Paola Lionetti

Problematiche psicosociali e psicodinamiche dell'affido familiare

L'applicazione piuttosto recente dell'istituto dell'affido familiare, quale evento temporaneo per sostenere, soccorrere, riparare situazioni di disagio familiare, ha sollevato non pochi problemi e interrogativi sia dalla prospettiva sociopsicologica, sia da quella affettivo-emozionale.

Dal primo punto di vista, essenzialmente inscritto nello schema di riferimento del cognitivismo, appare importante la valutazione del livello di conoscenza che i soggetti implicati nell'affidamento familiare, il bambino, la famiglia di origine e la famiglia affidataria, hanno della situazione nella quale vengono a trovarsi, trattandosi di una esperienza che implica da un lato l'essere nella condizione di ricevere aiuto, dall'altra in quella di chi porta aiuto. Se è vero, infatti, che il ricevere aiuto dovrebbe essere percepito come una azione che produce benefici, è vero anche che un aiuto non richiesto potrebbe turbare piuttosto che beneficiare il ricevente (Asprea, Villone Betocchi 1994).

Dal secondo punto di vista, riconducibile soprattutto all'ambito teorico psicoanalitico, diventano rilevanti le individuazioni e le elaborazioni dei vissuti di separazione e perdita, dei sentimenti di inadeguatezza, rivalità e gelosia, sia nella famiglia che subisce il distacco, sia in quella che accoglie a tempo determinato il bambino affidato, sia evidentemente, e in primo luogo, nel bambino stesso, soggetto involontario della procedura di affidamento. Se, infatti, per il bambino appaiono implicati in prima istanza i processi di attaccamento e di separazione, se per la famiglia di appartenenza entrano in gioco sentimenti di inadeguatezza, depressione e colpa (Albergamo 1992), nella famiglia affidataria si possono supporre attivati soprattutto sentimenti riferibili in senso lato a desideri di maternità o paternità, già realizzati oppure delusi, che tuttavia rinviano ad una distinzione, sul piano dei processi inconsci, tra il "desiderio di avere un bambino", e il "desiderio di essere genitore" (Baruffi 1979).

A partire da queste brevi considerazioni preliminari occorre dedicare una seppur veloce attenzione anche alle caratteristiche del contesto sociale nel quale si inserisce la problematica dell'affido; contesto sociale che, a causa dei profondi mutamenti avvenuti nella famiglia in questi ultimi anni, si presenta sicuramente più complesso e articolato di quello di un tempo (Oneroso 1986).

I bisogni delle famiglie sono mutati e sono andati differenziandosi sia nelle modalità di organizzazione della vita di coppia, sia nella quotidianità; è quindi estremamente arduo tracciare un unico o prevalente modello di nucleo familiare (Scabini 1990). Ciò che invece va sottolineato, è la presenza di una nuova forma di prassi solidaristica tra i contesti familiari: "...Dobbiamo riconoscere che va silenziosamente diffondendosi una nuova realtà di famiglia aperta alla solidarietà verso gli altri, pronta all'accoglienza di chi è in una situazione di grave difficoltà.." (Moro 1991, pag. 62)

Infatti, sono sempre più numerose quelle famiglie disponibili a costruire una autentica comunità familiare dove tutti i membri trovino occasione per crescere insieme; famiglie che esprimono la loro creatività anche attraverso una fecondità simbolica (il bambino affidato) e non soltanto biologica. Queste osservazioni, scaturite da una ricerca realizzata da Bramanti nel 1988, su famiglie che hanno avuto una o piú esperienze di affidamento eterofamiliare nel comune di Milano, portano alla tesi secondo cui nella società post-moderna vi è una continua richiesta di solidarietà intra ed inter familiare e non soltanto di spazi di realizzazione personale e sociale (Bramanti 1991). L'affido, pertanto, così come viene proposto dalla nostra legislazione, rappresenta un indicatore di questa tendenza evolutiva della famiglia contemporanea, basata, appunto, su forme di aiuto e di sostegno ai nuclei in difficoltà. Ma l'affidamento costituisce anche un segnale innovativo rispetto al tipo di rapporto che, negli anni passati, sussisteva tra il pubblico e il privato (Bramanti 1991, Quadrio 1989).

