Mario Capunzo
Emanuele Gin


Darsi la morte con le stellette.
Il suicidio nelle forze armate

1. Della morte e del morire


Una analisi dell'atteggiarsi dell'uomo nei confronti della morte e, più nello specifico, del comportamento suicidiario, riferita al contesto della società post-moderna, rischia di finire con il trasformarsi nella analisi di una contraddizione.
Se, infatti, non è possibile sostenere l'affermazione di uno scotoma completo del tema generale della morte e del morire da parte della cultura contemporanea, pure non si può non riconoscere la difficoltà di ciascuno nel trattare sia pure in forma non sistematica del problema della morte e particolarmente del tema del suicidio. La cultura contemporanea ha certamente compiute riflessioni intorno alla morte, di derivazione filosofica, com'è il caso del filone fenomenologico-antropoanalitico-esistenzialistico, o etnografico-antropologico oppure di marca schiettamente sociologica inaugurato da Durkheim.
Tuttavia, non si può non riconoscere il tentativo sistematico operato dalla nostra società di una rimozione a più livelli dell'idea di morte. Da un lato, ad esempio, la cultura del "fitness", o meglio con le parole di Ernst (1992) del "feticismo della salute", sembra cogliere il livello più superficiale di questa rimozione, quello dell'immagine. Qui la morte viene espunta attraverso l'esibizione della vita nella pienezza dell'energia, della plasticità, della bellezza del corpo che nella rassicurante pregnanza del vigore respingono oltre i confini dell'orizzonte psicologico di ciascuno la sofferenza, il disagio, la morte appunto.
Segnale dell'altro livello di espunzione sembra potersi riconoscere nella rarità degli studi scientifici sul tema della morte che sono reperibili in letteratura fino alla metà degli anni '60. Tuttavia, da questo periodo in poi, anche forse sull'onda dell'oramai classico "On death and dying" di E. Kubler-Ross, si è assistito ad un moltiplicarsi dei lavori sulla morte, come sottolineano Robustelli e Pagani (1983) e la freddezza dello stesso mondo accademico su questo tema è andata via via sciogliendosi. Viene fondato un movimento "per la consapevolezza della morte" al quale aderiscono nomi prestigiosi come quelli di Kastenbaum, Costa, e nel 1970 viene inaugurata una rivista, "Omega", a cura di R.A. Kalish dell'Università di California, che pone al centro dei suoi interessi appunto la morte, il suicidio, il lutto.
Questi eventi, che rompono il "silenzio sulla morte" (Goleman, 1983), hanno anche la funzione, nella analisi che Robustelli e Pagani di essi compiono, di mettere in tutta luce una contraddizione, che pare tipica di una società che, fondando sulle promesse positivistiche del diciannovesimo secolo, ha reperito nelle coordinate del benessere e del consumismo mercantile i soli parametri sui quali misurare il proprio sviluppo. "Nel momento in cui la classe dominante sostituisce al mito del paradiso celeste il mito del paradiso terrestre la strumentalizzazione del pensiero della morte non è più possibile. Se il tramite per il paradiso non è più costituito dalla rassegnazione ma dall'automobile, dagli elettrodomestici, dai vestiti all'ultima moda ecc. è bene non sbandierare troppo il memento mori . Chi consumerebbe forsennatamente tante cose inutili se pensasse continuamente che deve morire?" (Goleman, 1983, p. 28).
Senonché, questa analisi, che appare per la gran parte corretta, è svolta con un taglio psicosociologico che contrae evidenti debiti anche su un piano ideologico e sembra privarsi, appunto per questa sua fissità, della possibilità di cogliere quanto di radicale accade nell'atteggiarsi dell'uomo moderno nei confronti del senso del limite assoluto rappresentato dall'idea della morte.
Qui, sembra utile recuperare in tutta la sua pregnanza la nozione di "crisi della presenza" estendendone il significato dalla minaccia alla esistenza in quanto tale, che appartiene al ragionamento di De Martino che lo svolge nel dar conto della funzione del sacro e della superstizione presso le comunità rurali, per tentare di esplorarne una valenza più complessiva, riferita alla condizione dell'uomo -in quanto tale- che assume consapevolezza delle coordinate ineluttabili della sua esistenza.
D'altro canto, se nelle comunità rurali la precarietà dell'esistenza viene fronteggiata mediante l'attivazione di comportamenti ritualizzati che, sull'onda della trasmissione orale, percorrono trasversalmente tutte le culture contadine e attivano salvaguardie psicologiche in grado, in qualche misura, di esorcizzare la fine e con essa il pericolo dell'esistenza, non è meno vero che, lungi dall'essere dissolta nelle cosiddette civiltà urbane, l'angoscia della morte e con essa tutto il patrimonio di minacce alla vita, aleggia ancora nell'inconscio collettivo, come Apolito (1980) nella sua lucida analisi delle "Lettere al Mago" ha puntualmente mostrato.
Si può, così, rilevare, nei confronti della morte e del morire, un atteggiamento duplice che, per un verso, si attiene alle culture rurali, nelle quali l'idea della fine viene in qualche modo "padroneggiata" attraverso il ricorso a meccanismi di controllo assolutizzanti, di cui le propiziazioni, le tecniche scaramantiche ed il sortilegio costituiscono lo strumento.
Per l'altro verso, proprio delle civiltà urbane, si esplica come tentativo non più di esorcizzazione quanto, primariamente, di rimozione, e, quando il meccanismo non raggiunge i suoi fini, di isolamento e di regressione.
Entrambi gli aspetti, quindi, non sembrano legarsi che superficialmente alle contingenze strutturali della comunità sociale (divisione del lavoro, conflitti e dinamiche produttive), colte dall'analisi di Robustelli e Pagani, ma mostrano in tutta luce, invece, il valore di rassicurazione che svolgono nei confronti di una crisi della presenza, che è più complessiva e più profonda, e che si declina, come una costante, sopra la storia dell'uomo, ne definisce la precarietà delle coordinate esistenziali, la provvisorietà ineludibile del suo progetto e, con ciò stesso, se ne fa emblema originale. Talché la contraddittorietà sopra riferita alla nozione di morte e del morire mostra le sue vere radici nell'essere la contraddittorietà ontologica dell'uomo stesso. In questa luce, paradossalmente, la condotta suicidiaria può costituirsi, più che come stigma di tale contraddittorietà, come un tentativo estremo, ancorché contraddittorio esso stesso, del suo superamento mediante la tragica e radicale riappropriazione da parte dell'individuo che la opera, della decisionalità che gli appartiene.

