi delle "Lettere al Mago" ha puntualmente mostrato.
Si può,
così, rilevare, nei confronti della morte e del morire, un atteggiamento duplice
che, per un verso, si attiene alle culture rurali, nelle quali l'idea della fine
viene in qualche modo "padroneggiata" attraverso il ricorso a meccanismi di
controllo assolutizzanti, di cui le propiziazioni, le tecniche scaramantiche ed
il sortilegio costituiscono lo strumento.
Per l'altro verso, proprio delle
civiltà urbane, si esplica come tentativo non più di esorcizzazione quanto,
primariamente, di rimozione, e, quando il meccanismo non raggiunge i suoi fini,
di isolamento e di regressione.
Entrambi gli aspetti, quindi, non sembrano
legarsi che superficialmente alle contingenze strutturali della comunità sociale
(divisione del lavoro, conflitti e dinamiche produttive), colte dall'analisi di
Robustelli e Pagani, ma mostrano in tutta luce, invece, il valore di
rassicurazione che svolgono nei confronti di una crisi della presenza, che è più
complessiva e più profonda, e che si declina, come una costante, sopra la storia
dell'uomo, ne definisce la precarietà delle coordinate esistenziali, la
provvisorietà ineludibile del suo progetto e, con ciò stesso, se ne fa emblema
originale. Talché la contraddittorietà sopra riferita alla nozione di morte e
del morire mostra le sue vere radici nell'essere la contraddittorietà ontologica
dell'uomo stesso. In questa luce, paradossalmente, la condotta suicidiaria può
costituirsi, più che come stigma di tale contraddittorietà, come un tentativo
estremo, ancorché contraddittorio esso stesso, del suo superamento mediante la
tragica e radicale riappropriazione da parte dell'individuo che la opera, della
decisionalità che gli appartiene.
2. L'autochiria: una sfida alla comprensione
Questo gesto così sconcertante, apparentemente così dissonante con le
potenti manifestazioni di conservazione della vita operanti nel singolo
individuo e nella specie e così diffuse nel mondo vivente, è tuttavia presente
in tutta la storia conosciuta dell'uomo. Nei suoi confronti egli ha elaborato
ipotesi esplicative che sono valse come tentativi più o meno riusciti di ridurre
l'inquietante dissonanza del suicidio collocandolo di volta in volta all'interno
di contesti interpretativi diversi: da quello religioso, a quello filosofico,
psicologico, politico o sociologico.
Sembra tuttavia utile notare, a questo
punto, come il senso di radicale estraneità che, quasi un riflesso, il gesto
suicida richiama nel nostro contesto sociale e culturale, si sia venuto
costruendo nel corso della storia dello sviluppo dell'uomo, particolarmente a
seguito dell'universalizzarsi, tra le religioni monoteistiche, del
cristianesimo.
Infatti, le culture estremo orientali pre-islamiche
coltivavano un atteggiamento di comprensione nei confronti del suicidio che lo
giustificava in relazione a momenti di particolare tensione
emozionale/spirituale, come quelli vissuti dagli asceti lungo la via della
liberazione dai lacci della condizione umana o dagli appartenenti alle caste
superiori che lo invocavano come gesto estremo di difesa del proprio onore.
Analogo atteggiamento di comprensione contraddistinse la grecità classica, che
in diversi atteggiamenti filosofici del suo sviluppo, com'è il caso dello
stoicismo o dello scetticismo, incluse il gesto suicida tra i comportamenti
convenienti al vero saggio.
Allo stesso modo, nel pensiero romano il suicidio
mantenne la sua ragion d'essere sia come estrema protesta contro la tirannia,
come fu il caso di Seneca, sia come ultimo baluardo dell'onore, come indica
Cicerone o dell'amore, com'è nelle testimonianze di Lucrezio, di Virgilio od
Ovidio. Un atteggiamento, peraltro, condiviso dalle genti barbare della Gallia
pre-romana e romana o della Germania, dove l'accesso al paradiso del walhalla
era propiziato dal gesto suicida per le vedove dei caduti in
battaglia.
L'introduzione del cristianesimo nei sistemi sociali europei,
conseguente al crollo dell'Impero e oramai pressoché completa attorno all'anno
mille, provocò un graduale mutamento di atteggiamento nei confronti del suicidio
che cominciò ad essere sempre più frequentemente assimilato all'omicidio e a
condividere la condanna morale irrogata per quest'ultimo. Eretica, appunto, fu
definita la posizione del catarismo che invece il suicidio non condannava ma
esaltava come ultimo stadio del percorso mistico dell'iniziato che, rifiutando
col cibo la vita, si avviava mediante l'Endura alla piena libertà
ultramondana.
Tuttavia, l'atteggiamento di ferma condanna formulato in sede
teologica dai padri alto-medievali conteneva pure, com'è mostrato dalla
speculazione di S. Tommaso, germi di riflessione che si esprimeranno
compiutamente solo in epoche molto successive, laddove l'Aquinate, intravvedendo
nel gesto suicida quello di un malato, gli offriva comprensione e forse
perdono.
Con i secoli diciottesimo e diciannovesimo l'atteggiamento della
opinione pubblica intorno al tema della morte scelta per sé conobbe ulteriori
trasformazioni. Da un lato, il gesto suicida trovò progressivamente un
atteggiamento comprensivo e possibilista nelle speculazioni teoriche del
liberismo razionalistico del secolo dei lumi, poi nel successivo ottocento
acquistò una cornice giustificazionista nella letteratura romantica europea,
emblematicamente in quella foscoliana e leopardiana. Queste determinanti
culturali in senso lato, ma soprattutto quanto si venne facendo in questo
periodo nello specifico delle scienze dell'uomo, tanto sul versante delle
conoscenze dell'organismo quanto su quello dei saperi che si andavano
organizzando a proposito del disagio e dell'intervento sul disagio (sociologia,
medicina, psichiatrie, psicologie) rappresentò l'ambito culturale in cui maturò
una riflessione scientifica sempre più seria attorno al tema della morte
autoprovocata.
L'alveo del pensiero sociologico fu probabilmente il primo ad
accogliere questi mutamenti e la teorizzazione di Durkheim (1897), sul suicidio,
contestualizzata in una più ampia riformulazione dell'evoluzione delle società
umane e delle tensioni dinamiche che ne governano l'aggregazione ed il consenso,
rappresenta un coraggioso sforzo di decifrazione ed assieme un importante
tentativo di classificazione di quest'evento così misterioso.
Per questo
studioso, come è noto, se il transito dalla società primitiva a quella complessa
ha il senso del passaggio dallo stato di indifferenziato aggregarsi di uomini -
sulla base di bisogni e paure - a quello della interazione organica delle
persone- sulla base della "coscienza collettiva" che fonda tra essi
l'articolazione dei ruoli e delle funzioni- il suicidio, allora, non può che
essere la testimonianza tragica, appunto, della mancata integrazione del
singolo, l'incapacità/impossibilità di ritrovare le ragioni dell'essere nel
ruolo, nel contesto, nella finalità egosintoniche o egodistoniche del
metaorganismo sociale.
