Achille M. Notti

Lo sviluppo della competenza metacomunicativa nei bambini. Requisiti cognitivi sottostanti alla capacità di comunicare in modo adeguato e socializzato

Nello studiare lo sviluppo del bambino, i dati particolari e concreti non possono che essere considerati esempi di modelli di funzionamento generali e astratti. D'altra parte, i modelli generali e astratti hanno bisogno di essere esemplificati e specificati nelle attività quotidiane del bambino. Perciò, nel chiedersi come i bambini giungono a comprendere che il loro linguaggio deve coincidere con le necessità di informazione che ha l'ascoltatore, dobbiamo immediatamente affrontare il problema complesso della crescente consapevolezza del sé come agente parzialmente auto-organizzante.

I dati sperimentali relativi alla comunicazione verbale dimostrano che l'incapacità dei bambini più giovani a capire che il linguaggio verbale può essere ambiguo dipende dall'incapacità a distinguere tra ciò che è detto e il suo significato. Ciò che è vero per l'informazione fornita verbalmente vale anche per l'informazione fornita visivamente: coloro che non si rendono conto dell'ambiguità del linguaggio verbale considerano anche l'informazione visiva diretta e non mediata dall'interpretazione. Si può cercare di spiegare questa incapacità generale ipotizzando che la comprensione di questi aspetti della comunicazione in generale richiede che si sviluppino idee nuove sull'informazione percepita, ma anche che si sviluppino e compaiano nuove strategie di interazione. In altre parole, è necessario che il bambino sia in grado di sapere quando ha informazioni insufficienti per agire e come fare per ottenere le informazioni necessarie.

Flavell et al. (1968) elencano i requisiti che deve avere una comunicazione, concreta e effettiva, diretta a un ascoltatore che non conosce i fatti che vengono comunicati. Chi produce la comunicazione deve essere consapevole che esiste un problema di prospettiva, cioè che ciò che vede, sente o comunque rileva colui che riceve l'informazione può non coincidere con ciò che percepisce il parlante; chi comunica deve sapere se il diverso punto di vista deve essere tenuto presente nella situazione in cui avviene la comunicazione; se c'è questa necessità, è necessario analizzare le implicazioni delle differenze di punti di vista; infine, tenendo conto delle caratteristiche presunte nell'ascoltatore, si debbono codificare i messaggi appropriati.

Le prime ricerche sono state rivolte a valutare la comprensione da parte dei soggetti del problema della possibile non coincidenza dei punti di vista e della necessità di tenerne conto; mentre, per quanto riguarda gli altri fattori (implicazioni e codifica), - si controllava che fossero compresi nella competenza intellettuale e verbale dei soggetti.

La situazione classica è quella utilizzata da Krauss & Glucksberg (1969), in cui i due partecipanti alla situazione erano seduti di fronte, ai due lati di un tavolo, e separati da uno schermo opaco; ciascuno dei soggetti disponeva di un insieme identico di oggetti. Il parlante deve selezionare un oggetto e dire qualcosa su di esso in modo che l'ascoltatore possa prendere lo stesso oggetto. Una volta che l'ascoltatore ha scelto l'oggetto, i soggetti mostrano ciò che hanno preso e si verifica se la scelta dell'ascoltatore è corretta o meno.

Quasi tutti gli errori sono determinati dal fatto che il messaggio del parlante può essere riferito a più di un oggetto dell'insieme; per esempio, il parlante dice: "Un uomo che tiene un fiore", e, nell'insieme di cartoncini di cui dispongono i due soggetti, questa frase può riferirsi a due cartoncini diversi (in uno, un uomo tiene in mano un fiore rosso, nell'altro il fiore è azzurro). Questa, dunque, può essere considerata una definizione operativa di ambiguità.