 

2. L'autochiria: una sfida alla comprensione


Questo gesto così sconcertante, apparentemente così dissonante con le potenti manifestazioni di conservazione della vita operanti nel singolo individuo e nella specie e così diffuse nel mondo vivente, è tuttavia presente in tutta la storia conosciuta dell'uomo. Nei suoi confronti egli ha elaborato ipotesi esplicative che sono valse come tentativi più o meno riusciti di ridurre l'inquietante dissonanza del suicidio collocandolo di volta in volta all'interno di contesti interpretativi diversi: da quello religioso, a quello filosofico, psicologico, politico o sociologico.
Sembra tuttavia utile notare, a questo punto, come il senso di radicale estraneità che, quasi un riflesso, il gesto suicida richiama nel nostro contesto sociale e culturale, si sia venuto costruendo nel corso della storia dello sviluppo dell'uomo, particolarmente a seguito dell'universalizzarsi, tra le religioni monoteistiche, del cristianesimo.
Infatti, le culture estremo orientali pre-islamiche coltivavano un atteggiamento di comprensione nei confronti del suicidio che lo giustificava in relazione a momenti di particolare tensione emozionale/spirituale, come quelli vissuti dagli asceti lungo la via della liberazione dai lacci della condizione umana o dagli appartenenti alle caste superiori che lo invocavano come gesto estremo di difesa del proprio onore. Analogo atteggiamento di comprensione contraddistinse la grecità classica, che in diversi atteggiamenti filosofici del suo sviluppo, com'è il caso dello stoicismo o dello scetticismo, incluse il gesto suicida tra i comportamenti convenienti al vero saggio.
Allo stesso modo, nel pensiero romano il suicidio mantenne la sua ragion d'essere sia come estrema protesta contro la tirannia, come fu il caso di Seneca, sia come ultimo baluardo dell'onore, come indica Cicerone o dell'amore, com'è nelle testimonianze di Lucrezio, di Virgilio od Ovidio. Un atteggiamento, peraltro, condiviso dalle genti barbare della Gallia pre-romana e romana o della Germania, dove l'accesso al paradiso del walhalla era propiziato dal gesto suicida per le vedove dei caduti in battaglia.
L'introduzione del cristianesimo nei sistemi sociali europei, conseguente al crollo dell'Impero e oramai pressoché completa attorno all'anno mille, provocò un graduale mutamento di atteggiamento nei confronti del suicidio che cominciò ad essere sempre più frequentemente assimilato all'omicidio e a condividere la condanna morale irrogata per quest'ultimo. Eretica, appunto, fu definita la posizione del catarismo che invece il suicidio non condannava ma esaltava come ultimo stadio del percorso mistico dell'iniziato che, rifiutando col cibo la vita, si avviava mediante l'Endura alla piena libertà ultramondana.
Tuttavia, l'atteggiamento di ferma condanna formulato in sede teologica dai padri alto-medievali conteneva pure, com'è mostrato dalla speculazione di S. Tommaso, germi di riflessione che si esprimeranno compiutamente solo in epoche molto successive, laddove l'Aquinate, intravvedendo nel gesto suicida quello di un malato, gli offriva comprensione e forse perdono.
Con i secoli diciottesimo e diciannovesimo l'atteggiamento della opinione pubblica intorno al tema della morte scelta per sé conobbe ulteriori trasformazioni. Da un lato, il gesto suicida trovò progressivamente un atteggiamento comprensivo e possibilista nelle speculazioni teoriche del liberismo razionalistico del secolo dei lumi, poi nel successivo ottocento acquistò una cornice giustificazionista nella letteratura romantica europea, emblematicamente in quella foscoliana e leopardiana. Queste determinanti culturali in senso lato, ma soprattutto quanto si venne facendo in questo periodo nello specifico delle scienze dell'uomo, tanto sul versante delle conoscenze dell'organismo quanto su quello dei saperi che si andavano organizzando a proposito del disagio e dell'intervento sul disagio (sociologia, medicina, psichiatrie, psicologie) rappresentò l'ambito culturale in cui maturò una riflessione scientifica sempre più seria attorno al tema della morte autoprovocata.
L'alveo del pensiero sociologico fu probabilmente il primo ad accogliere questi mutamenti e la teorizzazione di Durkheim (1897), sul suicidio, contestualizzata in una più ampia riformulazione dell'evoluzione delle società umane e delle tensioni dinamiche che ne governano l'aggregazione ed il consenso, rappresenta un coraggioso sforzo di decifrazione ed assieme un importante tentativo di classificazione di quest'evento così misterioso.
Per questo studioso, come è noto, se il transito dalla società primitiva a quella complessa ha il senso del passaggio dallo stato di indifferenziato aggregarsi di uomini - sulla base di bisogni e paure - a quello della interazione organica delle persone- sulla base della "coscienza collettiva" che fonda tra essi l'articolazione dei ruoli e delle funzioni- il suicidio, allora, non può che essere la testimonianza tragica, appunto, della mancata integrazione del singolo, l'incapacità/impossibilità di ritrovare le ragioni dell'essere nel ruolo, nel contesto, nella finalità egosintoniche o egodistoniche del metaorganismo sociale.
Si tratta, così, di una dimensione dell'essere che in qualche misura attraversa le diversità fenomenologiche con cui si manifesta il gesto suicida, sia esso compiuto come atto "altruistico", dove le proprie ragioni dell'essere nel ruolo cedono in favore dell'esigenza di garantire quelle dell'altro; oppure come gesto "egoistico", dove sono le radici stesse dell'essere nel ruolo ad essere irreperibili per un progetto personale divenuto oramai irrealizzabile o svanito; oppure, ancora, di tipo "fatalistico" quando siano percepite come invincibili le forze oppositive che il progetto contrastano o soffocano; oppure, infine, come gesto di carattere schiettamente "anomico" che dà conto dell'impossibilità sopraggiunta per il soggetto di reperire i punti di riferimento che contestualizzano il suo progetto di vita come itinerario possibile e coordinato a quello degli altri.
Diverse coordinate teoriche di riferimento per una analisi dell'autochiria offre Gabriel Tarde, che la inserisce nel contesto della sua teoria della "propagazione imitativa" o "legge della imitazione" (Tarde, 1907), con la quale ambisce a fornire una ipotesi generale dello sviluppo e della riproduzione della società. Tarde, per ciò che attiene allo specifico del suicidio, ritiene di poterne riferire la genesi e la diffusione a tre fattori principali.
Un primo risulterebbe insito nella evoluzione stessa delle società che concomita al venir meno delle norme regolatrici di ispirazione religiosa e tradizionale e al moltiplicarsi degli spazi non coperti nella vita sociale da parametri valutativi condivisi e funzionali della condotta individuale.
Un secondo potrebbe essere riferito al diffondersi dell'alcoolismo, anch'esso progressivo nelle società industriali ed in grado di indebolire nel singolo i vincoli relazionali, le difese nei confronti della frustrazione e di scatenare le condotte masochistiche del suicida. Da ultimo, lo sviluppo tecnologico che induce l'aumento della mobilità all'interno delle società moderne e il diffondersi delle comunicazioni di massa ed il velocizzarsi della circolazione delle informazioni, rappresenterebbe il moltiplicatore per la "propagazione imitativa" del fenomeno suicidiario.
Le sociologie durkheimiana, declinata sopra il versante dell'analisi più propriamente strutturale del fenomeno e quella tardiana, aperta anche all'istanza psicologica, convergeranno negli studi recenti dei due americani Henry e Short (1954), in una prospettiva tendente ad una lettura integrata tra le dinamiche sociali di ordine generale che investono una società quali i flussi economici, le crisi sociali, da un lato, e i meccanismi di controllo sociale e le dinamiche aggressive inter ed intraindividuali, dall'altro.
Il piano interpretativo psicodinamico, tuttavia, sembra essere quello che ha offerto le maggiori suggestioni alla ricerca. A partire dalle riflessioni condotte da Freud nel 1920 con il saggio "Al di là del principio del piacere", che riprendevano e rielaboravano le tesi affacciate in "Lutto e melanconia", in cui veniva esplorato il concetto di pulsione di morte come costitutivo di una dinamica intrapsichica che lo vedeva contrapposto alle pulsioni autoconservative, gli studiosi di questo indirizzo hanno variamente collegato il gesto estremo del suicida alle diverse componenti pulsionali della mente.
Henseler fonda la sua analisi del suicidio riferendola alla nozione di narcisismo. Come è noto, nella teorizzazione freudiana il narcisismo descrive una situazione di centrazione dell'energia psichica sul soggetto stesso.
Questa condizione, che originariamente investe le funzioni vitali dell'organismo permettendone la attività e lo sviluppo, rimane una delle fonti principali di sostegno dell'Io lungo tutto il corso della vita dell'individuo.