L'istituto dell'affidamento, introdotto in Italia dal 1983, ha come finalità precipua l'aiuto del minore inserito in contesti familiari problematici. L'obiettivo principale della legge è quello di mantenere ed eventualmente aiutare a ricomporre, i rapporti del bambino con i suoi genitori biologici, attraverso strumenti alternativi al ricovero in istituto, come ad esempio l'assistenza domiciliare, gli aiuti economici e psicologici ai nuclei in difficoltà (Solaro del Borgo Foglia 1990). Infatti il Tribunale dei minorenni prevede l'affidamento del bambino ad un'altra famiglia (cosiddetta affidataria) per un periodo di tempo determinato, solo quando l'ambiente familiare è particolarmente carente.

Ciò che la legge si propone, quindi, è di permettere una continuità educativa ad un minore in un periodo di crisi della sua famiglia, senza interrompere il suo rapporto con quest'ultima, anzi trovando persone (operatori sociali, coppie affidatarie) capaci di favorire il ritorno del bambino ad essa (Dell'Antonio 1989).

In tal modo l'affidamento non deve essere inteso come un intervento di sanzione ma come un intervento di sostegno al nucleo familiare, mentre l'affidatario assume un ruolo ausiliario ed integrativo rispetto al ruolo dei genitori, che non viene giuridicamente modificato (Dell'Antonio 1989).

Lo scopo del presente lavoro consiste nel porre in evidenza alcuni aspetti problematici relativi alle dinamiche relazionali tra il bambino ed i genitori affidatari, attraverso il contributo di Autori appartenenti tanto all'area psicoanalitica quanto all'area psicosociale.

Problematiche dell'affido nella famiglia affidataria

L'affidamento familiare può essere considerato, relativamente alla famiglia affidataria, un processo scandito in varie fasi. La prima fase riguarda senz'altro la nascita e l'elaborazione dell'idea dell'affido. Nella coppia richiedente è soprattutto la donna che decide di vivere questa particolare e non facile esperienza; è lei, infatti, che si muove per avere informazioni, che si mostra disponibile a riorganizzare il suo tempo di lavoro (Bramanti 1992). D'altro canto, sebbene l'esperienza dell'affido coinvolga l'intero nucleo familiare, è proprio la presenza della figura femminile a giocare un ruolo di primo piano, poiché, nonostante il cambiamento dei modelli e dei ruoli, è la donna ad essere in grado più di tutti di coordinare gli impegni domestici, educativi e lavorativi dell'intera famiglia (Bramanti 1992). Questa capacità di allestire luoghi di accoglienza è, secondo Gilligan (1987), una caratteristica intrinseca all'identità femminile, che si definisce proprio da un punto di vista interpersonale, nella relazione con l'altro. Le donne sono, cioè, più orientate dei loro compagni a prendersi cura delle cose e delle persone, sono tessitrici di relazioni affettive, sociali e politiche.

L'affido, pertanto, è auspicabile in quei nuclei dove esiste una figura femminile in grado di svolgere un ruolo di regia di tutta quella complessa rete di relazioni in cui è giocata l'intera esperienza (Bramanti 1992)

La seconda fase del percorso che porta all'affido riguarda le motivazioni che inducono le coppie affidatarie ad accogliere un minore in difficoltà.