La grande maggioranza dei soggetti che hanno partecipato a questo esperimento avevano un'età compresa fra i cinque e gli otto anni. La maggior parte dei bambini più grandi affermano che l'errore è stato causato dal fatto che il parlante non ha dato abbastanza informazioni sull'oggetto; mentre i bambini più giovani ritenevano che il parlante avesse dato abbastanza informazioni e che l'errore era dell'ascoltatore. Quindi, mentre i primi avevano consapevolezza della possibile ambiguità della comunicazione, i più giovani non consideravano il messaggio e le sue caratteristiche come una delle possibili ragioni dell'errore dell'ascoltatore. Anche scambiando i ruoli (sia quelli parlante-ascoltatore sia quelli partecipante-osservatore) e variando il materiale o le procedure (per esempio, modificando le istruzioni o introducendo delle contro-suggestioni o ponendo domande sulle scelte corrette piuttosto che su quelle sbagliate) le valutazioni dei soggetti non si discostano dallo schema descritto prima: ricercatori diversi hanno ottenuto risultato abbastanza omogenei e confrontabili (Flavell, Speer, Green & August, 1981; Lefebvre-Pinard, Charbonneau & Feider,1982; Patterson & Kister, 1981; Sonnenschein & Whitehurst, 1984). Tuttavia, il fatto più interessante e problematico è che soggetti più giovani mostrano di essere in grado di valutare come inadeguato un messaggio, ma soltanto quando ciò che dice il parlante è incompatibile con il cartoncino che mostra (Roberts & Patterson, 1083; Robinson & Robinson, 1977a): se, per esempio, il messaggio è "Un uomo con un fiore rosso", ma il cartoncino mostrato successivamente dal parlante è una bandiera rossa, questi soggetti affermano che il parlante doveva scegliere il cartoncino con l'uomo che ha in mano un fiore rosso. Dunque, anche questi soggetti sono in grado di rilevare l'incongruenza, e dunque l'inadeguatezza del messaggio a descrivere il cartoncino scelto, ma tendono a considerare la scelta subordinata al messaggio.

Pertanto, mentre da un lato rileviamo che questi soggetti non mostrano di essere consapevoli della possibilità che i messaggi verbali possano essere ambigui, dall'altro possiamo dire che essi sembrano disporre di una doppia regola operativa, che potremmo formulare nel modo seguente: "Se il messaggio corrisponde all'oggetto, allora va tutto bene; se non corrisponde, allora è inadeguato".

Le cose stanno veramente così o queste conclusioni sono il risultato di una inferenza basata su risultati resi artificiosi dalle situazioni e procedure sperimentali utilizzate? In linea di massima, gli esperimenti debbono essere considerati artificiosi per definizione, e non bisogna mai trascurare questo limite: un esperimento può fra vedere cosa potrebbe accadere, se le condizioni reali fossero quelle riprodotte nella situazione sperimentale, ma non può mai mostrarci ciò che in genere accade. Per queste ragioni, quando è possibile, è bene accompagnare ai dati sperimentali osservazioni non controllate del mondo naturale dei bambini, sia per convalidare e integrare i risultati sia per avere una fonte di ipotesi da verificare.

Robinson e Robinson (1981) controllano i dati mediante "conversazioni" fra lo sperimentatore e il bambino. A parte i controlli sulla gradevolezza della prova, questi colloqui si proponevano di valutare le ragioni del comportamento dei soggetti. Ovviamente, per coloro che rilevavano l'ambiguità del messaggio, e la consideravano il motivo dell'inadeguatezza della prova, non sono necessarie particolari spiegazioni: sono in grado di padroneggiare sia la prova sia il contesto. Invece, per valutare il comportamento dei soggetti che attribuiscono la colpa del fallimento all'ascoltatore è necessaria qualche riflessione più specifica. Se il parlante è un adulto, è possibile che la valutazione di questi soggetti circa l'adeguatezza della comunicazione prodotta non dipenda dall'incapacità a cogliere l'ambiguità del messaggio, ma da un altro tipo di regola. E' possibile (e talora risulta evidente dal colloquio) che i soggetti si siano resi conto del fatto che il messaggio dell'adulto può riferirsi a più di un cartoncino, ma essi seguono una regola sociale: l'adulto ha smesso di parlare, dunque è il loro turno e scelgono di agire con le informazioni di cui dispongono. E' pur vero che nel colloquio nessuno dei soggetti parla della necessità di scegliere fra violare questa regola rifiutandosi di agire e rischiare di sbagliare, ma perché dovrebbero farlo, visto che sia loro sia lo sperimentatore appaiono soddisfatti della spiegazione?