Si tratta, così, di una dimensione dell'essere che in
qualche misura attraversa le diversità fenomenologiche con cui si manifesta il
gesto suicida, sia esso compiuto come atto "altruistico", dove le proprie
ragioni dell'essere nel ruolo cedono in favore dell'esigenza di garantire quelle
dell'altro; oppure come gesto "egoistico", dove sono le radici stesse
dell'essere nel ruolo ad essere irreperibili per un progetto personale divenuto
oramai irrealizzabile o svanito; oppure, ancora, di tipo "fatalistico" quando
siano percepite come invincibili le forze oppositive che il progetto contrastano
o soffocano; oppure, infine, come gesto di carattere schiettamente "anomico" che
dà conto dell'impossibilità sopraggiunta per il soggetto di reperire i punti di
riferimento che contestualizzano il suo progetto di vita come itinerario
possibile e coordinato a quello degli altri.
Diverse coordinate teoriche di
riferimento per una analisi dell'autochiria offre Gabriel Tarde, che la
inserisce nel contesto della sua teoria della "propagazione imitativa" o "legge
della imitazione" (Tarde, 1907), con la quale ambisce a fornire una ipotesi
generale dello sviluppo e della riproduzione della società. Tarde, per ciò che
attiene allo specifico del suicidio, ritiene di poterne riferire la genesi e la
diffusione a tre fattori principali.
Un primo risulterebbe insito nella
evoluzione stessa delle società che concomita al venir meno delle norme
regolatrici di ispirazione religiosa e tradizionale e al moltiplicarsi degli
spazi non coperti nella vita sociale da parametri valutativi condivisi e
funzionali della condotta individuale.
Un secondo potrebbe essere riferito al
diffondersi dell'alcoolismo, anch'esso progressivo nelle società industriali ed
in grado di indebolire nel singolo i vincoli relazionali, le difese nei
confronti della frustrazione e di scatenare le condotte masochistiche del
suicida. Da ultimo, lo sviluppo tecnologico che induce l'aumento della mobilità
all'interno delle società moderne e il diffondersi delle comunicazioni di massa
ed il velocizzarsi della circolazione delle informazioni, rappresenterebbe il
moltiplicatore per la "propagazione imitativa" del fenomeno suicidiario.
Le
sociologie durkheimiana, declinata sopra il versante dell'analisi più
propriamente strutturale del fenomeno e quella tardiana, aperta anche
all'istanza psicologica, convergeranno negli studi recenti dei due americani
Henry e Short (1954), in una prospettiva tendente ad una lettura integrata tra
le dinamiche sociali di ordine generale che investono una società quali i flussi
economici, le crisi sociali, da un lato, e i meccanismi di controllo sociale e
le dinamiche aggressive inter ed intraindividuali, dall'altro.
Il piano
interpretativo psicodinamico, tuttavia, sembra essere quello che ha offerto le
maggiori suggestioni alla ricerca. A partire dalle riflessioni condotte da Freud
nel 1920 con il saggio "Al di là del principio del piacere", che riprendevano e
rielaboravano le tesi affacciate in "Lutto e melanconia", in cui veniva
esplorato il concetto di pulsione di morte come costitutivo di una dinamica
intrapsichica che lo vedeva contrapposto alle pulsioni autoconservative, gli
studiosi di questo indirizzo hanno variamente collegato il gesto estremo del
suicida alle diverse componenti pulsionali della mente.
Henseler fonda la sua
analisi del suicidio riferendola alla nozione di narcisismo. Come è noto, nella
teorizzazione freudiana il narcisismo descrive una situazione di centrazione
dell'energia psichica sul soggetto stesso.
Questa condizione, che
originariamente investe le funzioni vitali dell'organismo permettendone la
attività e lo sviluppo, rimane una delle fonti principali di sostegno dell'Io
lungo tutto il corso della vita dell'individuo.
La funzione del narcisismo
viene particolarmente sottolineata dallo psicoanalista tedesco che distingue
nella pulsione narcisistica una doppia polarità che si mostra in stretto
rapporto con la formazione del Sé e in immediata dipendenza della natura delle
relazioni oggettuali dell'individuo. Si ha un investimento di segno positivo
quando l'Io è capace di un esame di realtà adeguato e perciò in grado di
instaurare relazioni oggettuali significative e simmetriche. Si fonda in questo
modo l'autostima esperita sulla scorta di un realistico progetto di sé in cui la
espressione delle proprie potenzialità è commisurata a una gamma di valori
percepiti come sintonici e perseguibili.
La nozione di narcisismo negativo,
invece, denota una condizione di impossibilità di compiere l'esame di realtà
secondo modalità funzionali, per cui il soggetto manca di un adeguato parametro
di strutturazione del Sé che, non potendo progettarsi in una dinamica
relazionale stabile e sicura, può oscillare tra livelli di autostima
esageratamente elevati o ingiustificatamente bassi.
L'atto suicida, in una
prospettiva di questo genere rimanda quindi da un lato alla precarietà del Sé
negli aspetti costitutivi della relazionalità oggettuale e delle dinamiche
compensatorie di identificazione, dall'altro alla labilità del tessuto
emozionale di una personalità che non è nelle condizioni di gestire una mobilità
invalidante dei livelli di autostima.
In questa ottica, l'attenzione ai
momenti generativi del disagio che potrà divenire suscettibile di sfociare in un
gesto autolesionistico si appunta alle fasi precoci di formazione della
personalità. In realtà è proprio di tutti gli studiosi di ispirazione
psicoanalitica rivolgere alle prime fasi dell'infanzia e della preadolescenza le
domande sulle motivazioni dei disturbi delle età successive; ciò che vale a
maggior titolo per l'oggetto delle nostre riflessioni.
E' il caso di Horney
(1953) che, nell'ambito di una complessa rielaborazione delle basi teoriche
freudiane, introduce il concetto di bisogno di perfezione che, assieme
all'ambizione nevrotica e al bisogno di trionfo vendicativo, rappresentano le
modalità attraverso le quali l'individuo tenta una gestione dell'angoscia
derivante dai "conflitti di base" infantili. La dinamica stessa del conflitto di
base aliena in qualche misura il soggetto da sé, avviando il suo progetto di
vita sempre più nel dominio della fantasia. Gli sviluppi di queste linee
dinamiche possono così comportare, come sottolinea Kelman "disprezzo di sé,
autoaccuse, autofrustrazioni, autotormento, autodistruzioni", in una spirale che
trova il gesto suicida come naturale compimento.
Allo stesso modo, altri
esponenti dell'indirizzo psicoanalitico collegheranno, in varia misura, le
distorsioni occorse nella storia dinamica infantile con quella disintegrazione
della personalità che Weiss (1980) indica come la variabile più importante nella
etiologia del suicidio.
Qui può essere opportuno solo sottolineare come, ad
esempio, anche per gli studiosi di scuola adleriana l'itinerario del disagio -
suscettibile di esprimersi nel gesto estremo - si giochi nella dinamica di una
competizione complessuale che trova i suoi momenti generativi, da un lato nella
costituzione psicofisica del soggetto e, dall'altro, nella storia
dell'evoluzione della sua relazionalità.