Bramanti (1991) sostiene che, nella maggior parte dei casi, prevalgono motivazioni connotate da una valenza fortemente altruistica, mentre sono nettamente poco frequenti motivazioni strumentali, cioè funzionali all'educazione o alla compagnia di figli propri. Tuttavia Fadiga (1988) avanza l'ipotesi che l'affidamento familiare talvolta possa nascondere (nella madre affidataria) un desiderio di adozione mascherata. Secondo la teoria psicoanalitica, il desiderio di maternità tenderebbe ad innescare nella psiche femminile un confronto con l'imago materna, portatore a sua volta di ansie e conflitti legati al periodo edipico (Lebovici, Soulè 1970). Freud (1932) infatti sostiene che nell'identificazione della donna con sua madre è possibile distinguere due livelli: "Quello preedipico, basato sul tenero attaccamento alla madre e quello successivo, risultante dal complesso edipico, che vuole eliminare la madre e mettersi al suo posto presso il padre" (Freud 1932, trad. it. pag. 532). Con la maturità, però, poiché entrambi questi livelli non vengono mai persi del tutto, la donna instaura con la propria figura materna un rapporto connotato da un'ambivalenza che permane per tutta la vita (Freud 1932).

Sulla base di queste considerazioni è ipotizzabile, quindi, che la madre affidataria, coinvolta nella dinamica dell'affido, tende a proiettare l'originaria ambivalenza, determinata dal confronto con l'imago materna, sulla madre biologica del bambino. Quest'ultima, così, può apparire, alla madre affidataria, onnipotente in quanto genitrice reale ma allo stesso tempo oggetto di aggressività, in quanto portarle via il figlio deliberatamente (attraverso l'adozione) significherebbe castrarla. Di qui nascerebbe anche un grande senso di colpa (Lebovici, Soulè 1970). La madre affidataria, dunque, per evitare il conflitto (conseguente al senso di colpa) tenderebbe a nascondere il desiderio di adozione attraverso un apparente consenso alla durata limitata dell'affido (Lebovici, Soulè 1970).

I fatti sembrano confermare questa ipotesi, poichè un alta percentuale di affidi si conclude in una adozione da parte della famiglia affidataria (Fadiga 1988). Si comprende, quindi, la centralità del ruolo dei Servizi Sociali e Sanitari integrati (psicologi, assistenti sociali) nel valutare quali siano le reali motivazioni che spingono un nucleo familiare a richiedere, affrontare e vivere l'esperienza dell'affido. Se, infatti, è facile individuare una famiglia non idonea da un punto di vista educativo, è estremamente difficile indicare quale sia quella ideale per un affidamento. Secondo Cattabeni (1989) un'analisi accurata delle motivazioni, e quindi delle capacità genitoriali delle coppie aspiranti affidatarie, è di estrema importanza, in quanto consente di stabilire degli abbinamenti mirati tra un minore bisognoso di aiuto ed una particolare famiglia. Questo Autore ritiene necessario che la coppia (affidataria) abbia una buona capacità di tollerare frustrazioni derivanti da un atteggiamento particolarmente ostile del minore. Secondo l'ottica bowlbiana tale comportamento, definito "collera funzionale" (Bowlby 1973, trad. it. pag. 315), è determinato dall'estraneità delle nuove figure (genitoriali) ritenute responsabili della separazione dai genitori naturali, ed ha lo scopo di favorire il ricongiungimento con le figure parentali.

La coppia affidataria, inoltre, dovrebbe essere in grado di tollerare le regressioni profonde, da parte del bambino, conseguenti al trauma dell'abbandono. L'atteggiamento degli adulti, quindi, basato su una totale disponibilità ai bisogni del bambino, è determinante nell'impedire che tali regressioni possano stabilizzarsi, provocando, in analogia con quanto afferma A. Freud (1965), dei notevoli conflitti interni, causa di vere e proprie nevrosi infantili.

Il nucleo affidatario, infine, dovrebbe essere composto da persone con una buona dose di autostima che non necessitino di continue rassicurazioni narcisistiche (Cattabeni 1989). A questo proposito Cattabeni sostiene che un ottimo strumento di autovalutazione per la coppia affidataria, consiste senz'altro nella partecipazione ad incontri con altre famiglie affidatarie, utili anche per la conoscenza di esperienze dal vivo con cui confrontarsi.