Qualche ulteriore chiarimento va dato sulle categorizzazioni linguistiche utilizzate nelle prime ricerche, in particolare in merito alla distinzione fra "dare la colpa all'ascoltatore" e "dare la colpa al parlante" e alla distinzione fra soggetti "più giovani" e "più grandi". Per quanto riguarda la prima distinzione, possiamo osservare che essa ha un doppio svantaggio: fa riferimento ai soggetti piuttosto che alle regole di pensiero che guidano il loro comportamento; orienta l'attenzione sulla "colpa" piuttosto che sulle concezioni relative al modo in cui funziona il linguaggio. Per quanto riguarda la seconda, non è inutile precisare che l'età, cioè la maturazione, non può essere considerato un fattore esplicativo. Dunque, accettando queste categorizzazioni come semplici etichette distintive, la differenza sta nel fatto che alcuni soggetti (in genere i più grandi) seguono la regola che il messaggio deve corrispondere a un solo cartoncino, cioè deve avere un unico referente, e alcuni soggetti (in genere i più giovani) seguono la regola che se la scelta coincide va tutto bene.

Dire e significare

Robinson, Goelman & Olson, (1983) trassero una inferenza appropriata, ma apparentemente improbabile, dalle generalizzazioni che riassumono le regole che i soggetti sembrano seguire. Se i bambini più giovani, dopo avere scelto un cartoncino, dicono: "Un uomo con una bandiera", e lo sperimentatore replica dicendo: Un uomo con una bandiera rossa. E' questo che hai detto?, il bambino concorda se effettivamente la bandiera è rossa. Per capire che i messaggi possono essere ambigui, è necessario distinguere tra il messaggio effettivamente prodotto dal parlante e il significato che si intende trasmettere. Per quanto riguarda la possibile ambiguità del messaggio, i bambini più giovani non sono in grado di distinguere tra dire e significare: per loro le due cose coincidono. Se questo è vero, il ricordo di ciò che è stato detto dovrebbe essere collegato più alla correttezza del cartoncino scelto che alla descrizione verbale di questo. Per verificare questa ipotesi si sono fatti diversi esperimenti (Robinson, Goelman & Olson, 1983; Robinson & Robinson, 1982b).

In una delle ricerche bambini fra i 5 e i 6 anni di età partecipavano a un gioco di valutazione della comunicazione e venivano classificati in base al fatto di capire o no l'ambiguità. A questa prima parte del "gioco" ne seguiva un'altra: quando l'errore dell'ascoltatore era provocato da un messaggio ambiguo, si chiedeva al bambino di accettare o rifiutare un suggerimento in merito alle caratteristiche del messaggio.

Lo sperimentatore forniva tre tipi di suggerimenti (opportunamente bilanciati): ripetizione esatta del messaggio ambiguo; versione inappropriata, che non corrispondeva né al cartoncino scelto dal parlante né a quello scelto dall'ascoltatore; versione disambiguata. Tutti i soggetti accettarono le ripetizioni esatte e rifiutarono le versioni inappropriate, atteggiamento che possiamo considerare giusto, visto che la prima corrispondeva effettivamente a ciò che aveva detto il parlante. Tuttavia, alcuni soggetti (17) accettarono la versione disambiguata come corrispondente a ciò che aveva effettivamente detto il parlante; ciò è ovviamente sbagliato, ma pone qualche interessante problema circa la effettiva competenza comunicativa dei soggetti. Infatti, nell'altra parte del gioco, 11 di questi soggetti avevano valutato come adeguati i messaggi ambigui, facendo ritenere che l'accettazione della versione disambiguata indichi una scarsa competenza nel valutare l'efficacia di un messaggio. a questa conclusione è confermata dal fatto che, fra i 22 soggetti che respinsero la versione disambiguata, solo uno non si rese conto dell'ambiguità. La relazione fra i giudizi formulati nelle due parti del gioco è altamente significativa. I bambini che accettavano la versione disambiguata come ciò che era stato effettivamente detto dal parlante, affermavano che il messaggio trasmetteva proprio ciò che il parlante voleva significare, quindi confondevano ciò che il parlante intendeva dire (il significato del messaggio) con ciò che aveva effettivamente detto; questi stessi soggetti tendevano a valutare come adeguati anche i messaggi ambigui. Dunque, il fatto di non rendersi conto che un messaggio può essere ambiguo può indicare una incapacità più generale nel distinguere tra il significato che il parlante intendeva trasmettere e il messaggio effettivo.