Così come per gli studiosi di scuola
junghiana, che legano le dinamiche intrapsichiche ad una dimensione che sa
essere anche sovraindividuale, il gesto del suicida sembra potersi riferire ad
un processo di regressione, attivato dalla impossibilità di individuare in
questa sua occasione di vita un percorso di realizzazione del Sé e sostenuto
dalla speranza di poter fruire, appunto attraverso la propria morte, di una
ulteriore chance.
Si tratta come si vede, per l'indirizzo psicoanalitico nei
riguardi dell'oggetto del nostro studio, di focalizzare e di mettere in luce da
un lato la complessa dinamica delle istanze costitutive della personalità, l'Io,
l'inconscio, il Super-Io, colta tanto sul piano intrapsichico che su quello
relazionale e il complesso gioco dei meccanismi di identificazione, di
proiezione, di internalizzazione.
Dall'altro di osservare la dialettica di
forze psichiche primarie quali la pulsione di vita e la pulsione di morte, Eros
e Thanatos, in funzione della capacità che mostrano di sostenere un progetto di
vita o, viceversa, di renderne impossibile la realizzazione.
Un impianto
interpretativo che si ritrova, ad esempio nell'analisi di Fenichel (1951), che
ipotizza il gesto suicida come ultimo anello di una catena di colpevolizzazioni
emananti da una struttura superegoica di tipo sadico. Qui si assiste alla resa
dell'Io all'angoscia emanante dalla rigidità nevrotica del super-Io e, al tempo
stesso, alla disperata rivolta dello stesso Io contro l'istanza morale della
personalità che non gli lascia scampo.
Analogamente, Menninger (1933, 1938),
che offre una ampia classificazione tipologica dell'autochiria, riferisce il
suicidio alle vicende dinamiche delle pulsioni basilari di Eros e Thanatos
allorché le forze della conservazione della vita vengono sopraffatte
dall'istinto di morte a seguito del drammatico conflitto tra le imago delle
figure di identificazione che sono state introiettate dal
soggetto.
Identificazione che anche Bernfeld presuppone quando indica nella
analisi dell'aggressività criminale che egli compie riconosce nel suicidio la
trasformazione dell'omicidio. Con questo gesto, si uccide se stessi per uccidere
l'altro, o almeno la immagine dell'altro con la quale ci si è in qualche misura
identificati.
Naturalmente, l'attenzione alla problematica rilevante delle
dinamiche generative del gesto suicida è un focus presente nei programmi di
ricerca di studiosi dei vari indirizzi della psicologia.
Ora, mentre per una
rassegna esauriente si deve rimandare ai lavori oramai classici di Farberow e
Schneideman (1961) e di Dublin (1963) per un inquadramento generale, se pur
breve, delle teorie interpretative del suicidio può essere utile il lavoro di
Crepet (1993), in questa sede, e per chiudere questa nota introduttiva, si può
solo sottolineare taluni di questi contributi come quello offerto da Weiss
(1980), che indica una genesi trifattoriale nel comportamento suicidiario.
Da
un lato, gioca l'insieme degli atteggiamenti del gruppo sociale di appartenenza
con il suo apparato valoriale e i comportamenti di ruolo sanciti; dall'altro, la
componente dovuta alle circostanze all'interno delle quali il soggetto si muove
ed, infine, la relazione dinamica che tali elementi instaurano con l'intera
personalità dell'individuo.
E' solo ricorrendo all'analisi di questa
interazione, secondo Weiss, che si può tentare una spiegazione della variabilità
della reattività interindividuale nei confronti delle situazioni traumatiche che
per alcuni soggetti conduce al suicidio tentato o compiuto.
Proprio in ordine
ai tentativi di suicidio, la classificazione proposta da Weiss, Nunez e Schaie
(1961) distingue i casi "gravi", nei quali il comportamento del soggetto è
inequivocabilmente teso ad assicurare il successo del gesto suicida, dai casi di
"simulazione", dove l'agire suicidiario si palesa più come la forma estrema e
drammatica di un tentativo di comunicazione, finalizzata a padroneggiare una
situazione in cui il soggetto si percepisce come soccombente che come gesto teso
a perseguire effettivamente la propria morte. Infine, si distingue la categoria
denominata "gioco d'azzardo", in cui il soggetto tenta la morte, come così
spesso le cronache indicano, al fine prevalente di assicurarsi una overdose
emozionale.
L'analisi che Weiss compie, tuttavia, sembra recare il suo
evidente contributo nella dimostrazione della sovradeterminazione del gesto
suicida. Rifiutando ogni impostazione semplicistica nell'analisi del tentativo
di suicidio, egli infatti mostra che la sua dinamica "è più complicata ed
implica in tutti i casi lo scaricarsi delle tendenze aggressive contro di sé
(con probabilità letali variabili) in una sfida alla morte e in alcuni casi un
desiderio di punizione e una specie di giudizio di Dio" (Weiss, 1980).
In
chiusura, sembra poter riconoscere nei contributi più accreditati pervenuti
all'area di cui ci interessiamo, pur nella variabilità delle posizioni teoriche
proprie ai diversi studiosi, alcune considerazioni che in qualche misura li
accomunano.
Innanzitutto l'importanza conferita al ruolo della personalità
del soggetto, nel suo aspetto dinamico intrapsichico, lo stato dell'energia di
cui l'individuo dispone per fronteggiare e gestire i suoi conflitti interni;
alle abilità relazionali, riferite alla capacità o meno da parte dell'individuo
di instaurare legami oggettuali con l'ambiente e, particolarmente con le persone
per lui significative.
In secondo luogo l'importanza del ruolo del contesto,
nel suo senso più ampio di rete sociale, all'interno della quale l'individuo si
esperisce e traccia il suo percorso di vita. Infine, l'evento traumatico che si
mostra capace di scatenare il gesto suicida in quelle condizioni particolari ed
irripetibili di ciascun caso, che ne determinano l'originalità. Così che pare di
poter pienamente concordare con Scheideman e con Crepet (1903) che lo riporta e
commenta, che "L'unica cosa che hanno in comune dodici persone che si sono
sparate alla testa è la pallottola".
3. Il suicidio nelle forze armate
Come si è detto, le scienze dell'uomo hanno spesso dedicato al tema del
suicidio attenzione ed impegno. In questo ambito, anche il tema del
comportamento suicidiario tra i membri delle forze armate risulta essere stato
un oggetto notevole di interesse e di studio.
Infatti, esso risulta essere
stato in modo sistematico al centro delle ricerche degli studiosi dell'uomo fin
dalla fine del secolo scorso come testimoniano gli studi di un eminente
neuropsichiatra italiano, Enrico Morselli, autore tra l'altro, di accurati studi
sull'epilessia e sulle nevrosi post-traumatiche e di un importante manuale di
semeiotica delle malattie mentali. L'autore tratta il suicidio tra i militari
secondo una impostazione statistica che gli consente raffronti epidemiologici
interessanti ed una analisi accurata dell'oggetto di studio.
Egli così
perviene ad un duplice ordine di considerazioni. Innanzitutto che è possibile
rapportare il suicidio al tipo di attività lavorativa, emergendo dai dati
epidemiologici una frequenza nettamente superiore di questo gesto nelle
professioni che maggiormente richiedono un impegno profondo di energie mentali e
negli appartenenti alla carriera militare. In secondo luogo che è possibile
rintracciare, per quest'ultima categoria le determinanti del gesto suicida da un
lato nella prassi seguita dall'istituzione militare di assicurare una grande
mobilità territoriale ai suoi appartenenti, ciò che risponde all'esigenza di
adattare il militare alle mutevoli situazioni di servizio. Dall'altro lato
sembra notevole anche il grado di spersonalizzazione connesso con la disciplina
dell'istituzione, talvolta irrazionalmente perseguita, che induce, spesso,
atteggiamenti di insofferenza e di disgusto.