Analogamente, Selvini (1988) ritiene indispensabile l'esperienza in gruppo (delle famiglie affidatarie) perché favorisce una generale sensibilizzazione alle difficoltà di fondo, tipiche di questa particolare esperienza.

Costantemente sullo sfondo resta, purtroppo, la famiglia di origine con tutte le ansie e i conflitti conseguenti all'angoscia della separazione. La comunità sociale, infatti, spende molto di più per il ricovero dei bambini in istituto, di quanto destina in servizi di prevenzione e sostegno ai nuclei in difficoltà (Cattabeni 1989).

In genere, le ragioni che determinano l'allontanamento del minore dalla propria famiglia, sono sicuramente condizioni di negligenza materiale ed affettiva, ossia l'incapacità delle figura genitoriali di fornire tutte quelle cure "abbastanza buone" di cui parla Winnicott (1965) indispensabili per un armonico sviluppo della personalità.

Tuttavia, quale che sia il motivo per il quale il nucleo familiare viene a trovarsi in difficoltà, l'impasse rischia di aumentare notevolmente proprio a causa dell'atteggiamento sociale di condanna e di valutazione negativa nei confronti dei suoi componenti (Cattabeni 1989). Conseguenza immediata di questo processo di colpevolizzazione della famiglia di origine è un sicuro deterioramento dei rapporti del bambino con i suoi genitori. Dell'Antonio (1989), infatti, ritiene che diventa arduo, a questo punto, stabilire se questo deterioramento sia imputabile ai genitori naturali che hanno abdicato al loro ruolo, o agli affidatari che, con la loro presenza, hanno colpevolizzato la famiglia di origine, rendendo il bambino estraneo alla sua esperienza precedente.

Da questo punto di vista occorrerebbe che gli operatori sociali dedicassero più tempo ad evitare l'allontanamento del minore dalla propria famiglia anziché ricercarne una idonea sostitutiva.

Ciò che invece frequentemente si verifica è una competizione tra le due famiglie (quella naturale e quella affidataria) non disgiunta da un senso di possesso del minore sia da parte di chi lo ha generato sia da parte degli affidatari. In tal modo, la famiglia biologica vive l'affido come un'espropriazione del bambino, mentre gli affidatari vedono la collaborazione dei genitori di origine come una modalità di intrusione nel compito che sono tenuti a svolgere (Dell'Antonio 1989).

Le modalità di reazione del bambino a questa situazione sono così facilmente intuibili: "La scelta di famiglia che gli viene sostanzialmente richiesta... non lo aiuterà a uscire dal suo disagio, ma lo caricherà di problemi di lealtà, di sensi di colpa e di timori di abbandono" (Dell'Antonio 1989, pag. 49).

Probabilmente ciò che più temono gli affidatari è che il bambino, avendo un doppio ambito di riferimento, preferisca i genitori naturali a loro: "E' la paura che il romanzo familiare possa essere vissuto nella realtà" (Lebovici, Soulè 1970). Questi Autori, infatti, sostengono che sono proprio i fanciulli dati in affidamento a dar credito a questa fantasia (conscia) per agire contro quelle persone (gli affidatari) ritenute colpevoli della separazione dai genitori naturali: "Il bambino affidato elabora un romanzo familiare, nel tentativo di dare una base al suo narcisismo e alle sue identificazioni..." (Lebovici, Soulè 1970).