Questi risultati non possono essere considerati conclusivi, ma sono tali da spingere verso ulteriori approfondimenti. Dalle ricerche citate. finora si può ritenere che alla prestazione concorrano due componenti: da un lato il linguaggio in quanto tale, dall'altro la comunicazione. I risultati riferiti dipendono più dall'una o dall'altra di queste componenti? In altre parole, il problema è specifico all'interpretazione dei messaggi verbali o riguarda, più in generale la comunicazione in quanto tale? Per risolvere questo problema bisogna effettuare due diverse prove: in una si deve eliminare il linguaggio verbale come strumento comunicativo, nella seconda si deve eliminare la natura comunicativa della prova.

Comunicazione su base verbale e comunicazione su base visiva

Robinson e Robinson (1982b) usarono dei cartoncini simili a quelli della prova standard di comunicazione referenziale, ma, mediante una griglia di cartone bianco coprivano parti della figura contenuta nel cartoncino scelto dallo sperimentatore. La griglia poteva nascondere parti essenziali o inessenziali per il riconoscimento del cartoncino. Utilizzando questa tecnica, i Robinson ritenevano di rendere ovvia la circostanza che il messaggio (o meglio, I'informazione) avrebbe potuto essere inadeguato, visto che la diminuzione dell'informazione è, in questo caso, molto più esplicita di quanto non sia l'omissione di un particolare in un messaggio verbale. I risultati mostrano una forte coerenza fra i giudizi formulati nei due diversi tipi di presentazione. Infatti, quando il messaggio era ambiguo sia nella presentazione verbale sia in quella visiva, 37 soggetti su 52 affermarono di avere informazioni sufficienti, mentre 5 affermarono di non avere informazioni sufficienti. Dunque 42 soggetti mostrarono coerenza nei giudizi indipendentemente dalla presentazione. I rimanenti 10 soggetti diedero risposte diverse nella presentazione verbale e in quella visiva; di questi, 6 diedero giudizi più corretti nel caso delle presentazione verbale e 4 nel caso di quella visiva. Da questi si possono trarre alcune conclusioni:

a) l'incapacità a distinguere tra ciò che si dice e ciò che si intende dire non è specifica delle prove relative alla comunicazione verbale;

b) i bambini danno giudizi coerenti nella presentazione visiva e in quella verbale di una prova di comunicazione;

c) non ci sono elementi per ritenere che la presentazione visiva sia più facile di quella verbale (o viceversa).

A quanto sembra, i bambini più giovani non hanno il concetto di unità di informazione, ma, prima di giungere a qualunque conclusione, è utile eliminare la presenza di una persona come comunicatore, per verificare se l'aspetto comunicativo è una caratteristica critica di questa difficoltà.

La comprensione dell'ambiguità dipende dal modo in cui si considera il reale: l'informazione sul mondo è diretta o mediata?

Nel terzo studio della loro ricerca, Robinson e Robinson (1982b) sottoposero bambini di età compresa fra i 4 e i 5 anni a due prova: la normale prova di valutazione della comunicazione verbale e una seconda prova in cui venivano presentati due cartoncini a cui erano sovrapposti due dischi bianchi con delle "finestre". Mentre le finestre di un disco consentivano di vedere due qualità essenziali del disegno, le finestre dell'altro consentivano di vederne solo una (per esempio, nei cartoncini erano raffigurati dei palloncini di dimensioni e colori differenti, mentre di un cartoncino il bambino poteva vedere sia le dimensioni che il colore del palloncino, nell'altro poteva vedere solo il colore).

Presentata la situazione, si chiedeva al bambino: "Ti mostra abbastanza perché tu possa prendere fra i tuoi cartoncini quello giusto?" Se il bambino rispondeva negativamente, si chiedeva: "Cosa dovresti vedere per potere scegliere quello giusto?".