La funzione del narcisismo viene particolarmente sottolineata dallo psicoanalista tedesco che distingue nella pulsione narcisistica una doppia polarità che si mostra in stretto rapporto con la formazione del Sé e in immediata dipendenza della natura delle relazioni oggettuali dell'individuo. Si ha un investimento di segno positivo quando l'Io è capace di un esame di realtà adeguato e perciò in grado di instaurare relazioni oggettuali significative e simmetriche. Si fonda in questo modo l'autostima esperita sulla scorta di un realistico progetto di sé in cui la espressione delle proprie potenzialità è commisurata a una gamma di valori percepiti come sintonici e perseguibili.
La nozione di narcisismo negativo, invece, denota una condizione di impossibilità di compiere l'esame di realtà secondo modalità funzionali, per cui il soggetto manca di un adeguato parametro di strutturazione del Sé che, non potendo progettarsi in una dinamica relazionale stabile e sicura, può oscillare tra livelli di autostima esageratamente elevati o ingiustificatamente bassi.
L'atto suicida, in una prospettiva di questo genere rimanda quindi da un lato alla precarietà del Sé negli aspetti costitutivi della relazionalità oggettuale e delle dinamiche compensatorie di identificazione, dall'altro alla labilità del tessuto emozionale di una personalità che non è nelle condizioni di gestire una mobilità invalidante dei livelli di autostima.
In questa ottica, l'attenzione ai momenti generativi del disagio che potrà divenire suscettibile di sfociare in un gesto autolesionistico si appunta alle fasi precoci di formazione della personalità. In realtà è proprio di tutti gli studiosi di ispirazione psicoanalitica rivolgere alle prime fasi dell'infanzia e della preadolescenza le domande sulle motivazioni dei disturbi delle età successive; ciò che vale a maggior titolo per l'oggetto delle nostre riflessioni.
E' il caso di Horney (1953) che, nell'ambito di una complessa rielaborazione delle basi teoriche freudiane, introduce il concetto di bisogno di perfezione che, assieme all'ambizione nevrotica e al bisogno di trionfo vendicativo, rappresentano le modalità attraverso le quali l'individuo tenta una gestione dell'angoscia derivante dai "conflitti di base" infantili. La dinamica stessa del conflitto di base aliena in qualche misura il soggetto da sé, avviando il suo progetto di vita sempre più nel dominio della fantasia. Gli sviluppi di queste linee dinamiche possono così comportare, come sottolinea Kelman "disprezzo di sé, autoaccuse, autofrustrazioni, autotormento, autodistruzioni", in una spirale che trova il gesto suicida come naturale compimento.
Allo stesso modo, altri esponenti dell'indirizzo psicoanalitico collegheranno, in varia misura, le distorsioni occorse nella storia dinamica infantile con quella disintegrazione della personalità che Weiss (1980) indica come la variabile più importante nella etiologia del suicidio.
Qui può essere opportuno solo sottolineare come, ad esempio, anche per gli studiosi di scuola adleriana l'itinerario del disagio - suscettibile di esprimersi nel gesto estremo - si giochi nella dinamica di una competizione complessuale che trova i suoi momenti generativi, da un lato nella costituzione psicofisica del soggetto e, dall'altro, nella storia dell'evoluzione della sua relazionalità.
Così come per gli studiosi di scuola junghiana, che legano le dinamiche intrapsichiche ad una dimensione che sa essere anche sovraindividuale, il gesto del suicida sembra potersi riferire ad un processo di regressione, attivato dalla impossibilità di individuare in questa sua occasione di vita un percorso di realizzazione del Sé e sostenuto dalla speranza di poter fruire, appunto attraverso la propria morte, di una ulteriore chance.
Si tratta come si vede, per l'indirizzo psicoanalitico nei riguardi dell'oggetto del nostro studio, di focalizzare e di mettere in luce da un lato la complessa dinamica delle istanze costitutive della personalità, l'Io, l'inconscio, il Super-Io, colta tanto sul piano intrapsichico che su quello relazionale e il complesso gioco dei meccanismi di identificazione, di proiezione, di internalizzazione.
Dall'altro di osservare la dialettica di forze psichiche primarie quali la pulsione di vita e la pulsione di morte, Eros e Thanatos, in funzione della capacità che mostrano di sostenere un progetto di vita o, viceversa, di renderne impossibile la realizzazione.
Un impianto interpretativo che si ritrova, ad esempio nell'analisi di Fenichel (1951), che ipotizza il gesto suicida come ultimo anello di una catena di colpevolizzazioni emananti da una struttura superegoica di tipo sadico. Qui si assiste alla resa dell'Io all'angoscia emanante dalla rigidità nevrotica del super-Io e, al tempo stesso, alla disperata rivolta dello stesso Io contro l'istanza morale della personalità che non gli lascia scampo.
Analogamente, Menninger (1933, 1938), che offre una ampia classificazione tipologica dell'autochiria, riferisce il suicidio alle vicende dinamiche delle pulsioni basilari di Eros e Thanatos allorché le forze della conservazione della vita vengono sopraffatte dall'istinto di morte a seguito del drammatico conflitto tra le imago delle figure di identificazione che sono state introiettate dal soggetto.
Identificazione che anche Bernfeld presuppone quando indica nella analisi dell'aggressività criminale che egli compie riconosce nel suicidio la trasformazione dell'omicidio. Con questo gesto, si uccide se stessi per uccidere l'altro, o almeno la immagine dell'altro con la quale ci si è in qualche misura identificati.
Naturalmente, l'attenzione alla problematica rilevante delle dinamiche generative del gesto suicida è un focus presente nei programmi di ricerca di studiosi dei vari indirizzi della psicologia.
Ora, mentre per una rassegna esauriente si deve rimandare ai lavori oramai classici di Farberow e Schneideman (1961) e di Dublin (1963) per un inquadramento generale, se pur breve, delle teorie interpretative del suicidio può essere utile il lavoro di Crepet (1993), in questa sede, e per chiudere questa nota introduttiva, si può solo sottolineare taluni di questi contributi come quello offerto da Weiss (1980), che indica una genesi trifattoriale nel comportamento suicidiario.
Da un lato, gioca l'insieme degli atteggiamenti del gruppo sociale di appartenenza con il suo apparato valoriale e i comportamenti di ruolo sanciti; dall'altro, la componente dovuta alle circostanze all'interno delle quali il soggetto si muove ed, infine, la relazione dinamica che tali elementi instaurano con l'intera personalità dell'individuo.
E' solo ricorrendo all'analisi di questa interazione, secondo Weiss, che si può tentare una spiegazione della variabilità della reattività interindividuale nei confronti delle situazioni traumatiche che per alcuni soggetti conduce al suicidio tentato o compiuto.
Proprio in ordine ai tentativi di suicidio, la classificazione proposta da Weiss, Nunez e Schaie (1961) distingue i casi "gravi", nei quali il comportamento del soggetto è inequivocabilmente teso ad assicurare il successo del gesto suicida, dai casi di "simulazione", dove l'agire suicidiario si palesa più come la forma estrema e drammatica di un tentativo di comunicazione, finalizzata a padroneggiare una situazione in cui il soggetto si percepisce come soccombente che come gesto teso a perseguire effettivamente la propria morte. Infine, si distingue la categoria denominata "gioco d'azzardo", in cui il soggetto tenta la morte, come così spesso le cronache indicano, al fine prevalente di assicurarsi una overdose emozionale.
L'analisi che Weiss compie, tuttavia, sembra recare il suo evidente contributo nella dimostrazione della sovradeterminazione del gesto suicida. Rifiutando ogni impostazione semplicistica nell'analisi del tentativo di suicidio, egli infatti mostra che la sua dinamica "è più complicata ed implica in tutti i casi lo scaricarsi delle tendenze aggressive contro di sé (con probabilità letali variabili) in una sfida alla morte e in alcuni casi un desiderio di punizione e una specie di giudizio di Dio" (Weiss, 1980).
In chiusura, sembra poter riconoscere nei contributi più accreditati pervenuti all'area di cui ci interessiamo, pur nella variabilità delle posizioni teoriche proprie ai diversi studiosi, alcune considerazioni che in qualche misura li accomunano.
Innanzitutto l'importanza conferita al ruolo della personalità del soggetto, nel suo aspetto dinamico intrapsichico, lo stato dell'energia di cui l'individuo dispone per fronteggiare e gestire i suoi conflitti interni; alle abilità relazionali, riferite alla capacità o meno da parte dell'individuo di instaurare legami oggettuali con l'ambiente e, particolarmente con le persone per lui significative.
In secondo luogo l'importanza del ruolo del contesto, nel suo senso più ampio di rete sociale, all'interno della quale l'individuo si esperisce e traccia il suo percorso di vita. Infine, l'evento traumatico che si mostra capace di scatenare il gesto suicida in quelle condizioni particolari ed irripetibili di ciascun caso, che ne determinano l'originalità. Così che pare di poter pienamente concordare con Scheideman e con Crepet (1903) che lo riporta e commenta, che "L'unica cosa che hanno in comune dodici persone che si sono sparate alla testa è la pallottola".