Tra gli studiosi classici più
acuti del fenomeno troviamo ancora una volta Durkheim, con il suo noto saggio
(1897) che rappresenta ancora oggi un punto di riferimento obbligato per quanti
si applicano allo studio dell'autochiria.
Il nostro autore indaga svolgendo
utili comparazioni epidemiologiche non solo tra l'andamento del fenomeno
riscontrato nella popolazione civile e quello verificato sia all'interno delle
strutture dell'Esercito e delle sue fasce gerarchiche e verifica alcune
interpretazioni correnti.
Innanzitutto sembra non reggere l'ipotesi che il
suicidio tra i militari possa ricondursi alla condizione di celibato così
frequente nei gradi inferiori dell'esercito perché il raffronto statistico con i
celibi della popolazione generale non lascia emergere differenze
significative.
Allo stesso modo l'ipotesi che considera come variabile
indipendente effetti legati alla disciplina quali l'insofferenza, il rifiuto per
questo genere di relazione, appare debole se si considera che l'accettazione
delle norme rigide che caratterizzano il servizio e l'adeguamento al trend di
vita militare dovrebbe stabilizzarsi a misura del tempo trascorso sotto le
armi.
Il dato, sorprendentemente, dimostra invece una frequenza nettamente
maggiore di suicidi tra i gradi medioalti -ufficiali e sottufficiali- che tra il
personale di truppa. Una analisi accurata delle caratteristiche della vita
militare da un lato e della capacità che le tensioni relazionali presenti in
essa hanno di plasmare la personalità degli addetti, porta Durkheim a constatare
che il militare di carriera presenta una struttura psichica resa particolarmente
permeabile all'azione di fonti normative esterne all'individuo, promuovendone la
campodipendenza. "Ben poco si deve tenere alla propria individualità per
conformarsi tanto docilmente agli impulsi esterni. In una parola, il soldato ha
il principio della sua condotta fuori da se stesso" (Durkheim, 1897, p. 227).
Più in generale, l'istituzione militare si costituisce come corpo sociale
atipico rispetto alla società generale, con le sue finalità speciali in favore
dell'intera collettività, con le sue regole di vita, il suo apparato normativo,
le sue fedeltà e promuove una integrazione sempre più completa dell'individuo
che gli appartiene ed una subordinazione pressoché totale ai valori generali che
persegue
Queste, per Durkheim, sono le coordinate di quella condizione che
definisce nella sua tipologia, di tipo altruistico, e questa è categoria alla
quale assegna quindi il comportamento suicidiario tra gli appartenenti alle
forze armate.
Infine, proprio perché la società militare tende a privare
progressivamente e in funzione inversa del grado gerarchico dell'individualità,
sembra possibile spiegare la maggiore frequenza del suicidio tra i militari di
carriera rispetto a quelli di leva e tra gli ufficiali, caratterizzati da una
maggiore autonomia decisionale, rispetto ai sottufficiali.
Se questi sono gli
studi oramai classici compiuti intorno al fenomeno dell'autochiria tra i
soldati, non mancano in tempi via via più recenti ricerche approfondite, studi
epidemiologici ed analisi interpretative che si sono posti l'obiettivo di
esplorare il fenomeno nei suoi aspetti più rilevanti.
Sul piano
epidemiologico si segnala lo studio di Somogyi (1961) che analizza il fenomeno
in Italia negli anni che vanno dal 1897 al 1950 e la sua occorrenza nella
popolazione generale e tra i membri delle forze armate. I dati che confronta
lasciano emergere come le frequenze maggiori di suicidio coincidano con il
primo ed il secondo periodo di belligeranza.
Pozzi (1971) dal canto suo,
applica l'attenzione alla specificità del rapporto tra istituzione militare e
suicidio con particolare riferimento alla nozione di integrazione. L'analisi che
compie della struttura funzionale dell'istituzione militare gli consente di
identificare i punti cruciali nei quali i flussi relazionali tra i membri
dell'istituzione, sembrano offrire ai militari le sollecitazioni più alte
moltiplicando le occasioni di frustrazione da un lato e mobilitando attivamente,
dall'altro, dinamiche di coping di tipo aggressivo suscettibili di innescare
anche il comportamento suicidiario.
Sotto un'angolatura più propriamente
filosofica si svolgono gli studi di Marra (1987) che utilizzando il concetto di
progetto esistenziale, già proprio della fenomenologia, tenta di ridurre la
dissonanza del gesto suicida.
Il progetto esistenziale risulta quanto di più
immediato per la persona, che lo traccia per sé in una prospettiva temporale
nella quale colloca le sue mete di realizzazione e ricerca le sue fonti di
autostima.
Un progetto che risulta diversamente realizzabile a seconda delle
forze contrastanti o favorenti che l'individuo incrocia lungo il corso della sua
vicenda; forze che talvolta sono un grado di soffocarlo quando non di negarlo.
In questo contesto il gesto del suicida assume la connotazione di un alto grido
di libertà progettuale. Una progettualità estrema che si riappropria, negandola,
della dignità della propria scelta di vita e in ultima analisi della propria
libertà.
Il suicidio tra i soldati perciò si descrive come l'effetto della
deformazione operato dalle forze insite nell'apparato costrittivo
dell'istituzione militare, dalla cogenza della sua normatività su un progetto
esistenziale forse rigido, certamente non sostenuto da una capacità di
fronteggiamento e di resistenza alla frustrazione e tuttavia fortemente sentito
dall'individuo in termini di autonomia e di libertà.
4. Epidemiologia del suicidio nelle Forze Armate Italiane
Presenteremo di seguito le linee di andamento del fenomeno suicidiario
tra gli appartenenti alle forze armate italiane colto in un arco di tempo che va
dal 1976 al 1991. Dai dati messi a disposizione dal V Ufficio del Gabinetto del
Ministero della Difesa si rileva nel periodo osservato una frequenza media annua
di decessi per cause diverse di circa 500 unità nelle tre armi e nel Corpo dei
Carabinieri. In particolare negli ultimi due anni osservati, le morti per
suicidio rappresentano la terza causa di decesso, con una frequenza percentuale
del 7%, preceduta dai decessi causati da malattie, con il 35.5% e da quelle per
incidenti automobilistici che si colloca al primo posto con una frequenza
percentuale del 40.4%.
La
descrive, per lo stesso arco di tempo, l'andamento dei decessi per suicidio
distinti per livello gerarchico (Ufficiali, Sottufficiali e Truppa) e per
condizione di stato "in servizio" (cioè all'interno delle caserme o strutture
militari) o "fuori servizio" (cioè in licenza o comunque fuori dalle
strutture).
Innanzitutto, dalla lettura della tabella risulta un dato
interessante e, preso in sé, allarmante, costituito dal fatto che nell'arco di
tredici anni il fenomeno si mostra quasi triplicato e presenta un picco nel 1986
con 47 decessi, mentre negli ultimi 4 anni sembra essersi notevolmente
ridotto.