Dai risultati si possono trarre le seguenti conclusioni:

a) l'incapacità a capire che i messaggi verbali possono essere ambigui non è specifica ai problemi relativi alla comunicazione;

b) questa incapacità è un aspetto dell'incapacità più generale a ritenere che l'informazione, sia visiva sia verbale, può essere insufficiente per consentire una corretta interpretazione;

c) è possibile che l'idea che l'informazione possa essere insufficiente compaia in attività che comportano la comunicazione con altre persone.

Una direzione di ricerca che si può essere sollecitati a prendere sulla base di questi dati è cercare di dimostrare che per affrontare in modo intelligente e adattivo i problemi connessi all'ambiguità di uno stimolo, visivo o linguistico, il bambino deve sviluppare una strategia che gli consenta di rifiutare l'interpretazione di questo stimolo. Per fare ciò, il bambino deve divenire consapevole del tipo di informazione di cui ha bisogno e deve sapere come acquisirla (per esempio, facendo domande o attuando qualche tipo di verifica). Questa spiegazione è in accordo con l'ipotesi che il bambino, sin dalla nascita, si comporta come se avesse sempre informazioni sufficienti per porre in atto una azione. Se la regole è che si deve agire, il bambino ha bisogno di una strategia che gli consenta di prendere la migliore interpretazione possibile dell'informazione disponibile. Su questa base, i bambini più giovani sono "costretti" a considerare l'informazione in entrata come aspetti veri e completi del reale. Questo modo di considerare le informazioni non pone particolari problemi, perché gli errori che potranno verificarsi vengono considerati dipendenti da un errore nella scelta e non come dovuti all'ambiguità dell'informazione. In questo senso, è più che comprensibile il fatto che sia nel contesto dell'interazione con gli altri che il bambino possa rendersi conto della possibile ambiguità dell'informazione e dare un significato alle sensazioni di incertezza che talora prova. Questa capacità di apprendere attraverso le difficoltà dell'interazione verbale può essere ricondotta a un'ipotesi teorica più generale, che riguarda tutta la percezione: piuttosto che fornirci un'immagine diretta del reale, la percezione ci fornisce solo gli "indici" necessari a interpretarla (Piaget, 1935, 1961). Sviluppare un'idea del genere in presenza di fenomeni fisici è molto difficile per il bambino, mentre è molto più semplice che ciò avvenga mediante l'interazione verbale. Infatti, per valutare l'adeguatezza della propria produzione linguistica a un significato che si vuole comunicare, l'unico criterio possibile è esterno al soggetto che parla, e si basa sul comportamento degli altri, che può essere collegato alle nostre intenzioni (e in questo caso la comunicazione non è ambigua e c'è sovrapposizione fra messaggio e significato) oppure può risultare incongruente con ciò che ci proponevamo (e in questo caso il messaggio è ambiguo e non c'è coincidenza tra messaggio e significato).

Esperienza sociale e comprensione dell'ambiguità

Le prime interazioni sociali del bambino confermano questa tendenza a considerare necessaria l'azione dopo una stimolazione. L'interazione del bambino, già nei primi giorni di vita, si modella sulla base di un ordine sociale definito dalla madre, che tende a dare una struttura temporale abbastanza regolare agli scambi con il bambino, facendo comparire abbastanza precocemente nel bambino la capacità di alternare il turno (dialogare) con la madre. Quando la madre fa delle domande o regola il comportamento del bambino, questi sa abbastanza presto quali sono i momenti dell'interazione in cui deve reagire. In questo modo si costruisce la regola sociale in base alla quale si deve rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente Ma, come aveva già notato Piaget (1945) ed è stato ampiamente confermato dalla letteratura più recente (Cfr. Wells, 1985), la tendenza della madre a interpretare le intenzioni anche a partire da messaggi inadeguati, difende il bambino dalla necessità di confrontarsi precocemente con le possibili ambiguità del linguaggio; anche quando, fra madre e bambino, si producono dei fraintendimenti la soluzione si trova a livello pragmatico e non attraverso approfondimenti semantici.

Per divenire consapevole della possibile ambiguità dell'informazione, e della possibilità che espressione verbale e significato non coincidano perfettamente, il bambino deve essere in grado sia di attuare strategie specifiche adeguate alla soluzione di problemi immediati sia sviluppare la propria comprensione sul perché queste strategie sono necessarie. Mentre la prima acquisizione può essere resa possibile da un processo di apprendimento molto semplice, realizzato mediante associazione o osservazione, che produce gli schemi di azione e le regole procedurali, la seconda richiede una struttura sovra-ordinata: il bambino deve essere consapevole della possibilità di "non sapere". Forse, perché ci sia questa consapevolezza è necessario concepire un "Sé" in grado di prendere coscienza di questa distinzione.