 

3. Il suicidio nelle forze armate


Come si è detto, le scienze dell'uomo hanno spesso dedicato al tema del suicidio attenzione ed impegno. In questo ambito, anche il tema del comportamento suicidiario tra i membri delle forze armate risulta essere stato un oggetto notevole di interesse e di studio.
Infatti, esso risulta essere stato in modo sistematico al centro delle ricerche degli studiosi dell'uomo fin dalla fine del secolo scorso come testimoniano gli studi di un eminente neuropsichiatra italiano, Enrico Morselli, autore tra l'altro, di accurati studi sull'epilessia e sulle nevrosi post-traumatiche e di un importante manuale di semeiotica delle malattie mentali. L'autore tratta il suicidio tra i militari secondo una impostazione statistica che gli consente raffronti epidemiologici interessanti ed una analisi accurata dell'oggetto di studio.
Egli così perviene ad un duplice ordine di considerazioni. Innanzitutto che è possibile rapportare il suicidio al tipo di attività lavorativa, emergendo dai dati epidemiologici una frequenza nettamente superiore di questo gesto nelle professioni che maggiormente richiedono un impegno profondo di energie mentali e negli appartenenti alla carriera militare. In secondo luogo che è possibile rintracciare, per quest'ultima categoria le determinanti del gesto suicida da un lato nella prassi seguita dall'istituzione militare di assicurare una grande mobilità territoriale ai suoi appartenenti, ciò che risponde all'esigenza di adattare il militare alle mutevoli situazioni di servizio. Dall'altro lato sembra notevole anche il grado di spersonalizzazione connesso con la disciplina dell'istituzione, talvolta irrazionalmente perseguita, che induce, spesso, atteggiamenti di insofferenza e di disgusto.
Tra gli studiosi classici più acuti del fenomeno troviamo ancora una volta Durkheim, con il suo noto saggio (1897) che rappresenta ancora oggi un punto di riferimento obbligato per quanti si applicano allo studio dell'autochiria.
Il nostro autore indaga svolgendo utili comparazioni epidemiologiche non solo tra l'andamento del fenomeno riscontrato nella popolazione civile e quello verificato sia all'interno delle strutture dell'Esercito e delle sue fasce gerarchiche e verifica alcune interpretazioni correnti.
Innanzitutto sembra non reggere l'ipotesi che il suicidio tra i militari possa ricondursi alla condizione di celibato così frequente nei gradi inferiori dell'esercito perché il raffronto statistico con i celibi della popolazione generale non lascia emergere differenze significative.
Allo stesso modo l'ipotesi che considera come variabile indipendente effetti legati alla disciplina quali l'insofferenza, il rifiuto per questo genere di relazione, appare debole se si considera che l'accettazione delle norme rigide che caratterizzano il servizio e l'adeguamento al trend di vita militare dovrebbe stabilizzarsi a misura del tempo trascorso sotto le armi.
Il dato, sorprendentemente, dimostra invece una frequenza nettamente maggiore di suicidi tra i gradi medioalti -ufficiali e sottufficiali- che tra il personale di truppa. Una analisi accurata delle caratteristiche della vita militare da un lato e della capacità che le tensioni relazionali presenti in essa hanno di plasmare la personalità degli addetti, porta Durkheim a constatare che il militare di carriera presenta una struttura psichica resa particolarmente permeabile all'azione di fonti normative esterne all'individuo, promuovendone la campodipendenza. "Ben poco si deve tenere alla propria individualità per conformarsi tanto docilmente agli impulsi esterni. In una parola, il soldato ha il principio della sua condotta fuori da se stesso" (Durkheim, 1897, p. 227). Più in generale, l'istituzione militare si costituisce come corpo sociale atipico rispetto alla società generale, con le sue finalità speciali in favore dell'intera collettività, con le sue regole di vita, il suo apparato normativo, le sue fedeltà e promuove una integrazione sempre più completa dell'individuo che gli appartiene ed una subordinazione pressoché totale ai valori generali che persegue
Queste, per Durkheim, sono le coordinate di quella condizione che definisce nella sua tipologia, di tipo altruistico, e questa è categoria alla quale assegna quindi il comportamento suicidiario tra gli appartenenti alle forze armate.
Infine, proprio perché la società militare tende a privare progressivamente e in funzione inversa del grado gerarchico dell'individualità, sembra possibile spiegare la maggiore frequenza del suicidio tra i militari di carriera rispetto a quelli di leva e tra gli ufficiali, caratterizzati da una maggiore autonomia decisionale, rispetto ai sottufficiali.
Se questi sono gli studi oramai classici compiuti intorno al fenomeno dell'autochiria tra i soldati, non mancano in tempi via via più recenti ricerche approfondite, studi epidemiologici ed analisi interpretative che si sono posti l'obiettivo di esplorare il fenomeno nei suoi aspetti più rilevanti.
Sul piano epidemiologico si segnala lo studio di Somogyi (1961) che analizza il fenomeno in Italia negli anni che vanno dal 1897 al 1950 e la sua occorrenza nella popolazione generale e tra i membri delle forze armate. I dati che confronta

(Tab. A)

lasciano emergere come le frequenze maggiori di suicidio coincidano con il primo ed il secondo periodo di belligeranza.