E' facilmente intuibile, quindi, il disagio che investe il minore privato della sua famiglia, soprattutto quando non è stato opportunamente preparato al cambiamento. Tuttavia, anche quando questo accade, quando cioè vi è una collaborazione tra le due famiglie nel dare le giuste informazioni circa la nuova situazione, è possibile constatare una certa resistenza all'affidamento da parte del bambino (Sardena 1991). E per questo motivo, dunque, che Dell'Antonio (1989) ritiene auspicabile che la legislazione preveda (anche) un eventuale consenso del minore all'inserimento in un'altra famiglia.

L'arrivo del minore in famiglia

L'arrivo del minore in famiglia rappresenta senz'altro la fase più delicata di tutto il procedimento, poichè dà origine a dei cambiamenti sia sul piano delle relazioni sia su quello della riorganizzazione del tempo e dello spazio familiari.

Per il bambino la situazione è estremamente più complessa: essendo immesso in un contesto a lui nuovo, ed incapace com'è di comprendere oggettivamente la situazione, tende a vivere l'esperienza dell'affido come un vero e proprio lutto (Freud 1915).

La difficoltà maggiore (per il bambino) consiste non solo nel dover accettare la perdita della figura materna ma soprattutto nel dover riorganizzare il comportamento di attaccamento e dirigerlo verso nuove figure (Bowlby 1973).

Analogamente la Klein (1952) ritiene che la separazione sia una variabile chiave nel determinare lo stato emotivo di un bambino, poichè se interviene prima della "costanza dell'oggetto" produce un'intensificazione dell'angoscia (depressiva) con conseguenti vissuti di depressione e sentimenti di colpa.

Sono queste le ragioni per le quali la famiglia affidataria, per poter accogliere nel suo interno un bambino con vissuti abbandonici e, quindi potenzialmente disturbante (per il nucleo), dovrebbe avere una struttura interna sufficientemente salda.

Dovrebbe, cioè, dimostrare una forte flessibilità di adattamento, ossia essere in grado di esercitare un controllo sull'ambiente esterno ed avere nel suo interno personalità fortemente strutturate (Barbero Avanzini, Lanzetti 1980).

Purtroppo, però, il più delle volte gli affidatari non riescono ad interpretare correttamente il comportamento ostile nei loro confronti, tanto da essere portati o a ritenere il bambino come cattivo, o a ritenersi incapaci del loro compito (Cattabeni 1984). Essi, cioè, fanno confusione tra situazione oggettiva e soggettiva: "Si è portati.. a pensare che il bambino, specie se è stato preparato al cambiamento, sappia che la nuova situazione è migliore per lui e che quindi egli non possa essere che contento di incontrare persone più disponibile alle sue necessità" (Cattabeni 1984, pag. 21). In realtà le cose stanno diversamente; il bambino per la sua immaturità, vivendo cioè in un "hic et nunc" pressoché infinito ed essendo quindi incapace di proiettarsi nel futuro, non comprende la temporaneità della situazione (la durata limitata dell'affido) ma la vive come definitiva. In altri termini, egli non comprende di avere (temporaneamente) delle nuove figure adulte cui fare riferimento, ma di aver perso per sempre le sue uniche garanti della sua identità. Ne consegue una situazione estremamente conflittuale per il bambino, responsabile dell'instabilità sia delle percezioni esterne sia di quelle interne: "Gran parte delle sue energie saranno, allora utilizzate non ai fini di strutturare stabilmente il proprio Io, ma per adattarsi continuamente al variare della sollecitazioni" (Mayer, Guidetti 1979, pag. 369). Lo spreco di queste energie, secondo quanto afferma Green (1979) porta il bambino a modificare la propria realtà psichica, creandosi delle difese che lo mutilano gravemente. Del resto anche A. Freud (1944) ritiene che un massiccio utilizzo di meccanismi difensivi induce il bambino a rinchiudersi in un narcisismo che, se da una parte lo protegge dalla possibilità di destrutturazione dall'altra lo impoverisce nei rapporti oggettuali. Gli affidatari, pertanto, dovrebbero dare la possibilità al minore di potersi progressivamente decondizionare prima di chiedergli di entrare in transazioni adeguate ai messaggi che gli arrivano dalla nuova realtà (Cattabeni 1984).