Nel caso particolare della capacità di rilevare l'ambiguità del messaggio, per padroneggiare i problemi della comunicazione referenziale, dinanzi a una informazione ambigua è necessario:

a) provare sensazioni di incertezza e saperle riconoscere come tali;

b) sapere che i messaggi possono essere ambigui e che quello ricevuto lo è;

c) collegare la sensazione di incertezza all'ambiguità del messaggio;

d) decidere cosa fare.

Una possibile strategia è quella di formulare una domanda generale o specifica; un'altra potrebbe essere quella di individuare un problema di scelta. Oppure, il bambino potrebbe aspettare altre informazioni o tentare un'interpretazione provvisoria, segnalando incertezza.

I risultati che si sono ottenuti portano a concludere che anche i bambini più giovani sono in grado di operare confronti discriminativi, di rilevare l'esistenza di più di un possibile referente, eppure continuano a spiegare l'errore senza riferirsi al fatto che il messaggio verbale aveva una referenza multipla ( & Robinson, 1978b; Whitehurst & Sonnenschein, 1981). E' anche possibile che siano consapevoli della propria incertezza, possono anche affermare di non essere certi di ciò che ha detto il parlante, ma valuteranno ugualmente che il parlante ha detto loro abbastanza (si vedano per esempio Beal & Flavell, 1982; Robinson & Robinson, 1983). Ma, allora, in che modo arrivano a capire che i messaggi possono essere ambigui? In termini generali debbono cambiare la loro organizzazione mentale, trasformandosi da esseri pensanti che decidono cosa fare e lo fanno in esseri capaci di comprendere sia che non sanno cosa fare sia le ragioni per cui non lo sanno. In altre parole, potremmo dire che debbono imparare che non basta pensare al problema, ma che debbono riuscire a pensare a se stessi in relazione al problema.

Condizioni che consentono di capire l'ambiguità

Robinson & Robinson (1981) hanno trovato una relazione tra l'acquisizione precoce della comprensione dell'ambiguità, o almeno una particolare facilità a provocarla, e la frequenza in cui l'adulto usa, quando il bambino produce una informazione o richiesta ambigue, una risposta del tipo "Non capisco cosa vuoi dire".

I dati osservativi dei Robinson indicano che si tratta di una reazione relativamente rara, e ciò li indusse a chiedersi se reazioni di tipo diverso potessero avere una qualche influenza. In una ricerca successiva (Robinson & Robinson, 1982a) utilizzarono con un campione di soggetti di età prescolare tre differenti tipi di trattamento:

1 ) Nel primo gruppo utilizzarono la reazione "Non capisco cosa vuoi dire" e si spiegava minuziosamente quali erano le ragioni per cui l'ascoltatore non era in grado di scegliere un'azione o un oggetto.

2) Nel secondo gruppo non diedero alcuna spiegazione sul perché non era possibile fare una scelta, ma utilizzarono altri due tipi di intervento:

a) all'inizio della prova fornirono un modello adeguato di comportamento;

b) sono intervenuti incoraggiando l'ascoltatore, se non sapeva bene cosa scegliere, a porre delle domande al parlante.

Nei soggetti del primo gruppo si determinarono dei progressi molto forti sia nella comprensione sia nella prestazione verbale. Anche nel secondo gruppo si determinarono dei progressi sia rispetto ai risultati iniziali sia rispetto ai risultati ottenuti dal gruppo di controllo.

Anche se questi progressi non sono così rilevanti come quelli del primo gruppo, rimane da chiarire cosa abbia prodotto questi progressi. Un'analisi condotta scorporando i dati dei due interventi mostra che non è possibile spiegare questi dati in base a un'azione di semplice modellamento. I Robinson ipotizzano che i progressi si spieghino in base al fatto che questi soggetti erano stati trattati come se avessero già capito il problema dell'ambiguità del referente e avevano assistito al rifiuto di agire da parte dello sperimentatore prima di avere ottenuto altre informazioni.