Pozzi (1971) dal canto suo, applica l'attenzione alla specificità del rapporto tra istituzione militare e suicidio con particolare riferimento alla nozione di integrazione. L'analisi che compie della struttura funzionale dell'istituzione militare gli consente di identificare i punti cruciali nei quali i flussi relazionali tra i membri dell'istituzione, sembrano offrire ai militari le sollecitazioni più alte moltiplicando le occasioni di frustrazione da un lato e mobilitando attivamente, dall'altro, dinamiche di coping di tipo aggressivo suscettibili di innescare anche il comportamento suicidiario.
Sotto un'angolatura più propriamente filosofica si svolgono gli studi di Marra (1987) che utilizzando il concetto di progetto esistenziale, già proprio della fenomenologia, tenta di ridurre la dissonanza del gesto suicida.
Il progetto esistenziale risulta quanto di più immediato per la persona, che lo traccia per sé in una prospettiva temporale nella quale colloca le sue mete di realizzazione e ricerca le sue fonti di autostima.
Un progetto che risulta diversamente realizzabile a seconda delle forze contrastanti o favorenti che l'individuo incrocia lungo il corso della sua vicenda; forze che talvolta sono un grado di soffocarlo quando non di negarlo. In questo contesto il gesto del suicida assume la connotazione di un alto grido di libertà progettuale. Una progettualità estrema che si riappropria, negandola, della dignità della propria scelta di vita e in ultima analisi della propria libertà.
Il suicidio tra i soldati perciò si descrive come l'effetto della deformazione operato dalle forze insite nell'apparato costrittivo dell'istituzione militare, dalla cogenza della sua normatività su un progetto esistenziale forse rigido, certamente non sostenuto da una capacità di fronteggiamento e di resistenza alla frustrazione e tuttavia fortemente sentito dall'individuo in termini di autonomia e di libertà.

 

4. Epidemiologia del suicidio nelle Forze Armate Italiane


Presenteremo di seguito le linee di andamento del fenomeno suicidiario tra gli appartenenti alle forze armate italiane colto in un arco di tempo che va dal 1976 al 1991. Dai dati messi a disposizione dal V Ufficio del Gabinetto del Ministero della Difesa si rileva nel periodo osservato una frequenza media annua di decessi per cause diverse di circa 500 unità nelle tre armi e nel Corpo dei Carabinieri. In particolare negli ultimi due anni osservati, le morti per suicidio rappresentano la terza causa di decesso, con una frequenza percentuale del 7%, preceduta dai decessi causati da malattie, con il 35.5% e da quelle per incidenti automobilistici che si colloca al primo posto con una frequenza percentuale del 40.4%.
La

(Tab. B)

descrive, per lo stesso arco di tempo, l'andamento dei decessi per suicidio distinti per livello gerarchico (Ufficiali, Sottufficiali e Truppa) e per condizione di stato "in servizio" (cioè all'interno delle caserme o strutture militari) o "fuori servizio" (cioè in licenza o comunque fuori dalle strutture).

Innanzitutto, dalla lettura della tabella risulta un dato interessante e, preso in sé, allarmante, costituito dal fatto che nell'arco di tredici anni il fenomeno si mostra quasi triplicato e presenta un picco nel 1986 con 47 decessi, mentre negli ultimi 4 anni sembra essersi notevolmente ridotto.
In secondo luogo va osservato il raffronto che la tabella consente tra i suicidi tra le variabili Militari di Truppa e Ufficiali + Sottufficiali. Si nota, come probabilmente la letteratura non avrebbe fatto attendere, la frequenza molto più elevata di suicidi tra i militari di Truppa, con una media del 70% rispetto a quelli avvenuti tra gli ufficiali e i sottufficiali che sono il 30% del totale. sia pure non sostenuta, dei decessi avvenuti nelle strutture, soprattutto negli ultimi anni del periodo in osservazione.
Un terzo elemento interessante emerge, ancora, dal raffronto tra le variabili "in servizio" "fuori servizio". Qui si nota una frequenza sistematicamente maggiore dei decessi avvenuti fuori dalle strutture militari, durante la fruizione di permessi o licenze. Dall'altro canto, però, va notata una tendenza all'aumento
Infine, l'analisi del confronto tra le variabili Ufficiali vs. Sottufficiali conferma il dato presente in letteratura mostrando una frequenza percentualmente maggiore dei suicidi tra i sottufficiali.
Come si è visto, il comportamento suicidiario offre un trend di incremento molto sensibile nell'arco dei 13 anni osservati. Un trend allarmante che va tuttavia ulteriormente esplorato per tentare di coglierne le reali dimensioni. Ci è sembrato così utile procedere ad un raffronto tra il numero di suicidi compiuti dagli appartenenti alle forze armate e quelli verificatisi nella popolazione generale maschile in età tra i 18 e i 60 anni, lungo tutto il periodo di osservazione.
La

(Tab. C)

dà conto del confronto percentuale dei suicidi registrati tra gli appartenenti alle Forse Armate e quelli verificati nella popolazione generale maschile in età tra i 18 e i 60 anni in valori calcolati per 100.000 soggetti e per un periodo di tempo che va dal 1976 al 1991.
Come si nota, l'andamento del fenomeno assegna sistematicamente le frequenze maggiori ai suicidi appartenenti alla popolazione generale e, per gli ultimi anni del periodo di osservazione, si assiste ad un raddoppio, in favore di quest'ultima, delle frequenze riscontrate.
Inoltre, dal confronto per fasce di età, operato dallo stesso V Ufficio Gabinetto del Ministero della Difesa, risulta che il tasso di suicidi compiuti nella popolazione generale maschile di età dai 18 ai 25 anni è sensibilmente superiore a quello registrato tra i militari di leva (4.6/100.000 vs. 3.9/100.000).
Sulla scorta del complesso dei dati disponibili, riportati nelle tabelle su esposte, sembra così di poter leggere più realisticamente il fenomeno del suicidio tra i militari se lo si inquadra nelle linee di tendenza complessive del comportamento suicidiario della popolazione generale, cogliendone la sostanziale omogeneità. Una omogeneità che viene confermata dal raffronto operato tra i valori riferiti al complesso di motivazioni che è stato possibile accertare per i suicidi tra i militari e per quelli della popolazione civile di riferimento.
Vi è innanzitutto un 40.6% di casi in cui non è risultato possibile individuare la causa del gesto suicida. Del restante 59.4%, è stato possibile accertare che il 34.3% dei soggetti presentava problemi di ordine psichico e/o di disadattamento, il 12.5% ha scelto il suicidio a causa di motivi affettivi o di rapporti con l'altro sesso, il 6.2% lo ha fatto a seguito di problemi familiari e il 6.4% perché in stato di tossicodipendenza da droga o alcool. Analoghe motivazioni al gesto suicida ed analoghi andamenti percentuali del fenomeno sono riscontrabili nella popolazione nazionale di riferimento.