In secondo luogo va osservato il raffronto che la tabella consente
tra i suicidi tra le variabili Militari di Truppa e Ufficiali + Sottufficiali.
Si nota, come probabilmente la letteratura non avrebbe fatto attendere, la
frequenza molto più elevata di suicidi tra i militari di Truppa, con una media
del 70% rispetto a quelli avvenuti tra gli ufficiali e i sottufficiali che sono
il 30% del totale. sia pure non sostenuta, dei decessi avvenuti nelle strutture,
soprattutto negli ultimi anni del periodo in osservazione.
Un terzo elemento
interessante emerge, ancora, dal raffronto tra le variabili "in servizio" "fuori
servizio". Qui si nota una frequenza sistematicamente maggiore dei decessi
avvenuti fuori dalle strutture militari, durante la fruizione di permessi o
licenze. Dall'altro canto, però, va notata una tendenza all'aumento
Infine,
l'analisi del confronto tra le variabili Ufficiali vs. Sottufficiali conferma il
dato presente in letteratura mostrando una frequenza percentualmente maggiore
dei suicidi tra i sottufficiali.
Come si è visto, il comportamento
suicidiario offre un trend di incremento molto sensibile nell'arco dei 13 anni
osservati. Un trend allarmante che va tuttavia ulteriormente esplorato per
tentare di coglierne le reali dimensioni. Ci è sembrato così utile procedere ad
un raffronto tra il numero di suicidi compiuti dagli appartenenti alle forze
armate e quelli verificatisi nella popolazione generale maschile in età tra i 18
e i 60 anni, lungo tutto il periodo di osservazione.
La
dà conto del confronto percentuale dei suicidi registrati tra gli
appartenenti alle Forse Armate e quelli verificati nella popolazione generale
maschile in età tra i 18 e i 60 anni in valori calcolati per 100.000 soggetti e
per un periodo di tempo che va dal 1976 al 1991.
Come si nota, l'andamento
del fenomeno assegna sistematicamente le frequenze maggiori ai suicidi
appartenenti alla popolazione generale e, per gli ultimi anni del periodo di
osservazione, si assiste ad un raddoppio, in favore di quest'ultima, delle
frequenze riscontrate.
Inoltre, dal confronto per fasce di età, operato dallo
stesso V Ufficio Gabinetto del Ministero della Difesa, risulta che il tasso di
suicidi compiuti nella popolazione generale maschile di età dai 18 ai 25 anni è
sensibilmente superiore a quello registrato tra i militari di leva (4.6/100.000
vs. 3.9/100.000).
Sulla scorta del complesso dei dati disponibili, riportati
nelle tabelle su esposte, sembra così di poter leggere più realisticamente il
fenomeno del suicidio tra i militari se lo si inquadra nelle linee di tendenza
complessive del comportamento suicidiario della popolazione generale,
cogliendone la sostanziale omogeneità. Una omogeneità che viene confermata dal
raffronto operato tra i valori riferiti al complesso di motivazioni che è stato
possibile accertare per i suicidi tra i militari e per quelli della popolazione
civile di riferimento.
Vi è innanzitutto un 40.6% di casi in cui non è
risultato possibile individuare la causa del gesto suicida. Del restante 59.4%,
è stato possibile accertare che il 34.3% dei soggetti presentava problemi di
ordine psichico e/o di disadattamento, il 12.5% ha scelto il suicidio a causa di
motivi affettivi o di rapporti con l'altro sesso, il 6.2% lo ha fatto a seguito
di problemi familiari e il 6.4% perché in stato di tossicodipendenza da droga o
alcool. Analoghe motivazioni al gesto suicida ed analoghi andamenti percentuali
del fenomeno sono riscontrabili nella popolazione nazionale di
riferimento.
Per quanto si riferisce al secondo dato saliente che vede,
in controtendenza con quanto in letteratura, un maggior numero di suicidi
assegnati ai militari di truppa rispetto alla variabile Ufficiali +
Sottufficiali, sembra possibile operare alcune considerazioni, riservandoci nel
prosieguo un ulteriore approfondimento.
Da un lato sembra necessario tenere
conto delle profonde trasformazioni che hanno investito l'istituzione militare
nel nostro Paese, che vanno dalla riduzione della ferma nelle tre armi, al
programma di "regionalizzazione" del servizio, all'impiego delle forze armate
per fini che non siano quelli strettamente di difesa (protezione civile, ordine
pubblico), alla nuova regolamentazione della libera uscita, alla migliore
organizzazione del tempo libero e della gestione delle licenze. Trasformazioni
che in qualche misura hanno avvicinato il mondo delle forze armate agli standard
degli altri paesi occidentali e soprattutto ha ridotto notevolmente lo iato fino
a poco fa molto forte con la nostra società civile.
Dall'altro lato, vi è da
richiamare il dato esposto in tab. B che indica come il 70% dei suicidi tra i
soldati sia compiuto da giovani di leva. Ancora, il tasso di suicidi tra i
giovani della società civile sembra rispecchiare abbastanza fedelmente
l'andamento delle morti giovanili autoprovocate che riscontrano nella società
civile.
Quest'insieme di elementi suggerisce l'ipotesi che il giovane
chiamato alle armi continui ad esprimere nel nuovo ruolo istituzionale lo stesso
disagio che ne caratterizzava la vita "borghese" ed a rispondere ad esso
attivando le stesse modalità di coping, talvolta autodistruttive.
Sembra,
tuttavia, anche di dover riconoscere come l'istituzione militare non solo faccia
ancora fatica ad identificare le fonti e le caratteristiche socio-psichiche del
disagio di cui il giovane può essere portatore ma manchi tuttora di una capacità
di risposta compiutamente valida, in grado di favorire l'acquisizione di
modalità di fronteggiamento costruttive.
Anche se sembra doversi riconoscere
all'istituzione militare, comunque, una capacità di "protezione" da
comportamenti suicidiari, come appare sottolineato dall'andamento dei dati del
raffronto tra le variabili "in servizio" vs. "fuori servizio", quest'ultima
sistematicamente più frequente della prima.
Da ultimo, va considerata la
differenza delle occorrenze suicidiarie posta in luce dalla contrapposizione
delle variabili "Ufficiali" vs. "Sottufficiali". Ad essere più facilmente
portato a mettere in atto comportamenti di tipo suicidiario risulta essere la
figura del sottufficiale, cioè di una persona che rappresenta un ruolo
intermediario tra l'area decisionale e progettuale dell'istituzione militare e
l'area esecutiva.
Un ruolo che in qualche misura risente di una doppia
sollecitazione, dall'alto e dal basso, alla quale deve quotidianamente
rispondere da un lato recependo linee direttive od opzioni alla elaborazione
delle quali si sente spesso totalmente estraneo, dall'altro assicurandone la
realizzazione attraverso la gestione ed il controllo della truppa e sapendosene
assicurare la collaborazione. Un ruolo quindi, particolarmente stressogeno tanto
più ove lo si consideri connesso con le problematiche derivanti da una carriera
caratterizzata da una mobilità verticale totalmente affidata agli automatismi e
ad uno status socioeconomico basso.