I bisogni del minore

Per trarre il massimo giovamento dall'istituto dell'affido il bambino ha bisogno soprattutto di sentirsi accettato per quello che è; dunque la relazione affidato-affidatari non può che nascere a partire da un'attitudine materna (amore incondizionato) da parte degli affidatari (Cattabeni 1984).

Tuttavia, ciò che rende complessa questa relazione è il fatto che va strutturandosi tra due realtà, il bambino e la coppia affidataria, completamente diverse: il minore che ha una storia pregressa su cui agisce il conflitto non risolto con i genitori di origine, ed è portatore a sua volta di vissuti depressivi e sensi di colpa (la famiglia lo ha abbandonato perché lui è stato cattivo); gli affidatari che hanno un nucleo composto da piú persone organizzate in funzione dei bisogni di ciascuno.

Accade spesso, infatti, che la nuova famiglia imponga all'affidato schemi di riferimento molto diversi da quelli del suo precedente ambiente. Dell'Antonio (1989) sostiene che le difficoltà di adattamento ,in questo caso, sono dovute al fatto che la capacità di controllo delle situazioni e le modalità di affermazione apprese in precedenza possono rivelarsi inutili, e porre nuovamente il bambino in posizione di dipendenza e impotenza

Ad esempio, bambini abituati ad esprimere in modo estemporaneo le proprie emozioni possono trovarsi a disagio in un nucleo dove è fondamentale l'autocontrollo.

Ulteriori difficoltà possono sorgere quando il minore fa l'ingresso in un nucleo familiare coinvolto in dinamiche disfunzionali che vengono ulteriormente deteriorate dalla sua presenza.

Alcuni Autori (Solaro 1990, Cirillo 1986) avanzano l'ipotesi che talvolta la richiesta di affido nasconda il desiderio inconscio da parte degli affidatari, di risolvere preesistenti squilibri al loro interno. Ad esempio, genitori che vivono come una perdita la caduta dei rispettivi ruoli nei confronti dei figli che crescono, e che non riescono più a trovare un'adeguata immagine sostitutiva di sé.

In ogni caso, in una famiglia, l'arrivo di un nuovo componente che è portatore di cambiamenti nelle dinamiche relazionali, può suscitare, tra i membri che la compongono, sentimenti di intolleranza e gelosia. Sentimenti che hanno un effetto boomerang, in quanto si ritorcono sull'affidato il quale, in questo caso, reagisce strutturando un senso di vuoto interiore o vissuti di emarginazione e di rifiuto (Dell'Antonio 1989).

Infine, ulteriori disagi psicologici (nel bambino) possono riscontrarsi quando non sono stati ben definiti dagli operatori sociali il ruolo e le funzioni degli affidatari. Selvini (1988) infatti sostiene che in molte coppie affidatarie sono presenti "illusioni di onnipotenza", che di sovente sfociano in attriti e conflitti con il nucleo di origine. E' ovvio come le due parti in questione (affidatari e famiglia di origine) possano venire a trovarsi in una posizione di competizione per il possesso del bambino. Gli operatori sociali, allora, potrebbero magari senza rendersene conto, incorrere nel rischio di sostenere il conflitto anziché risolverlo: "Essi possono infatti prendere le parti dell'uno o dell'altro.. dando fiducia e sostegno a uno di loro e creando.. senso di potenza in questo e sentimenti di inadeguatezza, ma anche di rivalsa nell'altro" (Dell'Antonio 1989, pag. 83). Inoltre Selvini (1988) ritiene che un sostegno troppo individualistico agli affidatari non è auspicabile poichè rischierebbe di facilitare un rapporto di dipendenza tra l'esperto e la famiglia.