Per quanto si riferisce al secondo dato saliente che vede, in controtendenza con quanto in letteratura, un maggior numero di suicidi assegnati ai militari di truppa rispetto alla variabile Ufficiali + Sottufficiali, sembra possibile operare alcune considerazioni, riservandoci nel prosieguo un ulteriore approfondimento.
Da un lato sembra necessario tenere conto delle profonde trasformazioni che hanno investito l'istituzione militare nel nostro Paese, che vanno dalla riduzione della ferma nelle tre armi, al programma di "regionalizzazione" del servizio, all'impiego delle forze armate per fini che non siano quelli strettamente di difesa (protezione civile, ordine pubblico), alla nuova regolamentazione della libera uscita, alla migliore organizzazione del tempo libero e della gestione delle licenze. Trasformazioni che in qualche misura hanno avvicinato il mondo delle forze armate agli standard degli altri paesi occidentali e soprattutto ha ridotto notevolmente lo iato fino a poco fa molto forte con la nostra società civile.
Dall'altro lato, vi è da richiamare il dato esposto in tab. B che indica come il 70% dei suicidi tra i soldati sia compiuto da giovani di leva. Ancora, il tasso di suicidi tra i giovani della società civile sembra rispecchiare abbastanza fedelmente l'andamento delle morti giovanili autoprovocate che riscontrano nella società civile.
Quest'insieme di elementi suggerisce l'ipotesi che il giovane chiamato alle armi continui ad esprimere nel nuovo ruolo istituzionale lo stesso disagio che ne caratterizzava la vita "borghese" ed a rispondere ad esso attivando le stesse modalità di coping, talvolta autodistruttive.
Sembra, tuttavia, anche di dover riconoscere come l'istituzione militare non solo faccia ancora fatica ad identificare le fonti e le caratteristiche socio-psichiche del disagio di cui il giovane può essere portatore ma manchi tuttora di una capacità di risposta compiutamente valida, in grado di favorire l'acquisizione di modalità di fronteggiamento costruttive.
Anche se sembra doversi riconoscere all'istituzione militare, comunque, una capacità di "protezione" da comportamenti suicidiari, come appare sottolineato dall'andamento dei dati del raffronto tra le variabili "in servizio" vs. "fuori servizio", quest'ultima sistematicamente più frequente della prima.
Da ultimo, va considerata la differenza delle occorrenze suicidiarie posta in luce dalla contrapposizione delle variabili "Ufficiali" vs. "Sottufficiali". Ad essere più facilmente portato a mettere in atto comportamenti di tipo suicidiario risulta essere la figura del sottufficiale, cioè di una persona che rappresenta un ruolo intermediario tra l'area decisionale e progettuale dell'istituzione militare e l'area esecutiva.
Un ruolo che in qualche misura risente di una doppia sollecitazione, dall'alto e dal basso, alla quale deve quotidianamente rispondere da un lato recependo linee direttive od opzioni alla elaborazione delle quali si sente spesso totalmente estraneo, dall'altro assicurandone la realizzazione attraverso la gestione ed il controllo della truppa e sapendosene assicurare la collaborazione. Un ruolo quindi, particolarmente stressogeno tanto più ove lo si consideri connesso con le problematiche derivanti da una carriera caratterizzata da una mobilità verticale totalmente affidata agli automatismi e ad uno status socioeconomico basso.

 

5. La Prevenzione


L'istituzione militare nel nostro paese ha inteso predisporre una serie articolata di misure di intervento nei confronti del problema del suicidio non occasionata dall'emozione indotta dalle notizie di cronaca, ma, come vedremo, inserite in una prospettiva di prevenzione complessa.
Un primo gruppo di iniziative poste in essere, si configura con i caratteri della prevenzione primaria e fronteggia il problema della riduzione dei fattori di rischio su un duplice versante. Da un lato quello dell'incremento della qualità dello screening selettivo posto all'ingresso del periodo di leva. Qui vi è da notare che alla tradizionale visita psicoattitudinale, tendente a rilevare appunto le attitudini dell'individuo al fine di un inserimento produttivo nell'organismo militare, si è sostituita una seduta psicodiagnostica che si avvale di strumenti di indagine clinica complessi ed in grado di rilevare efficacemente i segni di disturbo o di sofferenza psichica.
Alla somministrazione degli strumenti di indagine si fa seguire un colloquio clinico, nel corso del quale il personale specialistico che opera è in grado di approfondire la conoscenza del giovane non solo in riferimento alle sue dinamiche motivazionali, ma anche in relazione ai segni di disagio emersi nel corso della performance ai tests.
Dall'altro lato, la prevenzione si esplica nella fase che potremmo definire di accoglienza del giovane militare nell'istituzione. Qui sembrano tenuti in vista particolarmente due obiettivi. Un primo rappresentato da iniziative in grado di promuovere l'adattamento dell'individuo all'ambiente caratteristico dell'istituzione militare, alle sue scansioni temporali, alle modalità comportamentali codificate dai regolamenti, alle prestazioni particolari che ad un militare vengono richieste. Un secondo è finalizzato alla facilitazione della vita di gruppo, specie di piccolo gruppo, che è la dimensione nella quale il militare svolge prevalentemente il suo tempo, ma che può mostrarsi anche l'ambito psicologico in grado di fare da cassa di risonanza a situazioni di disagio o di disadattamento potenzialmente pericolose.
A questo secondo ed importante aspetto della prevenzione primaria vengono pertanto dedicate le iniziative di formazione dei quadri soprattutto a livello di comandanti di squadra o di plotone o di compagnia che, a diretto contatto con i giovani e disponendo di un osservatorio strategico sulle dinamiche dei gruppi, sono in grado di meglio cogliere gli eventuali sintomi di disagio. Possono inoltre farsi rientrare nel quadro generale delle iniziative di prevenzione primaria anche tutte quelle prestazioni che il personale sanitario militare assicura, per tutte le branche della medicina, al giovane di leva, come ai militari in generale, lungo tutto il decorso della permanenza sotto le armi.
Sul versante della prevenzione secondaria, vengono attivate, all'atto della precoce manifestazione di sintomi di disagio una serie di iniziative altrettanto rilevanti ed anch'esse innovative rispetto alla modalità tradizionale di porsi della istituzione militare nei confronti di questa problematica. Le iniziative vengono affidate sostanzialmente a due strutture istituzionali nei cui ambiti si attivano le strategie di fronteggiamento del disagio: gli speciali reparti degli Ospedali militari e, più recentemente, i Consultori psicologici.
Infine, sul piano della prevenzione terziaria si configura l'intervento esclusivo delle strutture sanitarie dell'istituzione militare alle quali fa capo sia l'opera specialistica di riabilitazione di tutte quelle patologie, di interesse psicologico ma anche di interesse psichiatrico, non invalidanti, sia le iniziative sanitarie intese ad evitare il riproporsi degli episodi di disagio.
Come si è detto, la prevenzione, declinata nelle sue tre gradualità classiche, esplica nel moderno assetto delle dinamiche istituzionali dell'Esercito una funzione particolarmente di risalto. Ciò è vero, come si è visto, per la molteplicità delle iniziative che vengono attivate a questo scopo, delle quali ci interesseremo ancor più da vicino nel paragrafo successivo.
Ma è ancora più vero se si considera lo sforzo che sembra rinvenirsi nelle direttive dello Stato Maggiore intese a modificare il clima psicologico della vita militare per sottrarre quegli elementi di automatizzante spersonalizzazione da un lato e di frizioni interindividuali e di gruppo (rivalità personali, malinteso senso della competitività, nonnismo) che tanta parte mostrano di poter svolgere nella determinazione dell'insorgenza di un pericoloso stato di disagio psichico.

 

6. Le Strutture


Come si è accennato sopra, le iniziative che l'istituzione militare ha posto in atto per fronteggiare il rischio di suicidio, vengono affidate a speciali strutture, prevalentemente di nuova costituzione.

a) Nuclei Psicologici
Si tratta di una struttura operativa che affianca le unità minori. L'azione preventiva di questa struttura viene affidata all'Ufficiale Medico dirigente del Servizio Sanitario. Le iniziative di questo quadro sanitario, che interagisce strettamente con il comandante del reparto, con il cappellano militare e con le strutture sanitarie specialistiche di livello superiore, da un lato sono rivolte alla rilevazione di eventuali segnali di disagio psicologico e all'apprestamento di prime iniziative di fronteggiamento e di eventuale dèpistage verso forme di intervento specialistiche. Dall'altro svolgono un ruolo importante nella formazione e nell'aggiornamento dei quadri di comando del reparto sulle problematiche psicologiche rilevanti.

b) Centri di Coordinamento e Supporto Psicologico
Sono strutture operanti al livello di unità di media grandezza (Battaglioni, Reggimenti, Brigate, Scuole Militari) e si avvalgono delle figure di un Ufficiale Medico, un Ufficiale esperto in problemi psicologici, un Cappellano militare.
Sostanzialmente le funzioni assegnate al CCSP sono analoghe a quelle svolte dai Nuclei psicologici di reparto ed inoltre si attende da questa struttura il compito di coordinare nel merito l'attività dei Nuclei stessi.

c) Consultori Psicologici presso gli Ospedali Militari ed i Centri medico-legali
La struttura viene resa operante da Ufficiali medici psichiatri, psicologi che si avvalgono anche dell'opera di specialisti civili e di personale parasanitario.