5. La Prevenzione
L'istituzione militare nel nostro paese ha inteso predisporre una serie
articolata di misure di intervento nei confronti del problema del suicidio non
occasionata dall'emozione indotta dalle notizie di cronaca, ma, come vedremo,
inserite in una prospettiva di prevenzione complessa.
Un primo gruppo di
iniziative poste in essere, si configura con i caratteri della prevenzione
primaria e fronteggia il problema della riduzione dei fattori di rischio su un
duplice versante. Da un lato quello dell'incremento della qualità dello
screening selettivo posto all'ingresso del periodo di leva. Qui vi è da notare
che alla tradizionale visita psicoattitudinale, tendente a rilevare appunto le
attitudini dell'individuo al fine di un inserimento produttivo nell'organismo
militare, si è sostituita una seduta psicodiagnostica che si avvale di strumenti
di indagine clinica complessi ed in grado di rilevare efficacemente i segni di
disturbo o di sofferenza psichica.
Alla somministrazione degli strumenti di
indagine si fa seguire un colloquio clinico, nel corso del quale il personale
specialistico che opera è in grado di approfondire la conoscenza del giovane non
solo in riferimento alle sue dinamiche motivazionali, ma anche in relazione ai
segni di disagio emersi nel corso della performance ai tests.
Dall'altro
lato, la prevenzione si esplica nella fase che potremmo definire di accoglienza
del giovane militare nell'istituzione. Qui sembrano tenuti in vista
particolarmente due obiettivi. Un primo rappresentato da iniziative in grado di
promuovere l'adattamento dell'individuo all'ambiente caratteristico
dell'istituzione militare, alle sue scansioni temporali, alle modalità
comportamentali codificate dai regolamenti, alle prestazioni particolari che ad
un militare vengono richieste. Un secondo è finalizzato alla facilitazione della
vita di gruppo, specie di piccolo gruppo, che è la dimensione nella quale il
militare svolge prevalentemente il suo tempo, ma che può mostrarsi anche
l'ambito psicologico in grado di fare da cassa di risonanza a situazioni di
disagio o di disadattamento potenzialmente pericolose.
A questo secondo ed
importante aspetto della prevenzione primaria vengono pertanto dedicate le
iniziative di formazione dei quadri soprattutto a livello di comandanti di
squadra o di plotone o di compagnia che, a diretto contatto con i giovani e
disponendo di un osservatorio strategico sulle dinamiche dei gruppi, sono in
grado di meglio cogliere gli eventuali sintomi di disagio. Possono inoltre farsi
rientrare nel quadro generale delle iniziative di prevenzione primaria anche
tutte quelle prestazioni che il personale sanitario militare assicura, per tutte
le branche della medicina, al giovane di leva, come ai militari in generale,
lungo tutto il decorso della permanenza sotto le armi.
Sul versante della
prevenzione secondaria, vengono attivate, all'atto della precoce manifestazione
di sintomi di disagio una serie di iniziative altrettanto rilevanti ed anch'esse
innovative rispetto alla modalità tradizionale di porsi della istituzione
militare nei confronti di questa problematica. Le iniziative vengono affidate
sostanzialmente a due strutture istituzionali nei cui ambiti si attivano le
strategie di fronteggiamento del disagio: gli speciali reparti degli Ospedali
militari e, più recentemente, i Consultori psicologici.
Infine, sul piano
della prevenzione terziaria si configura l'intervento esclusivo delle strutture
sanitarie dell'istituzione militare alle quali fa capo sia l'opera specialistica
di riabilitazione di tutte quelle patologie, di interesse psicologico ma anche
di interesse psichiatrico, non invalidanti, sia le iniziative sanitarie intese
ad evitare il riproporsi degli episodi di disagio.
Come si è detto, la
prevenzione, declinata nelle sue tre gradualità classiche, esplica nel moderno
assetto delle dinamiche istituzionali dell'Esercito una funzione particolarmente
di risalto. Ciò è vero, come si è visto, per la molteplicità delle iniziative
che vengono attivate a questo scopo, delle quali ci interesseremo ancor più da
vicino nel paragrafo successivo.
Ma è ancora più vero se si considera lo
sforzo che sembra rinvenirsi nelle direttive dello Stato Maggiore intese a
modificare il clima psicologico della vita militare per sottrarre quegli
elementi di automatizzante spersonalizzazione da un lato e di frizioni
interindividuali e di gruppo (rivalità personali, malinteso senso della
competitività, nonnismo) che tanta parte mostrano di poter svolgere nella
determinazione dell'insorgenza di un pericoloso stato di disagio
psichico.
6. Le Strutture
Come si è accennato sopra, le iniziative che l'istituzione militare ha
posto in atto per fronteggiare il rischio di suicidio, vengono affidate a
speciali strutture, prevalentemente di nuova costituzione.
a)
Nuclei Psicologici
Si tratta di una struttura operativa che affianca
le unità minori. L'azione preventiva di questa struttura viene affidata
all'Ufficiale Medico dirigente del Servizio Sanitario. Le iniziative di questo
quadro sanitario, che interagisce strettamente con il comandante del reparto,
con il cappellano militare e con le strutture sanitarie specialistiche di
livello superiore, da un lato sono rivolte alla rilevazione di eventuali segnali
di disagio psicologico e all'apprestamento di prime iniziative di
fronteggiamento e di eventuale dèpistage verso forme di intervento
specialistiche. Dall'altro svolgono un ruolo importante nella formazione e
nell'aggiornamento dei quadri di comando del reparto sulle problematiche
psicologiche rilevanti.
b) Centri di Coordinamento e Supporto
Psicologico
Sono strutture operanti al livello di unità di media
grandezza (Battaglioni, Reggimenti, Brigate, Scuole Militari) e si avvalgono
delle figure di un Ufficiale Medico, un Ufficiale esperto in problemi
psicologici, un Cappellano militare.
Sostanzialmente le funzioni assegnate al
CCSP sono analoghe a quelle svolte dai Nuclei psicologici di reparto ed inoltre
si attende da questa struttura il compito di coordinare nel merito l'attività
dei Nuclei stessi.
c) Consultori Psicologici presso gli Ospedali
Militari ed i Centri medico-legali
La struttura viene resa operante da
Ufficiali medici psichiatri, psicologi che si avvalgono anche dell'opera di
specialisti civili e di personale parasanitario.
Da queste strutture ci
si attende l'erogazione di iniziative di supporto psicologico e, in particolare,
la realizzazione di programmi di prevenzione e di ricerca
scientifica.
Infatti, a questi organismi si fanno riferire, per l'intervento
psicoterapico, le forme di disagio psichico che presentino una strutturazione
nevrotica di grado lieve, trattabile pertanto secondo modalità di intervento
ambulatoriale e rispondente ad iniziative di counseling o di tecniche di
sostegno sia individuali che di gruppo. Rientrano in questa area problemica i
comportamenti tossicofilici, specie al loro esordio e le reazioni di
disadattamento.
Le iniziative di fronteggiamento non si limitano
all'intervento di tipo clinico tout-court ma possono anche interessare tanto
l'ambiente quanto l'organizzazione della routine di servizio, all'interno del
quale è data facoltà all'èquipe di promuovere tutte quelle modifiche ritenute
efficaci per favorire il ripristino del pieno stato di salute.