Il fatto che lo sperimentatore risponda chiedendo altre informazioni attira l'attenzione del soggetto sul messaggio e indica la presunzione che il parlante sia in grado di capire cosa c'era di inadeguato nel suo primo messaggio e di correggerlo. E' opportuno rilevare anche che, mentre la risposta "Non capisco cosa vuoi dire" utilizzata nella prima condizione, rende più esplicito in cosa consista il problema, essa assume anche la capacita' del parlante di capire l'insufficienza e correggerla.

I dati di questa ricerca non sembrano cosi' conclusivi come la discussione dei dati vuole fare credere. Soprattutto, e' difficile, sulla base di questi risultati, escludere che possa essere intervenuto un qualche meccanismo neo-comportamentista di modellamento. Infatti, i Robinson (1985) impostarono una situazione sperimentale più complessa per confrontare l'influenza sulla comprensione dell'ambiguità di tre diverse variabili. Il campione era costituito da soggetti che, in base al test di valutazione della comunicazione, dimostrarono di non avere ancora capito la questione dell'ambiguità del messaggio; la prova era una prova di scelta: parlante e ascoltatore avevano due insiemi uguali di cartoncini raffiguranti personaggi che variavano per il vestito e l'equipaggiamento; il compito dell'ascoltatore era di identificare il cartoncino che aveva in mente il parlante sulla base delle indicazioni fornite da quest'ultimo.

Condizione 1 - Lo sperimentatore aveva il ruolo di ascoltatore e forniva l'informazione indispensabile all'identificazione del cartoncino, ma solo dopo avere compiuto la propria scelta. Quindi, dopo un messaggio ambiguo da parte del soggetto e una scelta sbagliata da parte dello sperimentatore, questi diceva: "Non sapevo quale tu volessi effettivamente dire, perché ce ne sono tre come quello che hai indicato tu (indica i tre); ho solo tirato a indovinare, mentre avevo bisogno di avere più informazioni". In questo modo, lo sperimentatore indicava la propria difficoltà nell'identificare il cartoncino, illustrava il tipo di difficoltà, ma non faceva alcun riferimento al messaggio in sé prodotto dal bambino né al controllo del parlante sulla qualità del proprio messaggio. In altre parole, non trattava il bambino come se fosse in grado di capire la questione dell'ambiguità del messaggio.

Condizione 2 - Lo sperimentatore, quando deve rispondere a un messaggio ambiguo, mostra di essere incerto, muove la mano verso una delle possibili scelte mormorando "In effetti, non posso ancora scegliere". In questo caso, lo sperimentatore non fa alcun riferimento al messaggio, ma si comporta come se si aspettasse che il bambino capisca la sua difficoltà e intervenga in aiuto.

Condizione 3 - Lo sperimentatore aggiunge alla frase della condizione 2 "Non capisco cosa vuoi dire. Potrebbe essere questo, o questo o quest'altro (muovendo la mano verso tutti i possibili referenti). Ce ne sono tre che corrispondono, non so ancora quale intendi dire tu". Mentre continua a non esserci ancora alcun riferimento esplicito al messaggio, lo sperimentatore si comporta e parla come se si aspettasse l'aiuto del bambino.

I soggetti furono quindi sottoposti a un post-test, che comprendeva una prova di comprensione dell'ambiguità e due altre prove: la capacità di rifiutarsi di interpretare dei messaggi ambigui e la competenza nel produrre messaggi "facili" e "difficili". I risultati dimostrano in modo chiaro la superiorità delle ultime due condizioni nel migliorare la comprensione dell'ambiguità, mentre la spiegazione successiva all'identificazione non produsse miglioramenti. La condizione 3 non si e' dimostrata significativamente più efficace della condizione 2. Risultati analoghi sono stati ottenuti da Sonnenschein & Whitehurst (1984) mediante l'impiego di sei diverse strategie di apprendimento.

Questi risultati ci consentono di concludere sottolineando che la comprensione dell'ambiguità è un'abilità cognitiva sovra-ordinata alle abilità specifiche necessarie per manipolare i singoli elementi o per individuare velocemente le cause dell'ambiguità del messaggio.

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