Pertanto, affinché l'affidamento raggiunga l'obiettivo fondamentale, cioè il rientro del bambino nella famiglia di origine, sarebbe indispensabile che i servizi sociali e sanitari adottassero delle strategie adeguate nel valutare determinati elementi della situazione.

Alcuni Autori (Dell'Antonio 1989, Fadiga 1988, Cattabeni 1984) ritengono che le variabili chiave indispensabili per un esito positivo di tale provvedimento sono essenzialmente: le reazioni del bambino alla proposta di un suo eventuale affidamento, le relazioni che egli ha stabilito con i suoi genitori, il modo in cui questi hanno reagito all'idea di un allontanamento del proprio figlio dal nucleo familiare ed infine la capacità di coloro che si sono offerti ad accogliere il minore in difficoltà.

Tuttavia Sardena (1991), in analogia con quanto afferma Bowllby (1953) e Soulè (1969), sostiene che talvolta un soggiorno temporaneo del bambino in un ambiente neutrale, come l'istituto, possa aiutare psicologicamente il minore ad accettare l'idea di andare temporaneamente in un'altra famiglia. Naturalmente la permanenza in istituto deve avere uno scopo preciso ed un tempo determinato, altrimenti rischia di alimentare una adesione superficiale alla realtà (A. Freud 1944). Resta comunque essenziale il reperimento di una famiglia affidataria, poichè il bambino al fine di strutturare una personalità armonica ha bisogno di sperimentare un rapporto triadico (Argentieri 1985), di trovare stimoli per identificazioni positive ed apprendere modelli di comportamento che l'ambiente istituzionale certamente non può offrire.

Da quanto esposto, risulta chiaro come l'affido generi nei suoi protagonisti diretti, il bambino, la famiglia di origine e gli affidatari processi psicosociali, dinamiche emozionali altamente complesse.

Di conseguenza il ricorso tout court a questo istituto non ne garantisce di per sé la terapeuticità, ma anzi vi sono alcune condizioni per le quali esso si rivela addirittura antiterapeutico e fattore di rischio psicopatologico sia per il minore sia per i due nuclei familiari interessati. Ovviamente, con ciò non si vuole negare l'importanza storica e operativa di questo strumento che ha contribuito e tuttora contribuisce a ridurre le situazioni di istituzionalizzazione dei minori.

Tuttavia, è necessario che l'affidamento venga effettuato nel modo più corretto possibile. Gli operatori psicosociali, quindi, dovrebbero considerare l'allontanamento del minore dalla propria famiglia come soluzione estrema cui ricorrere.

Ma soprattutto dovrebbero adottare delle strategie adeguate al fine di valutare correttamente quali siano le reali motivazioni che spingono la coppia richiedente a vivere questa particolare esperienza.

Bibliografia

AA.VV. (1979), Il desiderio di maternità, a cura di L. Baruffi, Boringhieri, Torino.

Albergamo M. (1992), "Il problema dell'affido familiare nel vissuto delle assistenti sociali" in La presenza di G. Iacono nella Psicologia italiana, (Pubbl. dei Dip. di Scienze relazionali, Univ. di Napoli - Dip. di Psicologia, Univ. cattolica, Milano - Ist. di Psic., Fac. Medica Univ. di Milano).

Argentieri S. (1985), "Sulla cosiddetta disidentificazione della madre", in Rivista di Psicoanalisi, ndeg.3, lugl/sett.

Asprea A. M., Villone Betocchi G. (1993), Studi e ricerche sul comportamento prosociale, Liguori, Napoli.

Barbero B., Lanzetti C. (1980), Problemi e modelli di vita familiare, Vita e Pensiero, Milano.

Bowlby J. (1953), Child care and the growth of love, London, Penguin Book; trad. it. Assistenza all'infanzia e sviluppo affettivo, Armando, Roma, 1973.

Bowlby J. (1973), Separation anxiety and anger, London, Hogart Press; trad. it. La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino, 1978.