In ordine alle
patologie di grado maggiore, configurate ad esempio da tossicodipendenze
protratte, sindromi nevrotiche consistenti, segni di sofferenza di tipo
borderline, il Servizio coordina la sua attività con il reparto di medicina
anche ai fini delle eventuali iniziative di interesse medico-legale che
dovessero rendersi necessari ed, eventualmente, in vista di una adeguata
prosecuzione dell'intervento terapeutico nella sede di residenza del
militare.
Come detto, il fronteggiamento del disagio psichico da parte di
queste strutture specializzate avviene attraverso una serie di iniziative mirate
alla natura e al grado del problema. Innanzitutto, sul piano della
formazione/informazione è ricorrente l'attivazione di T-Groups, rivolti al
personale militare e non. La tecnica, che deriva dalla prospettiva teorica di K.
Lewin e dalle esperienze di C. Rogers, mira allo sviluppo della sensibilità
interpersonale e delle attitudini alle relazioni sociali dei partecipanti.
Rivolti al personale medico, invece, si attivano ricorrenti corsi di
aggiornamento sulle tematiche del disagio psichico, intesi ad affinare le
tecniche di intervento ma soprattutto a mettere in grado l'operatore di
perseguire efficacemente gli obiettivi in un contesto del tutto
particolare.
Si comprende bene, infatti, quanto la gerarchia, l'apparato
regolamentativo della vita quotidiana, le peculiarità del servizio, i risvolti
medico-legali e fiscali, il clima generale dell'istituzione militare
differenzino l'agire dell'ufficiale sanitario da quello del medico tout-court.
Ciò crea difficoltà oggettive non certo nella erogazione di presidi sanitari
efficaci quanto nella instaurazione e nel mantenimento di un rapporto umano
significativo con il paziente e particolarmente nella attivazione di quella
alleanza terapeutica che è la precondizione per porre in essere qualsiasi
intervento valido sul piano psicologico. E' un agire, pertanto, particolarmente
delicato ed accorto quello che si richiede al sanitario militare, che deve
accompagnare a sicure capacità di intervento terapeutico doti personali di
empatia, relazionalità ed esplicarle spesso nelle condizioni più difficili, per
realizzare un intervento professionale che comporta un alto rischio psicologico
per l'operatore.
Infine, viene riferita sempre a questa struttura l'attività
di ricerca scientifica. Si tratta di iniziative volte ad accrescere la
conoscenza dei fenomeni legati al disagio mediante studi di tipo descrittivo o
mirati alla validazione di ipotesi genetiche, da un lato. Dall'altro, di
attività di interscambio e di collegamento con i centri di ricerca delle
Università e del sistema sanitario nazionale al fine di contribuire con la
peculiare esperienza realizzata nell'ambito dell'istituzione militare ai
programmi di ricerca scientifica connessi ai temi dell'igiene
mentale.
d) Nuclei Centrali per la Prevenzione delle Malattie
Psichiatriche
Sono strutture che dipendono dalla Direzione Generale
della Sanità Militare Interforze e vengono dislocate a livello dei Corpi
Sanitari delle tre Armi. Da queste strutture ci si attende la messa a punto e il
coordinamento delle linee generali di prevenzione. La formulazione delle
strategie di intervento è particolarmente sensibile alla prevenzione ed alla
terapia della tossicodipendenza e a questo scopo esiste una stretta interazione
con il Comitato interministeriale ad hoc al livello di Presidenza del Consiglio
e con gli organi del Ministero della Sanità.
Importante ai fini di cui ci
interessiamo risulta essere anche il lavoro di predisposizione e di
coordinamento al livello superiore, delle iniziative di formazione, alle quali
si è accennato, svolto sia al livello di Unità che nelle diverse Scuole di
Formazione, e rivolta annualmente a circa duemila medici. Risulta anche un
notevole contributo alla formazione di figure professionali che a fine ferma
spenderanno utilmente nell'ambito civile una esperienza altamente
specializzata.
Sembra utile ricordare, tra l'altro, l'istituzione di seminari
mensili di aggiornamento, rivolti a ufficiali medici specialisti in psichiatria
e in psicologia clinica, affidati ad ordinari delle Cattedre di Psichiatria,
Psicologia ed Igiene Mentale delle diverse Università.
7. Il Consultorio Psicologico di Verona: un'esperienza pilota
L'esperienza realizzata presso il Consultorio Psicologico istituito dal
Comando dei Servizi Sanitari della Regione militare Nord-Est nella città di
Verona può rappresentare un utile paradigma di prassi di ricerca-intervento
nella prevenzione primaria rispetto al problema del disagio psichico. Qui,
infatti, sono state realizzate a favore del personale militare di ogni grado
esperienze sistematiche di training autogeno basate sugli esercizi del ciclo
inferiore.
Ai corsi, realizzati secondo la metodica proposta da Binden
(1964), hanno partecipato un centinaio di effettivi, suddivisi in gruppi di
10-12 persone. Il corso ha previsto la realizzazione di 10 sedute nell'arco
complessivo di 4-5 mesi. Il setting ha previsto una parte dedicata alla
discussione in gruppo dei vissuti individuali, una parte dedicata alla
illustrazione dell'esercizio ed alla sua esecuzione ed una terza parte ancora
dedicata alla esplorazione ed alla analisi dei vissuti e delle
resistenze.
L'esperienza, tuttora in corso, prevede uno studio del follow-up.
I soggetti partecipanti vengono pertanto seguiti secondo i criteri del metodo
longitudinale attraverso gli strumenti dell'osservazione clinica, della ripetuta
somministrazione di batterie psicodiagnostiche e lo svolgimento di colloqui
individuali. Gli elementi raccolti nel corso dello studio longitudinale
consentiranno, alla fine dell'esperienza, di apprezzare gli effetti del
programma in relazione alle variabili della vita militare discusse fin qui come
probabili fonti generative del disagio.
8. Conclusioni
Il grido di allarme sull'incremento dei suicidi nel mondo è stato
ribadito nel recente convegno sul tema "La solitudine sociale" presieduto a
Milano nell'ottobre del 1995 dal prof. Domenico de Maio. Dai contributi afferiti
al convegno il quadro delle morti autoprocurate risulta essere tale da indurre
ad una profonda riflessione. Secondo dati dell'Organizzazione Mondiale della
Sanità, circa 2.000 persone si uccidono ogni giorno nel mondo, collocandosi il
suicidio nei vari paesi tra il quinto ed il decimo posto delle cause di morte.
L'autochiria interessa nei soli paesi europei circa 135.000 persone all'anno e
di queste 4.000 morti si verificano nel nostro paese. Se l'età media del
suicida, prevalentemente di sesso maschile, si aggira tra i 50 e i 60 anni, nota
Sansoni (1995) che resoconta i lavori, purtroppo sono in aumento i suicidi dei
ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Ai suicidi compiuti si devono sommare i tentativi
di suicidio, che risultano essere frequenti alle età di 15-30 anni ed
interessano prevalentemente le donne. Generalmente ciò che è stato definito
"parasuicidio" si compie in circostanze tali che risulta possibile ricevere
soccorsi tempestivi, per cui tale gesto sembra doversi leggere più come
richiesta di aiuto che come vera e propria determinazione alla morte.