Da queste strutture ci si attende l'erogazione di iniziative di supporto psicologico e, in particolare, la realizzazione di programmi di prevenzione e di ricerca scientifica.
Infatti, a questi organismi si fanno riferire, per l'intervento psicoterapico, le forme di disagio psichico che presentino una strutturazione nevrotica di grado lieve, trattabile pertanto secondo modalità di intervento ambulatoriale e rispondente ad iniziative di counseling o di tecniche di sostegno sia individuali che di gruppo. Rientrano in questa area problemica i comportamenti tossicofilici, specie al loro esordio e le reazioni di disadattamento.
Le iniziative di fronteggiamento non si limitano all'intervento di tipo clinico tout-court ma possono anche interessare tanto l'ambiente quanto l'organizzazione della routine di servizio, all'interno del quale è data facoltà all'èquipe di promuovere tutte quelle modifiche ritenute efficaci per favorire il ripristino del pieno stato di salute.
In ordine alle patologie di grado maggiore, configurate ad esempio da tossicodipendenze protratte, sindromi nevrotiche consistenti, segni di sofferenza di tipo borderline, il Servizio coordina la sua attività con il reparto di medicina anche ai fini delle eventuali iniziative di interesse medico-legale che dovessero rendersi necessari ed, eventualmente, in vista di una adeguata prosecuzione dell'intervento terapeutico nella sede di residenza del militare.
Come detto, il fronteggiamento del disagio psichico da parte di queste strutture specializzate avviene attraverso una serie di iniziative mirate alla natura e al grado del problema. Innanzitutto, sul piano della formazione/informazione è ricorrente l'attivazione di T-Groups, rivolti al personale militare e non. La tecnica, che deriva dalla prospettiva teorica di K. Lewin e dalle esperienze di C. Rogers, mira allo sviluppo della sensibilità interpersonale e delle attitudini alle relazioni sociali dei partecipanti. Rivolti al personale medico, invece, si attivano ricorrenti corsi di aggiornamento sulle tematiche del disagio psichico, intesi ad affinare le tecniche di intervento ma soprattutto a mettere in grado l'operatore di perseguire efficacemente gli obiettivi in un contesto del tutto particolare.
Si comprende bene, infatti, quanto la gerarchia, l'apparato regolamentativo della vita quotidiana, le peculiarità del servizio, i risvolti medico-legali e fiscali, il clima generale dell'istituzione militare differenzino l'agire dell'ufficiale sanitario da quello del medico tout-court. Ciò crea difficoltà oggettive non certo nella erogazione di presidi sanitari efficaci quanto nella instaurazione e nel mantenimento di un rapporto umano significativo con il paziente e particolarmente nella attivazione di quella alleanza terapeutica che è la precondizione per porre in essere qualsiasi intervento valido sul piano psicologico. E' un agire, pertanto, particolarmente delicato ed accorto quello che si richiede al sanitario militare, che deve accompagnare a sicure capacità di intervento terapeutico doti personali di empatia, relazionalità ed esplicarle spesso nelle condizioni più difficili, per realizzare un intervento professionale che comporta un alto rischio psicologico per l'operatore.
Infine, viene riferita sempre a questa struttura l'attività di ricerca scientifica. Si tratta di iniziative volte ad accrescere la conoscenza dei fenomeni legati al disagio mediante studi di tipo descrittivo o mirati alla validazione di ipotesi genetiche, da un lato. Dall'altro, di attività di interscambio e di collegamento con i centri di ricerca delle Università e del sistema sanitario nazionale al fine di contribuire con la peculiare esperienza realizzata nell'ambito dell'istituzione militare ai programmi di ricerca scientifica connessi ai temi dell'igiene mentale.

d) Nuclei Centrali per la Prevenzione delle Malattie Psichiatriche
Sono strutture che dipendono dalla Direzione Generale della Sanità Militare Interforze e vengono dislocate a livello dei Corpi Sanitari delle tre Armi. Da queste strutture ci si attende la messa a punto e il coordinamento delle linee generali di prevenzione. La formulazione delle strategie di intervento è particolarmente sensibile alla prevenzione ed alla terapia della tossicodipendenza e a questo scopo esiste una stretta interazione con il Comitato interministeriale ad hoc al livello di Presidenza del Consiglio e con gli organi del Ministero della Sanità.

Importante ai fini di cui ci interessiamo risulta essere anche il lavoro di predisposizione e di coordinamento al livello superiore, delle iniziative di formazione, alle quali si è accennato, svolto sia al livello di Unità che nelle diverse Scuole di Formazione, e rivolta annualmente a circa duemila medici. Risulta anche un notevole contributo alla formazione di figure professionali che a fine ferma spenderanno utilmente nell'ambito civile una esperienza altamente specializzata.
Sembra utile ricordare, tra l'altro, l'istituzione di seminari mensili di aggiornamento, rivolti a ufficiali medici specialisti in psichiatria e in psicologia clinica, affidati ad ordinari delle Cattedre di Psichiatria, Psicologia ed Igiene Mentale delle diverse Università.

 

7. Il Consultorio Psicologico di Verona: un'esperienza pilota


L'esperienza realizzata presso il Consultorio Psicologico istituito dal Comando dei Servizi Sanitari della Regione militare Nord-Est nella città di Verona può rappresentare un utile paradigma di prassi di ricerca-intervento nella prevenzione primaria rispetto al problema del disagio psichico. Qui, infatti, sono state realizzate a favore del personale militare di ogni grado esperienze sistematiche di training autogeno basate sugli esercizi del ciclo inferiore.
Ai corsi, realizzati secondo la metodica proposta da Binden (1964), hanno partecipato un centinaio di effettivi, suddivisi in gruppi di 10-12 persone. Il corso ha previsto la realizzazione di 10 sedute nell'arco complessivo di 4-5 mesi. Il setting ha previsto una parte dedicata alla discussione in gruppo dei vissuti individuali, una parte dedicata alla illustrazione dell'esercizio ed alla sua esecuzione ed una terza parte ancora dedicata alla esplorazione ed alla analisi dei vissuti e delle resistenze.
L'esperienza, tuttora in corso, prevede uno studio del follow-up. I soggetti partecipanti vengono pertanto seguiti secondo i criteri del metodo longitudinale attraverso gli strumenti dell'osservazione clinica, della ripetuta somministrazione di batterie psicodiagnostiche e lo svolgimento di colloqui individuali. Gli elementi raccolti nel corso dello studio longitudinale consentiranno, alla fine dell'esperienza, di apprezzare gli effetti del programma in relazione alle variabili della vita militare discusse fin qui come probabili fonti generative del disagio.