Bramanti D. (1991), Le famiglie accoglienti. Un'analisi sociopsicologica dell'affidamento familiare, Angeli, Milano.

Bramanti D. (1992), Essere bambini oggi, Vita e Pensiero, Milano.

Cattabeni G. (1984), "Il minore in affido: problemi affettivi, psicologici e sociali", in Prospettive assistenziali, ndeg.66, apr/giu.

Cattabeni G. (1989), "Le due famiglie", in Quaderni di Promozione sociale, Rosenberg & Sellier, Torino.

Cirillo S. (1986), Famiglie in crisi e affido familiare, La Nuova Italia Scientifica, Roma.

Dell'Antonio A. (1989), La consulenza psicologica per la tutela dei minori, La Nuova Italia Scientifica, Roma.

Fadiga L. (1988), "Attuale tendenza dell'affido familiare in Italia", in Atti del Convegno: "L'affidamento: Dalla parte della famiglia affidataria", a cura del CAM, Centro Ausiliario per i Problemi Minorili.

Freud A. (1944), Infants without family, London, G. Allen & Unwin, trad. it. Bambini senza famiglia, Astrolabio, Roma, 1972.

Freud A. (1965), Normality and pathology in childhood, Intern. Univ. Press, trad. it. Normalità e patologia del bambino, Feltrinelli, Milano, 1970.

Freud S. (1915), "Lutto e Melanconia", in Introduzione alla Psicoanalisi, Boringhieri, Torino.

Freud S. (1932), "Sessualità femminile" in Introduzione alla Psicoanalisi, Boringhieri, Torino.

Gilligan C. (1987), Con voce di donna, Feltrinelli, Milano.

Green A. (1979), "Il bambino modello", in AA.VV., Il bambino nella psicoanalisi, Savelli, Roma, 1981.

Holms J. (1993), John Bowlby and Attachment Theory, trad. it. John Bowlby e la teoria dell'attaccamento, Cortina, Milano, 1994.

Klein M. (1952), Some theoretical conclusions regarding the emotional life of the infants, trad. it. in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino.

Lebovici S., Soulè M. (1970), La connaissance de l'enfant par la psychanalyse, Press. Univ. de France, trad. it. La conoscenza del bambino e la psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1974.

Mayer R., Guidetti V. (1979), "La depressione mascherata nell'infanzia", in Neuropsichiatria infantile, fasc. 214, 361-368.

Moro A. C. (1991), "La famiglia italiana degli anni `90", in La Famiglia, La Scuola, Brescia.

Oneroso F. (1986), "Famiglia e mutamento sociale" in Psicologia e società, 2, 1986.

Quadrio A. (1989), "Qualche considerazione sul rapporto pubblico-privato", in Giustizia norme e autoregolazione in psic. sociale, a cura di F. Oneroso Di Lisa, Liguori, Napoli.

Sardena M. (1991), "L'aiuto al bambino deprivato o abbandonato e la scelta della struttura e dei modi di accoglienza", in Consultorio Familiare, CIEFFE, Padova

Scabini E. (1990), "Spinte alla frammentazione e attivazione di risorse solidaristiche nella famiglia contemporanea", in AA.VV, La solidarietà per il superamento di emarginazione, solitudine e razzismo, Vita e Pensiero, Milano.

Selvini M. (1988), interventi nel Convegno: L'Affidamento dalla parte della famiglia affidataria, a cura del CAM, Centro Ausiliario Per i Problemi Minorili.

Solaro del Borgo Foglia M. (1990), Aspetti sociologico-giuridici dell'affidamento etero-familare, Ediz. Unicopli, Milano.

Soulè M., (1969), Le placement familiale, trad. it. L'affidamento familare, Armando, Roma 1971.

Winnicott D. W. (1965), The family and the individual development, Tavistock Public.; trad. it. La famiglia e lo sviluppo dell'individuo, Armando, Roma.