Al di
là delle diverse impostazioni teoriche offerte dagli studiosi, a Sansoni sembra
di poter cogliere un denominatore comune che in qualche misura collega le
diverse forme del desiderio di morte analizzato dagli studiosi: la solitudine.
Sia essa "quella di chi vive nelle grandi città, negli edifici dove gli
inquilini si incontrano tutti i giorni ma non si parlano, dei vecchi,
abbandonati negli ospizi, dei pazienti ospedalizzati, degli extracomunitari
lontani dai paesi d'origine, (...) di chi vede nella morte il pericolo della
propria esistenza e di chi identifica nella morte la fine delle proprie
sofferenze".
Naturalmente i dati, certamente già allarmanti, di cui si
dispone ufficialmente non sono che la punta emergente dell'iceberg se solo si
riflette alla quantità di casi di suicidi dissimulati, eseguiti in modo tale da
far apparire la morte come accidentale, dovuta ad infortunio o ad incidente.
Oppure se si considera che tante morti autoprovocate, proprio per la contiguità
che la rappresentazione sociale del suicida ha con quella dello squilibrato se
non del folle, suscitano nella famiglia della vittima sentimenti di vergogna e
desiderio di dissimulazione.
In queste coordinate generali, il fenomeno
dell'autochiria nelle forze armate di cui fin qui abbiamo tentato di esplorare
alcuni aspetti, induce alcune riflessioni con le quali concludere queste
note.
Una prima osservazione che ci sembra di poter avanzare è che il
suicidio nelle forze armate, come evento sociale, non sembra rappresentare
specificità fenomenologiche tali da consentirci di distinguerlo dal
comportamento di autochiria mostrato dalla popolazione generale. Una analisi
ravvicinata e contestualizzata della casistica lascia emergere due ordini di
fattori, specifici e aspecifici, strettamente interconnessi, in grado di
spiegare il suicidio del soldato e che abbiamo tentato di evidenziare nel corso
del ragionamento proposto innanzi.
Si mostrano innanzitutto fattori
a-specifici, che possono essere riferiti al soggetto protagonista del gesto
suicida. Tali elementi, vere linee di clivaggio, possono dar conto del fattore
di rischio soggettivo che si compone dei traumi, delle difficoltà evolutive, dei
mancati superamenti dei compiti di sviluppo, della labilità psichica, della
presenza di comportamenti tossicomanici, di cui il militare può essere
portatore.
Un ulteriore complesso di elementi etiologici, analogamente di
natura a-specifica, possono identificarsi nelle caratteristiche "contestuali"
della storia evolutiva del soggetto: le figure genitoriali, l'ambiente sociale e
culturale di provenienza con le sue connotazioni di eventuale deprivazione e/o
rigidità, la trama relazionale di cui il soggetto è parte, il sistema di
ruoli-regole di cui egli si sente investito, lo status acquisito nel gruppo
sociale di cui è componente, la sua natura, il suo clima, la sua microcultura,
le sue dinamiche eventualmente i fenomeni di devianza cui il soggetto o il
gruppo stesso sia interessato.
L'altro ordine di fattori etiologicamente
rilevante sembra potersi riferire specificamente all'istituzione militare in
quanto corpo sociale fortemente connotato come un organismo coeso, sorretto da
regole rigide e corrispondenti sistemi di ruoli e di status, a lenta mobilità
verticale, all'interno del quale i flussi di informazione, privi generalmente di
ogni aspetto metacomunicativo, orientano un agire individuale e collettivo che è
consueto e prevedibile.
All'interno di questo corpo sociale, poi, la cultura
ed il clima di cui è portatore che, da un lato tendono ad omogeneizzare ai suoi
standard sostanzialmente stabili le persone che di volta in volta la compongono
nonostante il pur notevole turn-over che caratterizza questa istituzione,
dall'altro consentono il permanere di stereotipi comportamentali ritualizzati
(il nonnismo nelle sue più diverse varianti) che talvolta hanno manifestato la
capacità di interferire negativamente sull'equilibrio psichico di taluni
soggetti.
Sembra tuttavia, dall'analisi fin qui condotta, che né i fattori
aspecifici né quelli specifici possano di per sé rappresentare efficacemente
motivi generativi della condotta suicidiaria
Ci è parso, nello studiare le
connotazioni che sostengono la rappresentazione collettiva che la società
elabora dell'istituzione militare, di cogliere fattori di ordine ancor più
generale utili per l'interpretazione del fenomeno di cui trattiamo.
Le tre
Armi, i diversi corpi di cui si compongono sembrano sollecitare nella più ampia
collettività un atteggiamento duplice ed ad una prima analisi forse
contraddittorio.
Da una parte si manifestano dinamiche emotive a volte
abbastanza intense, si pensi a quelle attivate da un reparto di bersaglieri che
sfila di corsa con la fanfara in testa o alla carica del carosello storico
dell'Arma dei carabinieri, oppure alla parata degli alpini o dei reparti
paracadutisti. Sono dinamiche emotive che difficilmente non coinvolgono lo
spettatore, attivando meccanismi di identificazione e promuovendo un senso di
prossimità, di continuità con l'istituzione militare.
Dall'altra parte si può
registrare, viceversa, un senso di discontinuità, quasi di estraneità nei
confronti delle forze armate che si lascia cogliere, ad esempio, nei discorsi
dei giovani non solo quando considerano l'istituzione militare ed il servizio di
leva in una prospettiva sociale ideologicamente connotata, ma anche quando le
osservazioni si riferiscono alla propria prospettiva di lavoro e di inserimento
attivo nella società.
Il periodo di servizio di leva viene, così, considerato
come un periodo di "tempo perduto" ai fini dell'inserimento sociale, quasi un
momento di arresto della crescita dell'individuo, quando non addirittura fonte
di esperienze negative (approccio con la droga, relazioni interindividuali
pericolose etc).
Sembra che tale ordine di fattori contribuisca efficacemente
a determinare quell'atteggiamento di distanziamento dall'istituzione militare di
cui si parlava, che in qualche misura è implicato nella produzione del disagio
psicologico così spesso riscontrato alla base del gesto suicida del
soldato.
Così che pare indispensabile, sulla via della prevenzione primaria,
pensare in termini seriamente operativi, innanzitutto ad una analisi
interdisciplinare in grado di esplorare a fondo e rimuovere i nodi critici (a
taluni dei quali in qualche misura si è fatto riferimento nei paragrafi
precedenti) che l'istituzione militare nel suo complesso presenta relativamente
alla problematica del disagio già segnalata.
In secondo luogo, sembra
indispensabile promuovere una approfondita rielaborazione della organizzazione
contenutistica della "vita di caserma" tenendo in vista l'obiettivo di far
saltare gli elementi di separatezza e di dis-continuità con la "vita civile" per
favorire una rappresentazione collettiva dell'istituzione militare come di un
ambito sociale utile non solo nella prospettiva della difesa della collettività
(da eventi bellici o da calamità naturali) ma anche rispetto alle problematiche
vive della società generale di cui è parte.
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(Si ringrazia il Dott. Antonio La Bella per la raccolta dei dati.)