 

8. Conclusioni


Il grido di allarme sull'incremento dei suicidi nel mondo è stato ribadito nel recente convegno sul tema "La solitudine sociale" presieduto a Milano nell'ottobre del 1995 dal prof. Domenico de Maio. Dai contributi afferiti al convegno il quadro delle morti autoprocurate risulta essere tale da indurre ad una profonda riflessione. Secondo dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, circa 2.000 persone si uccidono ogni giorno nel mondo, collocandosi il suicidio nei vari paesi tra il quinto ed il decimo posto delle cause di morte. L'autochiria interessa nei soli paesi europei circa 135.000 persone all'anno e di queste 4.000 morti si verificano nel nostro paese. Se l'età media del suicida, prevalentemente di sesso maschile, si aggira tra i 50 e i 60 anni, nota Sansoni (1995) che resoconta i lavori, purtroppo sono in aumento i suicidi dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Ai suicidi compiuti si devono sommare i tentativi di suicidio, che risultano essere frequenti alle età di 15-30 anni ed interessano prevalentemente le donne. Generalmente ciò che è stato definito "parasuicidio" si compie in circostanze tali che risulta possibile ricevere soccorsi tempestivi, per cui tale gesto sembra doversi leggere più come richiesta di aiuto che come vera e propria determinazione alla morte.
Al di là delle diverse impostazioni teoriche offerte dagli studiosi, a Sansoni sembra di poter cogliere un denominatore comune che in qualche misura collega le diverse forme del desiderio di morte analizzato dagli studiosi: la solitudine. Sia essa "quella di chi vive nelle grandi città, negli edifici dove gli inquilini si incontrano tutti i giorni ma non si parlano, dei vecchi, abbandonati negli ospizi, dei pazienti ospedalizzati, degli extracomunitari lontani dai paesi d'origine, (...) di chi vede nella morte il pericolo della propria esistenza e di chi identifica nella morte la fine delle proprie sofferenze".
Naturalmente i dati, certamente già allarmanti, di cui si dispone ufficialmente non sono che la punta emergente dell'iceberg se solo si riflette alla quantità di casi di suicidi dissimulati, eseguiti in modo tale da far apparire la morte come accidentale, dovuta ad infortunio o ad incidente. Oppure se si considera che tante morti autoprovocate, proprio per la contiguità che la rappresentazione sociale del suicida ha con quella dello squilibrato se non del folle, suscitano nella famiglia della vittima sentimenti di vergogna e desiderio di dissimulazione.

In queste coordinate generali, il fenomeno dell'autochiria nelle forze armate di cui fin qui abbiamo tentato di esplorare alcuni aspetti, induce alcune riflessioni con le quali concludere queste note.
Una prima osservazione che ci sembra di poter avanzare è che il suicidio nelle forze armate, come evento sociale, non sembra rappresentare specificità fenomenologiche tali da consentirci di distinguerlo dal comportamento di autochiria mostrato dalla popolazione generale. Una analisi ravvicinata e contestualizzata della casistica lascia emergere due ordini di fattori, specifici e aspecifici, strettamente interconnessi, in grado di spiegare il suicidio del soldato e che abbiamo tentato di evidenziare nel corso del ragionamento proposto innanzi.
Si mostrano innanzitutto fattori a-specifici, che possono essere riferiti al soggetto protagonista del gesto suicida. Tali elementi, vere linee di clivaggio, possono dar conto del fattore di rischio soggettivo che si compone dei traumi, delle difficoltà evolutive, dei mancati superamenti dei compiti di sviluppo, della labilità psichica, della presenza di comportamenti tossicomanici, di cui il militare può essere portatore.
Un ulteriore complesso di elementi etiologici, analogamente di natura a-specifica, possono identificarsi nelle caratteristiche "contestuali" della storia evolutiva del soggetto: le figure genitoriali, l'ambiente sociale e culturale di provenienza con le sue connotazioni di eventuale deprivazione e/o rigidità, la trama relazionale di cui il soggetto è parte, il sistema di ruoli-regole di cui egli si sente investito, lo status acquisito nel gruppo sociale di cui è componente, la sua natura, il suo clima, la sua microcultura, le sue dinamiche eventualmente i fenomeni di devianza cui il soggetto o il gruppo stesso sia interessato.
L'altro ordine di fattori etiologicamente rilevante sembra potersi riferire specificamente all'istituzione militare in quanto corpo sociale fortemente connotato come un organismo coeso, sorretto da regole rigide e corrispondenti sistemi di ruoli e di status, a lenta mobilità verticale, all'interno del quale i flussi di informazione, privi generalmente di ogni aspetto metacomunicativo, orientano un agire individuale e collettivo che è consueto e prevedibile.
All'interno di questo corpo sociale, poi, la cultura ed il clima di cui è portatore che, da un lato tendono ad omogeneizzare ai suoi standard sostanzialmente stabili le persone che di volta in volta la compongono nonostante il pur notevole turn-over che caratterizza questa istituzione, dall'altro consentono il permanere di stereotipi comportamentali ritualizzati (il nonnismo nelle sue più diverse varianti) che talvolta hanno manifestato la capacità di interferire negativamente sull'equilibrio psichico di taluni soggetti.
Sembra tuttavia, dall'analisi fin qui condotta, che né i fattori aspecifici né quelli specifici possano di per sé rappresentare efficacemente motivi generativi della condotta suicidiaria
Ci è parso, nello studiare le connotazioni che sostengono la rappresentazione collettiva che la società elabora dell'istituzione militare, di cogliere fattori di ordine ancor più generale utili per l'interpretazione del fenomeno di cui trattiamo.
Le tre Armi, i diversi corpi di cui si compongono sembrano sollecitare nella più ampia collettività un atteggiamento duplice ed ad una prima analisi forse contraddittorio.
Da una parte si manifestano dinamiche emotive a volte abbastanza intense, si pensi a quelle attivate da un reparto di bersaglieri che sfila di corsa con la fanfara in testa o alla carica del carosello storico dell'Arma dei carabinieri, oppure alla parata degli alpini o dei reparti paracadutisti. Sono dinamiche emotive che difficilmente non coinvolgono lo spettatore, attivando meccanismi di identificazione e promuovendo un senso di prossimità, di continuità con l'istituzione militare.
Dall'altra parte si può registrare, viceversa, un senso di discontinuità, quasi di estraneità nei confronti delle forze armate che si lascia cogliere, ad esempio, nei discorsi dei giovani non solo quando considerano l'istituzione militare ed il servizio di leva in una prospettiva sociale ideologicamente connotata, ma anche quando le osservazioni si riferiscono alla propria prospettiva di lavoro e di inserimento attivo nella società.
Il periodo di servizio di leva viene, così, considerato come un periodo di "tempo perduto" ai fini dell'inserimento sociale, quasi un momento di arresto della crescita dell'individuo, quando non addirittura fonte di esperienze negative (approccio con la droga, relazioni interindividuali pericolose etc).
Sembra che tale ordine di fattori contribuisca efficacemente a determinare quell'atteggiamento di distanziamento dall'istituzione militare di cui si parlava, che in qualche misura è implicato nella produzione del disagio psicologico così spesso riscontrato alla base del gesto suicida del soldato.
Così che pare indispensabile, sulla via della prevenzione primaria, pensare in termini seriamente operativi, innanzitutto ad una analisi interdisciplinare in grado di esplorare a fondo e rimuovere i nodi critici (a taluni dei quali in qualche misura si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti) che l'istituzione militare nel suo complesso presenta relativamente alla problematica del disagio già segnalata.
In secondo luogo, sembra indispensabile promuovere una approfondita rielaborazione della organizzazione contenutistica della "vita di caserma" tenendo in vista l'obiettivo di far saltare gli elementi di separatezza e di dis-continuità con la "vita civile" per favorire una rappresentazione collettiva dell'istituzione militare come di un ambito sociale utile non solo nella prospettiva della difesa della collettività (da eventi bellici o da calamità naturali) ma anche rispetto alle problematiche vive della società generale di cui è parte.

 

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(Si ringrazia il Dott. Antonio La Bella per la raccolta dei dati.)